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La figlia del capitano e Storia di Pugacev
La figlia del capitano e Storia di Pugacev
La figlia del capitano e Storia di Pugacev
E-book313 pagine4 ore

La figlia del capitano e Storia di Pugacev

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Cura e traduzione di Mauro Martini

Edizioni integrali

Seguendo le vicende del contrastato amore tra Pëtr Grinëv e Maša Mironova, sullo sfondo di una Russia attraversata dalla rivolta del cosacco Emel’jan Pugačëv, Puškin porta a compimento la propria tormentosa interrogazione sul potere russo iniziata con la tragedia Boris Godunov. Pur ricco di puntuali riferimenti alla storia russa, La figlia del capitano non può essere sbrigativamente etichettato come «romanzo storico», tanto più se paragonato alla Storia di Pugačëv, più fortemente basata su una ricca messe di materiali documentari e di testimonianze. La tensione narrativa, la ricchezza stilistica, la decisa capacità di coinvolgere il lettore fanno della Figlia del capitano e della Storia di Pugačëv due opere godibili che riformulano i grandi temi dello spirito russo restituendone intatto il forte impatto letterario.

Aleksandr Puškin

Aleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837), nato a Mosca e morto in seguito alle ferite ricevute in un duello, è il fondatore della letteratura russa moderna e ha incarnato il disagio dell’intellettuale russo di fronte al potere zarista. Fin dal 1819, infatti, si legò agli ambienti progressisti antizaristi ispirati dalle idee illuministiche per cui fu sempre ostacolato dai rappresentanti del regime, forse indiretti responsabili anche della sua morte violenta. Tra le sue opere principali vanno ricordate Evgenij Onegin (1823-1831), Boris Godunov (1825) e I racconti di Belkin (1830).
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2011
ISBN9788854130470
La figlia del capitano e Storia di Pugacev

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    Grazioso romanzo storico anche se ben lontano dal suo modello inglese; interessante, invece, il piccolo trattato sulla rivolta che offre un punto di vista particolare ed accende l'interesse per saperne di più

Anteprima del libro

La figlia del capitano e Storia di Pugacev - Aleksandr Sergeevič Puškin

284

Titoli originali: Kapitanskaja dočka - Istorija Pugačëva

Traduzione di Mauro Martini

Prima edizione in questa collana: febbraio 2011

© 1995, 2011 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-3047-0

www.newtoncompton.com

Edizione elettronica realizzata da Gag srl

Aleksandr Sergeevič Puškin

La figlia del capitano

e

Storia di Pugačëv

Cura e traduzione di Mauro Martini

Edizione integrale

Newton Compton editori

Introduzione

Il 19 ottobre 1836 è nella vita di Aleksandr Sergeevič Puškin una giornata a tutti gli effetti particolare. Poche ore vi sono dedicate al lavoro, dal momento che ricorre il venticinquesimo anniversario dell’apertura del Liceo di Carskoe Selo e il banchetto esige la presenza del poeta che, com’è consuetudine, ha il dovere di celebrare in versi l’avvenimento. Ma quelle poche ore segnano comunque alcuni punti fermi. Il 19 ottobre 1836 è la data che compare in calce alla stesura in bella copia della Figlia del capitano, a conclusione di un’intensa revisione, costellata da numerosi ritocchi e aggiustamenti, del testo approntato in brogliaccio già nel luglio precedente (il 22, per l’esattezza). Il 19 ottobre 1836 è altresì la data di una lunga lettera mai spedita a Čaadaev, in cui Puškin, accusando ricevuta del fascicolo della rivista Teleskop che ospitava la prima delle «Lettere filosofiche», prende nettamente le distanze dalle riflessioni dell’amico. E necessariamente il 19 ottobre 1836 è la data di composizione dei versi dedicati al Liceo, versi rimasti tuttavia incompiuti. Uno dei convenuti al banchetto serale in casa Jakovlev ha lasciato il racconto della lettura di quel canto: si sa quindi che Puškin declamò i suoi versi con le lacrime che gli rigavano il volto, che nel silenzio generale posò il foglio sulla tavola e si allontanò per mettersi a sedere su un divano in un angolo della stanza. Questa testimonianza è stata a più riprese utilizzata dai biografi del poeta per rafforzare la tesi di un suo malessere spirituale. Minor attenzione invece è stata prestata all’asperità tematica del canto che marca un’importante svolta nella sensibilità Puškiniana.

Il Liceo era stato il prodotto di una delle tante velleità riformatrici dello zar Alessandro I. Secondo il progetto originario, esso avrebbe dovuto consentire ai rampolli della famiglia imperiale di avere un’educazione al di fuori del non esaltante ambiente di corte, di frequentare regolari e impegnativi corsi insieme ai figli della miglior nobiltà che a loro volta sarebbero stati trasformati in quadri competenti della futura amministrazione dell’impero. Le cose nella realtà erano andate diversamente: i fratelli minori di Alessandro, Nicola e Michajl, erano rimasti estranei all’iniziativa, mentre ai giovani nobili, riuniti in una dépendance della residenza estiva di Carškoe Selo, era stata a conti fatti riservata un’istruzione un po’ confusa, analoga a quella d’un istituto superiore, sicuramente non finalizzata agli scopi iniziali. Se il Liceo un risultato l’aveva avuto, questo era consistito nel creare una sorta di sensibilità comune tra coloro che l’avevano frequentato, adolescenti pur sempre selezionati che tra le mura scolastiche avevano vissuto l’epopea napoleonica, la guerra patriottica del 1812, la sconfitta di Bonaparte ad opera della Russia, l’anelito alla libertà delle generazioni più giovani. Una sensibilità così esasperata da consentire a quei ragazzi di sentirsi partecipi in prima persona di avvenimenti vissuti da altri. Ancora nel 1831 Puškin, chiamato a celebrare in versi il ventennale del Liceo, pur consapevole che «... aliti di tempeste terrene anche noi casualmente sfiorarono», non si risparmiava l’uso della prima persona plurale nell’evocazione di eventi presentati invece come frutto diretto dell’opera dei liceali (e basti il verso: «Bruciammo Mosca; Parigi ci fu schiava»). Cinque anni dopo, nulla rimane dell’entusiasmo preservato per due decenni buoni: di fronte agli antichi compagni ammutoliti, Puškin punta tutta la sua argomentazione sui mutamenti imposti dal quarto di secolo trascorso. «Sempre meno s’ode tra i canti il riso. Sempre più sospiriamo e tacciamo», s’è spenta l’eco dei festosi brindisi in onore di «sane speranze», ma soprattutto è sparito quel senso, apparentemente artificioso, di compartecipazione: agli ex liceali viene riservato il più realistico ruolo di semplici testimoni. E non a caso i versi si interrompono là dove subentra l’immagine dell’uragano di nuove nubi che si vanno addensando sulla terra, come se il poeta non fosse in grado di continuare, vittima ormai di un’impotenza che, contrariamente al passato, viene applicata anche retrospettivamente.

Se è lecito gravare simbolicamente una data ben precisa di ben più complessi significati, elevandola al rango di definizione temporale d’una frattura esistenziale, allora non v’è dubbio che quel 19 ottobre 1836 segni per Puškin la conclusione dichiarata di un ben preciso periodo della sua vita. Non che il passato perda improvvisamente di peso e d’importanza. Lo comprovano se non altro le lacrime versate sulla declamazione di quell’addio allo «spirito del Liceo», spirito che proprio Puškin aveva, più di altri, costruito e tenuto in vita, nutrendolo anzi, nella sua opera, di continui rimandi linguistici e tematici comprensibili soltanto a chi di quello spirito era partecipe. E lo testimoniano altresì le pagine conclusive della Figlia del capitano, in cui, descrivendo Carskoe Selo, l’autore allenta il ritegno narrativo che conferisce al romanzo quella sua straordinaria tensione stilistica. Ma come esordisce il canto per il venticinquesimo anniversario del Liceo, byla pora, ossia c’è stata una stagione, una stagione che, appunto, non c’è più.

In quell’autunno del 1836 quindi Puškin non è soltanto vittima di un malessere spirituale. È pur vero che mancano soltanto tre mesi alla sua morte e che egli sente il progressivo stringersi di quella morsa che di lì a poco gli imporrà di aggrapparsi alla difesa dell’onore coniugale come unica via, sia pur votata alla sconfitta, per preservare il suo onore di uomo, di poeta e di intellettuale. Ma quel malessere non gli impedisce di giocare fino all’ultima tutte le sue carte nell’incredibile partita, cominciata esattamente un decennio prima, con il potere imperiale. Una partita dalla posta assai elevata: l’esperimento della possibilità di rimanere uomo spiritualmente e intellettualmente libero senza rompere con un contesto che tale possibilità costantemente nega. Ed è proprio in quell’autunno del 1836 - che a Puškin senza dubbio ricorda l’altro suo magico autunno, quello di Boldino nel 1830, laboratorio di tante sue celebri opere - che il poeta porta a compimento una sua personale transizione, tesa a distaccarlo dal passato e a fornirgli nuovi strumenti per la prosecuzione della sua sfida esistenziale.

Transizione personale, ma al tempo stesso tutta «politica», perché vissuta nella consapevolezza dell’identità di destini tra il poeta e la Russia. E di tale transizione, La figlia del capitano, ben lungi dall’essere un racconto per l’infanzia o un romanzo prettamente storico, è la più completa rappresentazione. Si tralascino gli elementi autobiografici, già indirettamente presenti: il già citato ricordo di Carskoe Selo oppure il clima nella famiglia Grinëv alla notizia della condanna del figlio, rievocazione dell’analoga atmosfera vissuta in casa Puškin nel 1820 allorché il giovane poeta ebbe i primi guai politici in seguito alla pubblicazione di versi considerati sediziosi. E non si annetta eccessivo valore ai pur precisi rimandi storici, maggiormente apprezzabili grazie a un continuo confronto con la Storia di Pugačëv. L’interpretazione corrente vuole che La figlia del capitano sia in sostanza la narrazione del modo in cui la storia travolge nel suo passaggio i destini individuali, i destini di coloro che degli eventi possono essere soltanto le vittime e non i protagonisti. Una vicenda che, proprio in virtù del racconto dell’amore contrastato tra Grinëv e Maša Mironova, si accosterebbe, fatta salva l’assenza del ruolo salvifico della Provvidenza a quella dei manzoniani Promessi sposi. E tale interpretazione si fonda sull’attività storiografica di Puškin, sulle sue ricerche archivistiche e documentarie, sui suoi scritti dedicati in modo particolare al Settecento, che nel romanzo troverebbero una loro sorta di sistemazione teorica. Eppure tale chiave di lettura, anche se rigorosamente argomentata, non rende piena giustizia alla complessità della Figlia del capitano.

La sequenza logica imposta da quest’interpretazione suggerirebbe quindi, tanto per fare un esempio, la filiazione diretta del Pugačëv del romanzo dal Pugačëv della Storia, pubblicata ben due anni prima, nel 1834. Già Marina Cvetaeva ha osservato come tale procedimento sia in realtà impraticabile. Non soltanto La figlia del capitano è scritta da un poeta e la Storia di Pugačëv da un prosatore (e in una prosa, vale la pena di aggiungere, non sempre riuscita: si veda la mancata occasione delle pagine conclusive, quelle concernenti l’esecuzione del ribelle, risolte, come per una sorta di ritrosia, col ricorso a una testimonianza dell’epoca). In realtà Puškin non si è lasciato affatto condizionare dalle ricerche storiche per elaborare la sua immagine di Pugačëv: al contrario, prima si è creato un suo Pugačëv e poi si è sforzato di riconoscerlo nel materiale via via raccolto. Studiosi di valore si sono misurati col tentativo di fissare la puntualità storiografica Puškiniana, e basti citare un Ovčinnikov che ha scandagliato con tutti i possibili riscontri archivistici proprio le pagine Pugačëviane. Ma tutti sembrano ignorare il grande difetto «professionale» di Puškin che è quello di forzare la storiografia ai suoi personali interrogativi e di negare pregiudizialmente valore ai documenti rimasti muti di fronte a tali interrogativi. E non potrebbe essere altrimenti: il poeta in questo è decisamente figlio del suo tempo, di decenni che vedono sì aumentare l’interesse dei lettori nei confronti delle opere storiche, determinando così l’impensabile successo editoriale della Storia dello Stato russo di Karamzin, ma solo perché spinti dall’interesse per il proprio presente, per un’attualità sconvolta dagli eventi degli anni Dieci e Venti del secolo scorso. Alla storiografia non si chiedono ricostruzioni, ma solo interpretazioni. Ed è sulla base di quest’esigenza che dilagherà la successiva storiosofia, della cui formazione lo stesso Puškin è responsabile. Non è quindi un caso che il poeta, dopo aver iniziato la stesura della Figlia del capitano nel 1833, abbia abbandonato il romanzo per attendere alla Storia di Pugačëv licenziata alle stampe nel 1834, in seguito al definitivo rifiuto da parte delle autorità di concedere l’accesso ai documenti conservati nell’Archivio di stato.

Difficile è altresì accettare la rigida distinzione da molti teorizzata tra un Puškin giovane e quindi ingenuo cultore di temi storici condizionati da una visione progressiva ed evolutiva della storia e un Puškin più maturo e di conseguenza maggiormente attento alla complessità delle dinamiche storiche. La maturazione culturale del poeta è dato innegabile, ma in Puškin, al di là dei manierismi del periodo giovanile, sorprende semmai l’assoluta continuità della sua radicale interrogazione sul principio di potere. Non c’è complessità che tenga: dalle prime odi di natura più o meno politica alla lettera a Čaadaev dell’ottobre 1836 sembra che alla storia venga addirittura negata una dimensione autonoma a tutto vantaggio d’una stretta identificazione tra storia e potere. Nel brogliaccio della lettera a Čaadaev l’iperbolica affermazione «È Pietro il Grande, che da solo è tutta la storia universale!» non denota certo una gran sensibilità storica ed è addirittura incomprensibile, se non la si legge alla luce di una più generale visione che proprio sul principio di potere fonda e annulla la storia. D’altro canto è a Puškin che si deve la più inquietante disamina del potere russo, vale a dire quel Boris Godunov, finito di scrivere nel novembre del 1825, un mese prima della rivolta dei decabristi. Proprio il Boris segna la distanza tra il poeta e gli artefici di quel generoso quanto vano tentativo di insurrezione. Il poeta con ogni probabilità, qualora si fosse trovato a Pietroburgo e non nell’esilio di Michajlovškoe, sarebbe sceso con i suoi amici in piazza del Senato: lo avrebbe ammesso Puškin stesso davanti allo zar Nicola, durante il colloquio che nel settembre dell’anno successivo poneva fine al lungo confino. Ma l’avrebbe spinto la lealtà verso i compagni, non certo la convinzione. Già da tempo Puškin aveva compreso che quello del potere era un principio pervasivo che non consentiva opposizioni dialettiche. E alle scene del Boris, montate come una grande iconostasi proprio per rendere la sostanziale atemporalità e astoricità della vicenda, aveva affidato la rappresentazione di tale pervasività. L’unico modo di affrontare il potere era quello di affondare nella radice stessa della sua essenza, di bonificarlo di ogni concrezione istituzionale o burocratica, di metterne a nudo l’aspetto creativo, necessariamente benigno. Solo illusoriamente il potere poteva avere una sua opposizione: non a caso nel Boris «il popolo rimane in silenzio» di fronte all’ascesa al trono del falso Dmitrij. È solo questa convinzione che spinge Puškin ad accettare le condizioni impostegli da Nicola: in quello zar che gli si propone come censore personale, consentendogli di scavalcare le mediazioni burocratiche, il poeta intravede la possibilità di accedere in qualche modo alla dimensione del potere puro, colto nella sua primigenia immediatezza. Il semplice fatto che, travolto dal suo smisurato orgoglio, Puškin non abbia nemmeno lontanamente previsto le mille umiliazioni di cui sarebbe rimasto vittima, fino alla «congiura» finale, testimonia anche d’una buona dose d’ingenuità.

La figlia del capitano risponde in sostanza ai medesimi interrogativi del Boris, muovendo dalla didascalia finale sul popolo ammutolito. E fa giustizia di un’illusione nutrita, sia pur in maniera discontinua, da un Puškin a tratti persuaso che un’alleanza tra nobiltà e popolo fosse in grado di dar consistenza politica al suo disegno. Questa è ancora la tesi, peraltro espressa senza troppa convinzione, del Dubrovškij scritto nei mesi a cavallo tra il 1832 e il 1833.

Ma, ancor prima della stesura dell’ultimo capitolo, lo scrittore aveva già abbozzato la vicenda della Figlia del capitano, dove Caterina II e Pugačëv altro non sono che le maschere di due poteri, contrapposti e ostili, ma assolutamente identici per natura e struttura. Il ribelle semmai comprova il fatto che, quand’anche derivato dal popolo, il potere agisce secondo leggi proprie che ne determinano l’inevitabile degenerazione istituzionale. Non sparisce la convinzione di una sua primaria natura benigna: non a caso sia Pugačëv sia Caterina, comparendo in fasi diverse sotto mentite spoglie e quindi liberi dei loro «apparati», determinano la felice conclusione della storia. Ma non vi è dubbio che la riflessione Puškiniana escluda ormai ogni possibile soluzione di ceto o di classe: sempre più il confronto con il potere si risolve in un duello che neutralizza ogni sviluppo storico e porta alla ribalta singoli antagonisti. In fin dei conti è proprio in quello stesso 1836 che Puškin rimette mano a una poesia del 1828, tramutando l’originario titolo La plebe nel più incisivo Il poeta e la folla. In essa si trova la definizione d’una sorta di missione poetica: «Non per gli affanni quotidiani, / Non per l’utilità, non per le battaglie, / Noi siamo nati per l’ispirazione, / Pei dolci suoni e le preghiere». Un’apparente dichiarazione di disimpegno, se questi versi non fossero coevi a quelli di Exegi monumentum, dove si legge: «Ho eretto un monumento da mano non creato, / Non sparirà il sentiero che ad esso il popolo guida...». Il poeta rivendica quindi un distacco dalla folla, ma confida nel postumo ricongiungimento con il popolo. E questo è possibile solo perché Puškin, alla fine d’un suo travagliato processo di transizione, ha accettato di rimanere da solo, a mo’ d’avanguardia, nello scivoloso terreno del confronto con il potere.

In tal senso si spiega anche il netto rifiuto delle tesi esposte da Čaadaev nella sua Lettera filosofica, soprattutto là dove spiega il malessere della Russia con la mancata accettazione del cattolicesimo. Puškin è reciso: «La religione è estranea ai nostri pensieri, alle nostre abitudini». Un’affermazione che liquida le argomentazioni di Čaadaev, ma anche quelle di un Ivan Kireevskij che opponeva invece la superiorità dell’ortodossia all’esaltazione del cattolicesimo. Dietro questa negazione sta la più generale ripulsa del dibattito storico come dimensione praticabile per un’autentica disamina della questione russa. Se nella Figlia del capitano Puškin aveva indicato come ambito d’una possibile sopravvivenza gli interstizi tra i poteri contrapposti, quelli in cui faticosamente si muove Grinëv lungo tutto il romanzo, per sé egli sceglie uno spazio intellettuale ancora tutto da costruire. «Il vero posto dello scrittore è il suo studio e... solo l’indipendenza e il rispetto di noi stessi possono innalzarci al di sopra delle meschinità della vita e delle tempeste del destino»: così si chiude un lungo articolo consacrato alla demolizione di Voltaire. E lo studio diventa foscolianamente il luogo metaforico di un’organizzazione culturale che Puškin individua ormai come l’unica arma possibile per realizzare il suo disegno di bonifica del potere. Foscolianamente, si badi bene: al poeta russo è spesso capitato d’esser accostato, per pura coincidenza biografico-cronologica, alla sensibilità d’un Leopardi. Nulla di meno azzeccato. L’esperienza Puškiniana in realtà ripercorre in maniera sorprendente, a distanza di poco meno d’un trentennio, la vicenda del Foscolo negli anni cosiddetti maturi del bonapartismo. Il tanto citato «moderatismo» del poeta dalmata, fatto di rifiuto del sovversivismo nei confronti del regime dominante ma anche di ostilità verso il servilismo imperante, è della stessa grana di quello di Puškin a faccia a faccia con lo zar. E non sono poche le affermazioni contenute nella foscoliana lezione inaugurale all’ateneo pavese del 22 gennaio 1809 che il poeta russo avrebbe potuto tranquillamente far proprie. Forse che anche il nuovo impegno di Puškin non consisteva, come si legge in quell’orazione, nello «snudare» l’«abuso» e la «deformità» di quelle «Opinioni» che «adulando l’arbitrio de’ pochi o la licenza della moltitudine, roderebbero i nodi sociali e abbandonerebbero gli Stati al terror del carnefice, alla congiura degli arditi, alle gare cruente degli ambiziosi...» Di questo nuovo impegno Puškiniano restano i quattro numeri della rivista Sovremennik da lui curati: l’ultimo fascicolo, uscito il 22 dicembre 1836, ospita «La figlia del capitano». Mancavano trentotto giorni alla morte del poeta.

MAURO MARTINI

Nota biobibliografica

CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

1799. Aleksandr Sergeevič Puškin nasce a Mosca il 26 maggio, secondo figlio del maggiore in congedo Sergej l’vovič e di Nadežda Osipovna Hannibal, nipote dell’abissino portato in Russia a Pietro il Grande. La famiglia è di antica nobiltà ma versa in condizioni economiche precarie.

1811. Dopo un’educazione domestica alquanto raffazzonata, sostenuta solo dalla lettura di autori francesi nella biblioteca paterna e dalla conoscenza con i celebri frequentatori del salotto di casa, tra cui Karamzin, Puškin entra nel Liceo di Carskoe Selo.

1817. Il 9 giugno Puškin, ormai votato alla poesia, vocazione consacrata dall’incontro con Deržavin nel 1815 e dall’ammissione nella società letteraria «Arzamas», conclude i suoi studi e ottiene subito un impiego presso il ministero degli Esteri.

1819. Puškin entra a far parte della «Lampada verde», società progressista che mira alla diffusione di idee illuministiche.

1820. È l’anno di Ruslan e Ljudmila, il poema che conferisce a Puškin il successo. Ma è anche l’anno delle prime noie politiche. Solo l’intervento di autorevoli amici (Karamzin, Žukovškij, Čaadaev) fa sì che lo zar Alessandro tramuti il suo proposito di esiliare il poeta in Siberia in una meno pesante destinazione a Ekaterinoslav e a Kisinëv al servizio del generale Inzov. È altresì l’anno del primo, lungo soggiorno nel Caucaso.

1821. A Kisinëv Puškin frequenta P.I. Pestel’, il capo della Lega del Sud.

1823. Il 9 maggio Puškin inizia la stesura dell’Evgenij Onegin. A luglio viene trasferito a Odessa presso la cancelleria del conte Voroncov.

1824. L’ostilità di Voroncov vale a Puškin l’esilio nella tenuta della nonna materna, a Michajlovškoe.

1825. Costretto a Michajlovškoe, privato del permesso di recarsi all’estero per motivi di salute, Puškin scrive il Boris Godunov che conclude il 7 novembre. A dicembre gli arriva la notizia della rivolta dei decabristi.

1826. In settembre viene ricevuto a Mosca dal nuovo zar, Nicola I, che lo perdona e gli si impone come personale e diretto censore. Prosegue la stesura dell'Evgenij Onegin, pubblicato fino al secondo capitolo.

1827. Maggio è il mese del ritorno a Pietroburgo.

1828. In dicembre vede per la prima volta a Mosca Natal’ja Nikolaevna Gončarova.

1829. Compie durante l’estate il suo viaggio ad Arzrum per cui viene rimproverato da Benkendorf, il capo della terza sezione della polizia segreta.

1830. Ostacolato nei suoi movimenti, dopo essersi fidanzato con la Gončarova, Puškin si trasferisce per qualche mese a Boldino. È il famoso «autunno di Boldino» dove nascono i Racconti di Belkin e le microtragedie.

1831. Puškin si stabilisce a Mosca e sposa la Gončarova, mentre ottiene il reinserimento nei ranghi del ministero degli Esteri e il permesso di condurre ricerche archivistiche per una storia di Pietro il Grande.

1833. Mentre esce a stampa l’intero Evgenij Onegin, Puškin comincia La figlia del capitano e le sue ricerche sulla rivolta di Pugačëv, per le quali ottiene il permesso di svolgere ricerche negli Urali. Il 30 dicembre viene nominato kammerjunker.

1834. A Puškin è negato il permesso di accedere agli archivi per le sue ricerche su Pugačëv, ragion per cui a ottobre licenzia alle stampe la sua Storia di Pugačëv che lo zar vuole intitolare Storia della rivolta di Pugačëv.

1835. Puškin chiede invano di potersi ritirare in campagna per tre o quattro anni per motivi economici. Riesce a ottenere soltanto un prestito governativo.

1836. Puškin riesce a dar vita alla rivista Sovremennik, al cui quarto numero è destinata La figlia del capitano, conclusa a ottobre. Il 4 novembre riceve una lettera anonima che insinua dubbi sul comportamento della moglie e lo spinge a sfidare a duello Georges D’Anthès, il presunto amante di Natalja.

1837. Più volte rinviato, il 27 gennaio ha luogo il duello con D’Anthès. Ferito a morte, Puškin si spegne due giorni dopo.

BIBLIOGRAFIA

Le edizioni russo-sovietiche di riferimento sono: Polnoe sobranie sočinenij, 9 voll., Mosca 1935-38; Polnoe sobranie sočinenij, 17 voll., Mosca-Leningrado 1937-59.

In lingua italiana le principali raccolte di opere Puškiniane sono:

Romanzi e racconti,Torino 1958;

Poemi e liriche,Torino 1960;

Opere in prosa, Milano 1958;

Opere poetiche, Milano 1959;

Opere, Milano 1990;

Romanzi e racconti, Milano 1990.

Le principali traduzioni in italiano della Figlia del capitano sono: a cura di Bruno Del Re, Bompiani, Milano 1942; a cura di Alfonso Poliedro, disponibile ora nel volume dei mondadoriani Meridiani curato nel 1990 da Eridano Bazzarelli e Giovanna Spendei; a cura di Ettore Lo Gatto, riprodotto nel volume di Mursia delle Opere in prosa, a cura di Annelisa Alleva nei garzantiani Romanzi e racconti.

Le principali traduzioni in italiano della Storia della rivolta di Pugačëv o Storia di Pugačëv sono: di Ettore Lo Gatto, nel già citato volume di Mursia e nel volume dei Meridiani; di Annelisa Alleva nel menzionato volume di Garzanti.

Sterminata è, soprattutto in lingua russa, la bibliografia su Puškin. Cominciando dalle biografie, vai la pena di segnalare:

ABRAMOVIČ S.L., Puškin 1836 godu, Mosca 1989.

ANNEKOV P. V. Materialy dlja biografii A.S. Puškina, Mosca 1984.

BLAGOJ D.D., Tvorčeškij put’ Puškina (1813-1826), Mosca-Leningrado 1950.

BLAGOJ D.D., Tvorčeški put’ Puškina (1826-1830), Mosca-Leningrado 1960.

BLAGOJ D.D., Duša v zavetnoj lire, Mosca 1977.

ČEREJŠKIJ L.A.., Puškin i ego okruženie,Leningrado 1975.

EJDEl’MAN N. J., Puškin i dekabristy, Mosca 1979.

EJDEl’MAN N. J., Puškin. Iz biografii i tvorčestva (1826-1837), Mosca 1987.

EREMIN A. A., Puškin v Boldine,Gor’kij 1972.

GESSEN A., Puškin sredi knig i druzja, Mosca 1965.

GROSSMAN L., Puškin, Mosca 1960.

IVANOV V.N., A. Puškin i ego vremja, Chabarovšk 1970.

LO GATTO E., Puškin. Storia di un poeta e del suo eroe,Milano 1960.

LOTMAN JU. M., Puškin. Vita di Aleksandr Sergeevič Puškin, Padova 1990.

MAGARSHAK D. Puškin, a Biography, Londra 1967.

MEJLACH B. Žizn’ Aleksandra Puškina, Leningrado 1974.

MEYNIEUX A., Pouchkine homme de lettres, Parigi 1966.

MIRŠKIJ D., Puškin, New York 1963.

PETROV S. M. A. S. Puškin. Očerk žizni i tvorčestva, Mosca 1973.

ŠČEGOLEV P. E., Duel’ i smert’ Puškina, Mosca 1936.

TOMAŠEVŠKIJ B. V., Puškin I (1813-1824), Mosca-Leningrado 1956; Puškin II (1824-1837), Mosca-Leningrado 1961.

TROYATH. Pouchkine, biographie, Parigi 1953.

VERASEV V., Puškin žizni, Mosca 1936.

WOROSZYLŠKI W. Kto zabil Puszkina, Varsavia 1983.

ZIEGLER G., Puschkin, Amburgo 1979.

In lingua italiana, oltre alle introduzioni e agli apparati critici delle già citate raccolte di opere, vanno segnalati i seguenti contributi:

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