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Un bacio proibito
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E-book396 pagine5 ore

Un bacio proibito

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Info su questo ebook

Sono la regina delle relazioni sbagliate. Il mio ultimo ragazzo ha tentato di uccidermi, così sono dovuta scappare dall'altra parte del paese con un nome falso. Per una matricola del college, ho accumulato un numero impressionante di pessime scelte in amore. E così adesso mi tengo a distanza da qualunque coinvolgimento sentimentale. Chi potrebbe darmi torto? Il problema è che Mason Lowe è entrato nella mia vita. Ed è bello da non sembrare nemmeno reale. Stare in sua compagnia mi fa sentire di nuovo viva. Sembrerebbe proprio quello giusto, no? Invece è un gigolò. L'ennesima conferma del fatto che sono una calamita per gli uomini sbagliati.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2019
ISBN9788822734921
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    Anteprima del libro

    Un bacio proibito - Linda Kage

    2398

    Titolo originale: Price of a kiss (Forbidden Men #1)

    Copyright © Linda Kage 2013

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Mara Gini

    Prima edizione ebook: agosto 2019

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3492-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Linda Kage

    Un bacio proibito

    Indice

    Prologo

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Per Kurt e Lydia,

    la migliore delle famiglie.

    Siete entrambi inestimabili.

    Prologo

    Mason Lowe stava riparando il tosaerba della madre, così da poter sistemare il giardino, quando la signora Garrison passò a riscuotere l’affitto.

    «Yuhuuu». Il suo richiamo acuto e nasale gli perforò i timpani prima ancora che lei bussasse sulla staccionata che separava il suo giardino da quello della donna. Quando il cancelletto si aprì, i cardini di metallo cigolarono. «C’è nessuno in casa?»

    «Solo io». Socchiuse gli occhi al sole di mezzogiorno, mentre alzava il viso. Stringendo saldamente nella mano la chiave inglese, si deterse il sudore dalla fronte con l’avambraccio.

    «Oh, Mason!». Portandosi la mano alla scollatura, la padrona di casa della madre si arrestò di colpo sui suoi ridicoli tacchi alti e batté le lunghe ciglia finte. «Non ti avevo visto».

    Sperando che, se le fosse parso abbastanza occupato, la quarantenne avrebbe colto l’antifona e l’avrebbe lasciato in pace, rimase accucciato accanto al tosaerba rovesciato, affilandone le lame. «Ha bisogno di qualcosa?»

    «Uhm…». Si morse il labbro e raccolse i capelli con una mano per scostarseli dal collo, mentre si serviva dell’altra per farsi aria. Le sue unghie rosse mandarono lampi alla luce del sole.

    Gli fece una radiografia, senza tentare nemmeno di dissimularlo, mangiandoselo con lo sguardo voglioso. Disgustato dall’ispezione, lui rabbrividì tra sé e sé, provando l’intenso desiderio di allungare la mano verso la maglietta che si era tolto mezz’ora prima e che aveva gettato lì accanto.

    Guardandosi attorno, come se stesse facendo il palo per un complice che stava rapinando una banca, gli domandò: «Dov’è tua madre?».

    Tornando a rivolgere l’attenzione al proprio lavoro, Mason si servì della chiave inglese per mettere a posto una delle lame. «Sta accompagnando mia sorella all’ennesimo appuntamento medico», mentì, tendendo i muscoli mentre digrignava i denti.

    In realtà Sarah e la madre erano andate a fare la spesa, ma fare presente alla signora Garrison la situazione della sorella poteva valergli un po’ di compassione e far guadagnare alla sua famiglia del tempo extra per racimolare altro denaro, perché era certo che la mamma fosse di nuovo indietro con l’affitto.

    «Mmm. E come sta quella povera, cara bambina?», mormorò distratta la signora Garrison, concentrata sulle mani di lui al lavoro.

    Sospettando che non le importasse nulla delle condizioni di salute di Sarah, si scostò la frangia scura dagli occhi e le gettò un’occhiataccia. «Soffre ancora di paralisi cerebrale». Avvitò con più forza di prima, assicurandosi che il bullone fosse stretto a sufficienza.

    «Oh, cielo». La padrona di casa gli si avvicinò. «Sei cresciuto proprio bene. Guarda quanti muscoli ti sei fatto». La sua ombra gli passò davanti appena prima che gli posasse una mano sulla spalla, affondando le unghie lunghe nella sua pelle umida.

    Sorpreso dal contatto inatteso, si ritrasse e alzò lo sguardo di scatto.

    Lei scoppiò in una risatina roca e divertita. «Non c’è bisogno di essere così nervoso, caro». Allentò la presa, ma lasciò scivolare le unghie lungo il suo petto, in un palese gesto di apprezzamento. «Non mordo mica». Smentendo le proprie parole, snudò una fila di denti bianchissimi e artificialmente dritti, dando l’impressione di volergli strappare la carne dal corpo a morsi.

    Mason deglutì. Il luccichio negli occhi della donna gli aveva gelato il sangue, persino sotto quel sole cocente. Come una pantera che ha avvistato la sua preda, voleva balzargli sopra. Letteralmente.

    Non aveva bisogno di avere esperienza in fatto di sesso – e non ne aveva – per sapere a cosa puntasse. Probabilmente l’aveva visto dalla finestra del secondo piano, con indosso nient’altro che i calzoncini strappati, e si era messa in tiro al solo scopo di andare da lui a divertirsi.

    Si sentì vagamente male. Non perché tenesse alla propria verginità, non era così. In effetti, se ne avesse avuto l’opportunità in passato, l’avrebbe tranquillamente persa anni prima.

    Non era nemmeno perché fosse una brutta donna. Poteva anche essersi rifatta il seno ed essersi ritoccata un po’ il viso – di certo le labbra e le sopracciglia –, la sua abbronzatura poteva non essere autentica, ma non era così male. Aveva due belle tette grosse, un culo sodo e due gambe lunghe e tornite, che, okay, le stavano davvero bene in quei jeans striminziti e superaderenti.

    E non era nemmeno perché fosse sposata, perché non lo era. Non sapeva perché la chiamassero tutti signora Garrison, ma era abbastanza sicuro di non aver mai visto un signor Garrison.

    No, il problema era unicamente la sua età. Le cougar non erano cosa per lui e doveva avere almeno il doppio dei suoi anni. Minimo.

    La signora Robinson – cioè, Garrison – doveva aver pensato alla questione età, perché inarcò un sopracciglio con aria interessata e gli chiese: «Quanti anni hai adesso, Mason?»

    «Diciotto». Distolse lo sguardo, maledicendosi per aver detto la verità. Perché non le aveva mentito anche su quello? Improvvisamente diciassette gli sembrava un numero decisamente più… sicuro.

    Ma aveva il sospetto che lei conoscesse già perfettamente la sua vera età.

    Sulle labbra dipinte le affiorò un ghigno predatorio, con un luccichio malizioso, come se lo considerasse già in trappola. «Quindi… non ci sarebbe nulla di illegale».

    Mason emise un suono strozzato. Cristo santo, non pensava che avrebbe avuto il coraggio di dirlo ad alta voce.

    Lei emise un’altra risatina roca. «Vedo che ti ho scioccato».

    Lui scrollò la testa, più per cancellare quel momento che in segno di diniego. Lei gli rivolse un sorriso di approvazione, come se fosse fiera di lui per la sua risposta. «Tua madre mi deve più di tremila dollari, lo sapevi, Mason?».

    Un momento. Aveva detto tremila dollari?

    Si concentrò sul vecchio tosaerba rattoppato, cercando di non perdere i sensi. «No, non lo sapevo».

    Cristo, erano un sacco di soldi.

    Come se, avvertendo il suo dolore, volesse offrirgli un po’ di conforto, la signora Garrison gli si accucciò accanto e appoggiò la mano sul suo ginocchio nudo. Lui la guardò, pensando di scorgere compassione nel suo sguardo; magari gli avrebbe concesso un paio di mesi per racimolare tremila dollari.

    Peccato che, nel luccichio calcolatore che intravvide nelle profondità nocciola del suo sguardo spietato, non vide traccia di compassione. Spostò la mano lungo la sua gamba, fermandosi a metà coscia, e per poco lui non schizzò fuori dai calzoncini.

    Maledizione, voleva forse fargli una sega lì, in mezzo al giardino della madre? Mentre una parte del suo cervello si ritraeva per il ribrezzo, l’amichetto nelle sue mutande si risvegliò, decidendo che quelle dita affusolate erano piuttosto piacevoli, mentre si spostavano su, lungo la gamba, e che probabilmente lo sarebbero state anche di più se avessero raggiunto anche lui.

    Una scossa gli attraversò il sistema nervoso. Avrebbe voluto respingerla e fulminarla con lo sguardo per avergli fatto una cosa del genere, per averlo fatto reagire contro la sua volontà, ma non poteva respingerla in alcun modo, non poteva mandarla al diavolo, non poteva nemmeno guardarla di traverso. Sua madre le doveva più di tremila dollari.

    Quanti cazzo di mesi di affitto arretrato erano?

    Il panico lo afferrò in una morsa. Aveva bisogno di distrarla, prima che la situazione precipitasse verso il finale che, temeva, stava già imboccando.

    «Sono certo che la mamma abbia i soldi», tentò. «L-lei e Sarah saranno di ritorno tra un paio di ore. Potrà pagarla allora».

    «Davvero?». La signora Garrison si illuminò. «Quindi abbiamo un paio d’ore tutte per noi?».

    Mason non sapeva che cosa dire. Non sapeva che cosa fare. Voleva scappare, ma aveva la brutta sensazione che quelle unghie gli avrebbero artigliato la gamba e che lo avrebbero ridotto a brandelli, se ci avesse provato.

    Si sentiva in trappola.

    Lei si chinò in avanti e il calore del palmo della sua mano gli ustionò la coscia. Fu investito da un profumo di cocco. «Non sono una stupida, sai? Tua madre non ha certo tutti quei soldi e non mi pagherà un bel niente quando tornerà dall’appuntamento dal dottore. Ma sono disposta a farle uno sconto, diciamo, del cinquanta percento se ti mostrassi disposto a fare un piccolo affare con me».

    Santa madre di Dio.

    La signora Garrison gli aveva appena chiesto di fare sesso con lei.

    Per millecinquecento dollari.

    E lui non sapeva nemmeno come facesse di nome.

    «Hai capito cosa ti sto chiedendo, vero Mason?».

    Scansandosi, lui chiuse gli occhi e annuì.

    «Bene». Suonava compiaciuta e disgustosamente soddisfatta di sé. «Quindi la tua risposta è…?».

    Incapace di dire di no con la propria voce, scosse la testa in un gesto vigoroso di diniego.

    Quando lei non rispose, calò un silenzio carico di tensione. Alla fine, spinto dalla curiosità, aprì gli occhi.

    Lei lo studiava con un’espressione scaltra sul viso, come se sapesse che una minuscola, microscopica parte di lui avrebbe voluto dire di sì. Ma seriamente, quale diciottenne avrebbe detto di no al sesso, anche se significava perdere la verginità con una vecchia?

    «È la tua risposta definitiva?», gli chiese. Sembrava divertita.

    Aprì bocca e combinò un casino. «Sì! Sono sicurissimo. Non farò sesso con lei. Non saprei…». Distolse lo sguardo. «Non saprei nemmeno come fare».

    Perché diavolo glielo avesse confessato era un mistero. Sperava però che bastasse a spaventarla, perché qualsiasi donna che avesse voluto farsi sbattere da un verginello inesperto doveva essere completamente fuori di testa.

    Invece di staccare la mano, disgustata, lei strinse la presa. I suoi occhi nocciola si dilatarono e si leccò le labbra.

    «Oh, tesoro», bisbigliò. «Sono tutta bagnata».

    Mason sbatté le palpebre. «Eh?»

    «Non preoccuparti se è la tua prima volta, caro. Ci penserò io a insegnarti tutto quello che ti serve. E molto altro ancora. Sarà per me un onore educare un giovanotto come te ad assecondare le mie… preferenze». Le sue dita si arrampicarono più su lunga la sua coscia.

    Le afferrò il polso prima che raggiungesse l’orlo dei suoi calzoncini, perché sapeva che non si sarebbe fermata lì. Non avrebbe smesso finché non l’avesse toccato. Il cazzo gli pulsò, perfettamente consapevole di non essere mai andato più vicino di così a farsi toccare da una mano femminile. Cazzone.

    Serrando i denti, strinse la presa per ammonirla a fermarsi. Ma che diavolo, lei iniziò ad ansimare più forte, come se quel gesto vigoroso l’avesse eccitata anche di più.

    Mentre sullo sguardo le calava un velo febbrile, inspirò a fondo. «Oh, cielo, che mani forti che hai. Ti è diventato duro, vero?».

    Disgustato dalla donna tanto quanto dal proprio corpo traditore, gettò via la mano di lei e scattò in piedi, voltandosi leggermente per impedirle di scorgere il rigonfiamento nei suoi pantaloncini.

    «È meglio che se ne vada», sentenziò. Era senza dubbio il momento più surreale, imbarazzante e strano di tutta la sua vita; se ne stava pietrificato nel giardino della madre, davanti a un tosaerba rotto, con un’erezione, a discutere di sesso a pagamento con la padrona di casa. «Ho detto di no».

    «Bene». Lei fece uno sbuffo indignato e si alzò in piedi. Il biasimo nello sguardo della donna gli bruciò la nuca. «Di’ a tua madre di pagarmi entro la fine della settimana o riceverà un’ingiunzione di sfratto».

    Mason girò su sé stesso e la fissò a bocca aperta.

    Non avrebbe osato.

    Oh, maledizione, avrebbe osato eccome.

    Finse di ammirare le proprie unghie, pavoneggiandosi davanti a lui come se fosse fiera di sé per averlo fregato. Poi, con un gesto di saluto spavaldo, cinguettò: «Ciao ciao», e girò sui tacchi, fischiettando tra sé e sé. Incurvò le labbra in un sorrisetto impertinente e si incamminò verso il cancelletto.

    Mason restò a fissarla a bocca aperta, nauseato e terrorizzato. Non aveva mai minacciato di sbatterli fuori di casa prima, ma del resto non l’aveva mai nemmeno invitato a fare sesso con lei.

    Sua madre faceva già due lavori e i pochi spiccioli che aveva da parte servivano a comprare una sedia a rotelle motorizzata per Sarah.

    Mason strinse i denti, sentendosi il peggior figlio al mondo, il peggior fratello maggiore della storia. Lavorava part time all’autolavaggio, dopo la scuola, ma bastava appena per aiutare la madre con le bollette. Se c’era la possibilità di dare una mano alla famiglia in qualche modo, avrebbe dovuto fare tutto il possibile.

    Persino farsi la padrona di casa, se era il caso.

    Chiudendo gli occhi per controllare l’ondata di nausea per ciò che stava per fare, Mason gracchiò: «Un momento», sperando quasi che lei non lo sentisse.

    Ma la mano della donna si bloccò sul chiavistello. Lentamente si girò e gli chiese: «Sì?».

    Odiò il modo in cui le si accese una luce di trionfo negli occhi. Odiava tutto di lei, punto.

    Per qualche istante mosse le labbra senza che uscisse alcun suono, prima di dire: «Mi faccia… mi faccia fare la doccia, prima».

    Lei rise e scrollò la testa. «Oh, caro, non pensarci nemmeno. Prima che il pomeriggio sia finito, ho intenzione di leccare ogni singola goccia di sudore da quel tuo giovane corpo tonico e luccicante».

    Per poco non vomitò.

    Probabilmente lei si accorse che era in procinto di tirarsi indietro, perché piegò l’indice e gli fece segno di raggiungerla. «Seguimi, bellezza».

    Quando sì voltò per aprire la porta, lui la seguì.

    Tre ore più tardi, quando tornò a casa, era una persona completamente diversa. E la signora Garrison gli promise che avrebbe condonato tutti gli affitti in arretrato della madre, a condizione che lui tornasse da lei ogni volta che lei l’avesse chiamato.

    Capitolo uno

    Due anni, tre mesi e dodici giorni più tardi

    Okay, forse stavo per iniziare a sbavare giusto un pochino, prima che mia cugina mi desse una gomitata, distraendomi dal mangiarmi con gli occhi il bel fusto dall’altro lato del cortile che forse – o, per meglio dire, decisamente – stavo spogliando con gli occhi.

    «Amica, non ci pensare proprio. Non potresti permetterti uno così nemmeno svuotando l’intero contenuto del tuo salvadanaio».

    Sbattei le palpebre, mi schiarii la gola e mormorai: «Come, scusa?»

    «Ho detto, ah ah, certo. È fuori dalla tua portata».

    Arricciando il naso, rimasi a fissarlo, perché, be’, sul serio come avrei potuto smettere? Incarnava la mia idea di bollore e seduzione. Ecco come l’avrei chiamato d’ora in avanti: Mister Bollore.

    «In che senso? È per caso in vendita?». Ridacchiai alla mia stessa battuta.

    Eva mi diede una pacca carica di compassione sul ginocchio. «Sì, in effetti sì».

    Il sorriso mi si spense. «Eh?».

    Sedute su una delle panche all’esterno dell’edificio principale del Waterford County Community College, io ed Eva stavamo sorseggiando la nostra dose mattutina di caffè e zucchero, discutendo su chi avesse le scarpe più carine, quando Mister Bollore in persona aveva attraversato il margine del mio campo visivo. Gli avevo dato un’occhiata per cogliere il quadro completo e, certo… scarpe? Cos’erano?

    No, ma davvero. Era maledettamente bello. Con la tracolla della borsa che gli attraversava in diagonale il petto, appoggiato a una delle numerose statue bronzee di animali del campus, chiacchierava con un gruppetto di altri ragazzi.

    Indossava un paio di jeans e una semplice maglietta a maniche corte; non avrebbe dovuto risaltare così tanto in mezzo agli altri, eppure era così. Eccome. I suoi capelli scuri e mossi mi stavano chiamando – Reese, Reese! Infila le tue dita nella mia folta criniera ribelle. Lo dicevano davvero. Giuro.

    Okay, forse non avevo proprio una visuale completa e ravvicinata. Voglio dire, non riuscivo nemmeno a distinguere i suoi lineamenti da dove mi trovavo – e in generale un bel viso era la prima cosa ad attrarmi. Eppure nulla di tutto quello pareva importare, perché avevo la sensazione viscerale che il suo sorriso mi avrebbe spezzato il cuore.

    Lo stava già facendo in quel preciso istante.

    C’era qualcosa nella sua aura che emanava sensualità, sicurezza di sé e fascino selvaggio. Irradiavano da lui a ondate mentre, rilassato e a proprio agio, con un braccio circondava il collo di uno stallone bronzeo, in una posa virile. Quel ragazzo era un’opera d’arte e decisamente più seducente del pezzo di metallo che al momento sosteneva il suo peso.

    Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. «Dimmi che non stalkera e accoltella le sue ex, ti prego».

    «No», mi tranquillizzò Eva. «Non ce le ha nemmeno delle ex. Perché è un gigolò».

    Eh, sì, l’aveva detto. Ad alta voce. In mezzo al campus affollato. Come se fosse una cosa normalissima.

    Mi strappai alla contemplazione di Mister Bollore e fissai a bocca aperta mia cugina, che senza dubbio certe volte se ne usciva con delle stronzate astronomiche. Questa, però, faceva concorrenza ad alcune delle sue migliori assurdità. «Come, prego?».

    Mi fece un sorrisetto. «Si vende per soldi».

    Come se mi servisse una spiegazione di cosa facesse un gigolò. Pronto? «Di che diavolo stai parlando?»

    «Parlo di Mason Lowe, il ragazzo che stai continuando a molestare con lo sguardo». Fece un cenno con la testa in direzione di Mister Bollore, ancora appoggiato al dorso del cavallo. «Lo so che si fa fatica a smettere di guardarlo. È bello da togliere il fiato, devo ammetterlo. Al liceo era due classi avanti a me e al mio secondo anno abbiamo seguito insieme matematica, quattro ore a settimana. Perciò, sì, anch’io gli ho sbavato dietro un paio di volte, ma fidati di me, tesoro, non è cosa per te. Perché è uno stramaledetto gigolò».

    Siccome mi limitavo a fissarla senza dire una parola, perché, mmm, non sapevo davvero che cavolo avrei potuto rispondere, Eva aggiunse petulante: «Te lo giuro!».

    «Intendi in senso figurato, vero?»

    «Intendo precisamente quello che ho detto, in senso letterale».

    Inarcai un sopracciglio. «E… tu lo sai, perché…?»

    «Boh, lo so… e basta. Lo sanno tutti. Eccetto gli sbirri, certo. Altrimenti sarebbe dentro per prostituzione illegale o qualcosa del cenere. Gira voce che il lavoro al country club gli serva da copertura per fissare appuntamenti con le clienti, che pare siano alcune delle donne più ricche e infoiate della zona e che lo paghino cifre assurde per soddisfarle… quando e come vogliono. Sono sicura che alcune delle amiche di mia madre ci siano andate a letto».

    Rimasi a bocca aperta. La studiai per un intero minuto, prima di esplodere in una risata e darle una spinta sulla spalla. «Oddio, sei una tale bugiarda. Sul serio, E., per poco non mi fregavi».

    «Che?». Eva riuscì a sembrare indignata. «Giuro su Dio che non sto mentendo. Vuoi andare a chiederglielo?». Mi prese sottobraccio e cercò di farmi alzare in piedi con lei.

    Mmm, come no. Nemmeno per idea. Sarei morta per autocombustione da overdose ormonale, se mi fossi anche solo avvicinata a Mister Bollore in quell’istante. Un po’ come chi si avvicina troppo al sole. Probabilmente mi avrebbe ustionata con uno dei suoi mortali raggi testosteronici. E non avevo una crema solare a protezione abbastanza alta per quel tipo di incontro.

    Mi risedetti, trascinando giù anche il suo culo. «Cosa credi di fare? Non puoi andare da un tizio a chiedergli se fa il gigolò». Gesù!

    Eva rispose nella sua tipica maniera: si strinse nelle spalle e gettò indietro i capelli. «Perché no? Dubito che mentirebbe. Certo non pare essere un segreto». Buttai indietro la testa e scoppiai a ridere. Wow, sul serio. Certe volte Eva superava persino sé stessa. Le cose che riusciva a inventarsi erano, be’… fuori dal mondo. In un certo senso mi piaceva quel lato di lei, eppure ne ero anche mortalmente imbarazzata. Purtroppo non ero così espansiva come la mia vivace controparte. Ero molto più propensa ad arrossire violentemente che a esibirmi in exploit di estroversione. Insomma, non ero certo timida, ma nemmeno come Eva Mercer.

    Come se avesse avvertito che stavo arrossendo per colpa sua, in quel preciso istante Mister Bollore – o, come l’aveva chiamato Eva, Mason Lowe – si girò verso di noi e incrociò il mio sguardo.

    Smisi di ridere. Smisi di sorridere. In effetti, smisi quasi di respirare. Dio, quel ragazzo sì che sapeva come farti venire una vampata solo guardandoti.

    «Dio, abbi pietà», mormorò Eva accanto a me.

    Non risposi – non avrei potuto nemmeno volendo. Ero troppo impegnata a farmi mandare in cortocircuito il cervello. Avvertii un formicolio alla punta delle dita della mano e mi si arricciarono quelle dei piedi, come se un’invisibile catena carica di energia cinetica mi tenesse inchiodata al bel fusto a una cinquantina di metri da me, che pareva impegnato a tenerci uniti con la semplice forza del suo sguardo.

    Sì, la corrente chimica tra di noi aveva proprio quella forza, non stavo esagerando. Okay, forse un pochino, ma non troppo.

    Interruppe la connessione concentrandosi su Eva. Boccheggiai come se qualcuno mi avesse appena strappato via un cerotto dall’anima.

    Non potevo esserne certa, ma avrei quasi giurato che si fosse accigliato mentre fissava mia cugina. Mi scoccò una seconda occhiata, che improvvisamente mi parve piena di biasimo, e tornò rapidamente a concentrarsi sul suo gruppetto, ignorando entrambe.

    In tutta la mia vita non mi era mai successo che un semplice sguardo mi sconvolgesse a quel modo.

    Esalando un respiro incerto, mi portai una mano al cuore, che galoppava selvaggiamente nel mio petto. Se mi si fosse fermato e qualcuno mi avesse defibrillata per riportarmi in vita, non credo che mi sarei potuta sentire più scioccata di così. «Wow».

    «Già», mormorò Eva, apparentemente sconvolta quanto me. «Credo di avere bisogno di una sigaretta».

    Mi voltai verso di lei e sbattei le palpebre. «Tu non fumi».

    Alzò gli occhi al cielo. «Certe volte mi pare impossibile che siamo imparentate, giuro. Non intendevo in senso letterale, ReeRee. Gesù».

    Le mie capacità cognitive erano ancora troppo sollecitate per ragionare con lucidità, perciò mi limitai a mormorare: «Oh», e mi strinsi nelle spalle. «Be’, le mie ballerine luccicanti battono comunque i tuoi sandali».

    «Continua pure a sognare», ribatté lei. «I sandali vanno di moda questa stagione». E con quelle parole, tornò a guardare il mio uomo.

    «Come ti pare», ribattei con uno sbuffo petulante, combattendo contro l’assurdo impulso di tirarle i capelli e gridarle che l’avevo visto prima io, o perlomeno di ricordarle che lei aveva il ragazzo. «Rilassati, E. Lo stavo solo guardando, comunque. Non voglio sposarlo o mettere su casa con lui. Non sono per niente pronta a un’altra relazione al momento».

    «Come ti pare», replicò Eva, ma con un tono più acido di quello che avevo usato io. «Io ti ho avvisato che è irraggiungibile».

    Dio, aveva mangiato yogurt scaduto? E perché cavolo continuava a fissarlo? Sul serio, mi faceva incazzare non poco, perché ora non potevo più dargli un’altra sbirciatina: due ragazze che sbavano dietro allo stesso ragazzo sono uno spettacolo patetico.

    Oh, al diavolo, poteva anche mangiarselo con gli occhi tutta da sola. Ero comunque un po’ troppo intimidita per poterlo fissare di nuovo. Voglio dire, e se mi avesse guardata a sua volta? Non ero certa di poter sopportare quel genere di folgorazione due volte nello stesso giorno.

    Immaginavo che nessuno fosse mai andato in overdose di sguardi lascivi, in passato, ma con Mister Bollore in circolazione avevo la pessima sensazione che probabilmente sarei stata io la prima.

    Così scelsi di concentrarmi sull’orario delle lezioni che avevo richiamato sullo schermo del mio cellulare due secondi e mezzo prima di rendermi dolorosamente conto dell’esistenza di Mason Lowe. Finendo il resto del mio latte macchiato, diedi un’occhiata al numero della classe della mia prima lezione. Il vapore e il calore della bevanda mi ustionarono la gola, ma in un certo senso era un dolore piacevole: se non altro mi distraeva da voi-sapete-chi.

    Esalando un sospiro silenzioso per rinfrescare il mio esofago in fiamme, ricacciai indietro le lacrime. «Quindi…». Mi ci volle qualche tentativo prima di poter aggiungere: «Mi dicevi che abbiamo Letteratura inglese insieme, giusto?»

    «Giusto», rispose Eva. Dalla sua risposta sospirata dedussi che era ancora impegnata a fissarlo.

    «Be’, inizierà tra… tre minuti. Forse dovremmo muoverci». A quel punto, qualsiasi cosa l’avesse fatta alzare, distraendola dal mio bel fusto, sarebbe andata bene, persino il corso di Letteratura inglese.

    Avvistando un cestino nei paraggi, presi la mira e lanciai il mio bicchiere vuoto, centrandolo perfettamente: merito dei tre anni passati nella squadra di basket del liceo. «Andiamo», annunciai, prendendo il mio zaino e preparandomi ad alzarmi.

    Ma Eva scivolò verso di me, appiccicandomisi addosso, anca contro anca. «Un momento». L’aveva bisbigliato in tono serio, appoggiandomi la mano sulla gamba per tenermi ferma. «Sta venendo qui».

    Risucchiando l’aria nei polmoni, alzai lo sguardo. Aveva abbandonato la statua e stava camminando da solo lungo il marciapiede, diretto verso l’ingresso principale. Il problema era che la panchina su cui sedevamo io ed Eva si trovava proprio lungo il suo percorso. Ci sarebbe passato esattamente davanti.

    Solo tre metri scarsi d’aria mi avrebbero separata da lui.

    Signore onnipotente, abbi pietà di me. Sarei riuscita a sopravvivere, trovandomelo così vicino? In tutta onestà non ne avevo idea. Mi faceva male il petto e improvvisamente il mio respiro divenne irregolare.

    «Sta’ a vedere», mi sussurrò Eva all’orecchio.

    La fissai, sperando di leggerle in viso una qualche indicazione di cosa avrei dovuto fare, ma non sembrava essersi minimamente accorta che stavo per avere un attacco di panico. Quella ragazza era dannatamente dispettosa.

    La afferrai per un polso. «Oddio, che intenzioni hai?».

    Eva si limitò a rivolgermi il suo famigerato sorriso da Stregatto, mentre si concentrava sul bel ragazzo di passaggio. «Buongiorno, Mason», lo salutò.

    Ogni muscolo del mio corpo si irrigidì e le affondai le unghie nel polso, intimandole di tacere. Ma il saluto aveva già catturato la sua attenzione.

    Ci rivolse un’occhiata indifferente. Alzò il mento nel modo in cui fanno i ragazzi quando salutano qualcuno con un cenno della testa e rispose: «Ehilà».

    Mi sciolsi e di bocca mi sfuggì un gemito sospirato. Wow, aveva un corpo irresistibile, ma la sua voce non era da meno. Era profonda e delicata come il velluto e decisamente troppo peccaminosa per appartenere a quel bel faccino. Mi venne voglia di chiudere gli occhi e… sciogliermi.

    «Stai bene oggi», gli disse Eva, in un tono intriso di astuzia femminile e di un invito tutt’altro che sottinteso. Inclinando il viso quel poco che permetteva alla luce del sole di mettere in risalto il suo incarnato perfetto, lasciò ricadere la folta criniera biondo platino dalla spalla al seno voluminoso. Se avesse gridato: Vieni a prendermi, ragazzone, non sarebbe stata altrettanto esplicita. «Che ne diresti di saltare le lezioni stamattina e di fare… qualcosa di più divertente?».

    Mason Lowe sbuffò il suo disinteresse nello stesso istante in cui io spalancai la bocca. «E.!». Dovevo davvero ricordarle che aveva un ragazzo?

    Di fronte al mio sibilo ammonitore, Mister Bollore si concentrò su di me e l’espressione disinteressata gli scomparve d’improvviso dal volto. Il suo sguardo intenso e penetrante mi ustionò la pelle e, sì, avrei dovuto usare un’intera boccetta di aloe vera per placare il delizioso pizzicore che mi avrebbe lasciato.

    Ancora una volta, ero prigioniera della nostra connessione istantanea. Il suo sguardo intenso mi ancorò al mio posto, quasi fosse in grado di trasformare in macigno ogni singolo organo del mio corpo. Non potei fare altro che restare a fissarlo a bocca aperta. Come un pugno in pieno plesso solare, mi aveva lasciata senza fiato. Inghiottii aria, affamata di ossigeno.

    Da così vicino sembrava ancora più bello che da cinquanta metri di distanza; si era allontanato dal suo gruppetto, ma non per questo aveva perso un briciolo del suo fascino.

    E quel viso. Giuro che apparvero degli angioletti e si misero a ballargli intorno, in armoniosa adorazione dei suoi tratti gloriosi. Naso dritto, fronte prominente, mascella cesellata, fossetta sul mento. Era un perfetto esemplare di maschio alfa, non gli mancava niente. Persino le sue sopracciglia erano folte e marcate. Trasudava semplicemente una sorta di sacra perfezione virile.

    Quando distolse lo sguardo, mi sentii come se fossi stata strizzata e gettata via. Lo osservai oltrepassarci e dirigersi

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