Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Colpevole di silenzio (eLit): eLit
Colpevole di silenzio (eLit): eLit
Colpevole di silenzio (eLit): eLit
E-book310 pagine4 ore

Colpevole di silenzio (eLit): eLit

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Mariah Bolt 1
Decisa a far piena luce sull'incidente automobilistico che ha distrutto la sua esistenza, Mariah Bolt,talentuosa agente della CIA, scopre che qualcuno che ama ha mantenuto il silenzio su una verità inconfessabile e che quella verità può travolgere la sua carriera,la sua famiglia la sua stessa vita. Coinvolta in un intrigo internazionale, braccata da un killer, circondata da personaggi ambigui, industriali senza scrupoli e gruppi terroristici mediorientali, Mariah scopre assai presto che non può fidarsi di nessuno e che una mente perversa ha congegnato un'orribile macchinazione.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788858989005
Colpevole di silenzio (eLit): eLit
Autore

Taylor Smith

"Amo l'ambiguità che c'è in ognuno di noi: luce ed ombra dice Taylor Smith e la racconto nei miei libri". Un'autrice che interpreta il genere thriller in modo personale e coinvolgente, con grande attenzione ai caratteri dei personaggi.

Leggi altro di Taylor Smith

Correlato a Colpevole di silenzio (eLit)

Titoli di questa serie (2)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Colpevole di silenzio (eLit)

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Colpevole di silenzio (eLit) - Taylor Smith

    Love

    1

    Mariah non era pronta ad affrontare di nuovo quella prova. Per la terza volta passò con l'auto di fronte alla clinica, e per la terza volta non accennò a fermarsi. Era inutile prolungare l'agonia, lo sapeva bene. Non poteva fuggire. Non aveva scelta. Doveva entrare e portare avanti la messinscena. Fingendo che nulla fosse cambiato, che erano ancora una famiglia. Fingendo che non le importasse che David non l'avrebbe più potuta stringere fra le braccia o fare l'amore con lei.

    David la stava aspettando. Non poteva fare altro che aspettare.

    Erano trascorsi dieci mesi dall'incidente a Vienna; sei da quando lo aveva riportato in Virginia. Nelle prime settimane dopo il loro ritorno, parenti e amici erano giunti in visita sfoggiando sorrisi studiati che mai vacillavano. Mariah aveva tentato di prepararli ai cambiamenti devastanti procurati dall'incidente ma ogni sforzo si era rivelato vano: quando posavano gli occhi su David, restavano paralizzati dall'orrore.

    In un primo momento gli accarezzavano coraggiosamente il braccio, poi Mariah notava che facevano un passo indietro: le dita si ritraevano veloci al contatto dei muscoli atrofizzati di David e gli occhi si abbassavano alla vista delle ossa che s'intravedevano sotto la camicia. Dopodiché non lo sfioravano più a parte, forse, una veloce stretta della sua mano irrigidita quando se ne andavano.

    Con lui parlavano soltanto di argomenti che a David non sarebbero mai interessati, se avesse potuto rispondere. Ma di cosa si poteva discutere con un genio la cui brillante intelligenza, o quel che ne restava, si rivelava soltanto da un occasionale scintillio negli occhi?

    I visitatori lanciavano sguardi inquieti a Mariah, domandandosi se David si accorgesse di loro. Ma anche lei non aveva modo di sapere se il marito comprendesse quel che gli accadeva attorno. Talvolta sembrava partecipare, una luce negli occhi che rivelava interesse, o una ruga che si disegnava sulla fronte, lasciando trasparire una riflessione improvvisa. Altre volte, invece, sembrava perduto in un mondo interiore, un mondo in cui lei non avrebbe mai potuto raggiungerlo. Il suo sguardo si fissava momentaneamente su un volto, per poi allontanarsi repentino, distratto da una tenda che ondeggiava o da un granello di polvere che fluttuava indolente in un raggio di sole.

    Mariah si decise a parcheggiare. Spostò lo specchietto retrovisore e si ravviò i capelli. Il taglio era corto, pratico: l'acconciatura di una donna che non aveva tempo per la vanità. Non si truccava mai, a parte un po' di mascara per annerire le ciglia bionde, come i capelli. Per un istante rimase immobile. Quello sguardo che la scrutava dallo specchietto era critico, e la spingeva a chiedersi per l'ennesima volta se non potesse fare di più per David. Si poneva la stessa domanda ogni giorno, da quando aveva saputo che suo marito non si sarebbe più ripreso.

    Un camion impazzito era andato a sbattere contro la sua auto, mentre svoltava nel vialetto dell'American International School di Vienna. Tutti avevano gridato al miracolo che suo marito e sua figlia non fossero rimasti uccisi. Ma era un miracolo relativo: il cranio di David si era fratturato come un guscio d'uovo e Lindsay aveva rischiato di perdere la gamba sinistra.

    Malgrado lo sguardo di rimprovero che la scrutava dallo specchietto, Mariah sapeva di non avere scelta. Non poteva tenere David a casa con sé, viste le cure intensive di cui aveva bisogno. E inoltre doveva occuparsi del recupero di Lindsay e di un lavoro faticoso, che le garantiva i guadagni necessari a coprire l'assicurazione e ad affrontare le vertiginose spese mediche.

    Sospirò e aggiustò lo specchietto. Raccolse una busta di carta dal sedile anteriore, sistemò la borsetta a tracolla e scese dall'auto.

    Nel parcheggio, altri due occhi – occhi singolari, di colore diverso, uno verde, uno azzurro ghiaccio

    – la spiavano mentre chiudeva la portiera della Volvo e si dirigeva all'ingresso della clinica. Rollie Burton masticava distrattamente un chewing-gum, mentre la lama di un coltello a serramanico appariva e scompariva nella sua mano. Lo aveva acquistato anni prima, a Hong Kong, ed era un autentico gioiellino, la lama in puro acciaio Sheffield, gli elaborati intarsi sul manico d'avorio che riproducevano un giardino di rose ed edera della dinastia Manchi. Un attento osservatore avrebbe notato delle macchie color ruggine nelle venature del manico, come se le rose avessero perduto una stilla di sangue mentre venivano intagliate.

    Rollie Burton diede un colpo leggero alla levetta sul manico e la lama apparve di nuovo, scintillando sotto le luci del parcheggio. Spinse la punta contro la mano sinistra avvolta in un guanto e la ritrasse, soltanto per farla scattare un'altra volta. Scattare e ritrarre. Scattare e ritrarre. Scattare e ritrarre.

    La valigetta sul sedile accanto conteneva la foto di Mariah, assieme al denaro ricevuto per l'incarico: diecimila dollari in biglietti usati e di piccolo taglio. Nella valigetta era custodita anche una Sig Sauer automatica carica, con una serie extra di munizioni. Ma lui prediligeva il coltello. Rapido e silenzioso. Soprattutto in mani esperte come le sue.

    Era più carina di persona che in fotografia, pensò Burton. La luce dei lampioni ne metteva in risalto gli zigomi alti e la bocca generosa. Le avrebbe dato a malapena trent'anni ma, secondo la voce al telefono, ne aveva trentanove. Era di bassa statura, ma ben proporzionata, e si muoveva con la grazia di un felino o di una ballerina classica. Benché fosse impossibile indovinarne le forme sotto l'ampio cappotto che ondeggiava nella brezza della sera, Rollie Burton immaginava che il suo corpo fosse in condizioni perfette per muoversi tanto bene. Per un attimo si domandò chi volesse eliminarla. Non che gli importasse: per quel lavoretto l'avevano pagato profumatamente.

    Quando il giorno prima era giunta la telefonata, la voce all'altro capo del filo si era raccomandata di farlo sembrare casuale, un altro di quegli ordinari fatti di sangue che avvenivano ogni giorno a Washington. La voce era strana. Piatta, metallica. Rollie Burton era abituato alle offerte di lavoro da parte di individui bizzarri ma c'era qualcosa in quella voce distorta che dava i brividi. Eppure non gli era stato offerto un incarico difficile. Gli affari si erano un po' rallentati negli ultimi anni ma, all'apice della carriera, aveva portato a termine decine di lavori sporchi, la maggior parte dei quali in ambienti alquanto pericolosi. Uccidere Mariah Bolt sarebbe stato un gioco da ragazzi.

    Quando aveva accettato l'incarico, l'interlocutore gli aveva dato appuntamento a un cassonetto della spazzatura dietro Bloomingdale's, al Tyson's Corner. All'interno, Rollie Burton aveva trovato la valigetta di denaro e la foto, assieme alle informazioni sui movimenti abituali del bersaglio. E l'aveva subito raggiunta dove sapeva di trovarla ogni mercoledì sera: la Clinica Montgomery di McLean, in Virginia.

    Non gli era stata suggerita una precisa strategia: fallo al più presto, si era soltanto raccomandata la voce. Prima era, meglio era, pensò Rollie Burton guardandosi attorno nel parcheggio. All'inizio aveva deciso di seguirla per qualche giorno, prima di fare la sua mossa, ma dopo venticinque anni di onorata carriera sapeva che non era saggio rifiutare un'opportunità quando ti si offriva su un piatto d'argento.

    Rollie Burton teneva la mano sulla portiera, pronto a scivolare fuori dall'auto. Il bersaglio era quasi arrivato all'ingresso ma contava di raggiungerlo in pochi, rapidi passi. Quando correva sapeva essere ancora veloce e resistente.

    Aspettando il momento giusto per agire, vagliò le opzioni. Con un bersaglio più robusto, avrebbe mirato fra la seconda e la terza costola: un colpo secco al cuore, e poi via. In caso di lotta, una coltellata al fegato sarebbe stata un espediente efficace ma rischioso: il bersaglio avrebbe impiegato più tempo a morire. Nel caso di Mariah Bolt la migliore mossa era tagliarle la gola. Rollie Burton era un peso gallo, ma lei era più bassa. Sarebbe stato facile afferrarla per i capelli per la frazione di secondo necessaria a completare il lavoro. Toccata e fuga, decise. Scivolò fuori dall'auto e chiuse silenziosamente la portiera. Non doveva dimenticarsi di rubarle la borsetta, per salvare le apparenze.

    Erano da poco passate le cinque ma le tenebre erano già calate, un vago profumo di una precoce pioggia invernale aleggiava nell'aria. Rollie Burton si tenne all'ombra delle querce secolari che punteggiavano il parcheggio, gli scuri, scheletrici rami che ondeggiavano sopra di lui. La seguiva da lontano, le dita della mano sinistra che si flettevano nervose anticipando la presa, il pollice destro che accarezzava voluttuoso il coltello a serramanico.

    Improvvisamente ci fu un tramestio all'ingresso principale, a una cinquantina di metri di distanza. Rollie Burton indietreggiò rifugiandosi nell'oscurità, mentre si aprivano le porte principali e uscivano tre persone: una donna più vecchia e due ragazzi, forse i figli. I ragazzi si affollavano attorno a lei, tentando di consolarla.

    Imprecando a bassa voce, Rollie Burton ripose il coltello in tasca, mentre il bersaglio raggiungeva un piccolo sentiero che conduceva all'entrata, si scostava per lasciar passare la famiglia che scendeva dalla scala, restava a guardarla per un istante, e cominciava a salire la gradinata della clinica. Rollie Burton si voltò e tornò verso l'auto. Non era successo nulla: poteva ancora ucciderla quando fosse uscita. Inoltre, se fosse stato troppo facile, si sarebbe sentito in colpa di non meritarsi il denaro. E sarebbe stata una vergogna per un professionista come lui, pensò. Rollie Burton detestava sentirsi in colpa.

    2

    Varcando l'ingresso principale della clinica, Mariah si accorse che stava trattenendo il fiato. Passò accanto all'accettazione e superò l'infermeria nell'ala est, prima di cominciare a respirare, sperando che quel ritardo potesse servire. Ma era inutile. Mentre salutava l'impiegata all'accettazione, piccoli sensori nelle cavità nasali si erano già messi all'opera, una sorta di allarme preventivo per l'imminente assalto di cui sarebbe stata vittima. Quando alla fine inspirò, il suo stomaco ebbe un sussulto, come sempre avveniva nel percepire l'odore di medicine, antisettici e lino inamidato. E carne che moriva lentamente.

    Mentre si avvicinava, una giovane infermiera le sorrise amichevolmente. «Buonasera, signora Tardiff» l'apostrofò.

    Le infermiere la conoscevano bene. Di solito usava Bolt, il cognome da nubile, e non quello di David, ma in clinica non le importava che la chiamassero signora Tardiff se preferivano. Le infermiere più anziane si sentivano più a loro agio, e Mariah sapeva che erano piuttosto diffidenti verso chiunque mostrasse scarso riguardo per le convenzioni.

    Suo marito avrebbe insistito perché usasse il cognome da ragazza, ma ora David non era più nella posizione di discutere con nessuno. Su questioni di principio o qualsiasi altro argomento.

    «La sta aspettando» aggiunse l'infermiera. «Vedendola in ritardo, un'inserviente l'ha portato a spasso in corridoio, un'ora fa.»

    Mariah annuì e si sforzò di sorridere. Sapeva che l'infermiera aveva una dolce disposizione di spirito e non aveva intenzione di rimproverarla, ma quelle parole la ferirono come una staffilata. «Il traffico» si giustificò. «È terribile stasera.» L'infermiera le rivolse un sorriso di comprensione.

    Mariah voltò l'angolo, affacciandosi sul corridoio. La stanza di David era l'ultima sulla destra e, in lontananza, poteva già intravedere la sedia a rotelle fuori dalla porta. Passò accanto a molte persone, soprattutto anziani, anime solitarie che guardavano con una luce di speranza negli occhi chiunque attraversasse il corridoio. Mariah sorrise, fermandosi a stringere la mano della vecchia signora che la chiamava sempre Thelma e le chiedeva dei ragazzi.

    «Stanno bene, signora Lake, gliel'assicuro» rispose amichevolmente. Ormai aveva smesso di spiegarle che non era Thelma.

    Entrò nella stanza e si voltò verso il marito. David si accorse della sua presenza e la guardò con quei suoi grandi occhi che sembravano scrutarle nell'anima. Chi poteva resistergli? Lei non ne era mai stata capace.

    Lo aveva incontrato a metà degli anni Settanta, l'anno prima che la Central Intelligence Agency – CIA per gli amici – la reclutasse. In quel periodo studiava all'Università della California di Berkeley e frequentava un dottorato in scienze politiche con specializzazione nella corsa agli armamenti sovietica. Quando, a causa della sua preparazione umanistica, si era impantanata nella complessità delle armi nucleari, il relatore l'aveva spedita dal capo del dipartimento di Fisica. Che a sua volta l'aveva presentata a David Tardiff, uno dei dottorandi più giovani e brillanti del dipartimento.

    Ma se la fisica, in un primo momento, aveva favorito l'amicizia di Mariah e David, la biologia aveva finito per prendere il sopravvento. Mariah era stata presa alla sprovvista. La vita di sua madre era stata rovinata dal marito, il padre di Mariah, un poeta e romanziere tuttora considerato con venerazione nei circoli letterari, nonostante fosse morto da tempo. Benjamin Bolt non era un eroe per Mariah. Come poteva esserlo, dal momento che aveva abbandonato la figlia ancora bambina e la moglie incinta per seguire i suoi sogni egoistici?

    Colpita da una serie di tragedie cominciate con l'abbandono di suo padre, Mariah era cresciuta con la seria determinazione di vivere una vita indipendente, una vita che non includeva la relazione con un meraviglioso ragazzo del New Hampshire. David Tardiff non era molto alto, appena un metro e settantatré. Paragonato ai fusti imponenti, biondi e sfrontati con i quali era cresciuta sulle spiagge della California del Sud, Mariah lo trovava un po' troppo casalingo, con il naso un po' troppo largo e la massa di riccioli neri un po' troppo arruffata. Ed era anche vanitoso, tentava di convincere se stessa: brillante e spiritoso, ma troppo sicuro di sé.

    Eppure, quando lo sentiva tessere lodi della fisica e dell'hockey, l'altra sua passione, le difese di Mariah crollavano miseramente. Dopo soltanto tre mesi, vivevano insieme in un piccolo appartamento di Berkeley, facendo piani per il futuro. Ma poi le cose erano cambiate. Era stata la prima volta che aveva perso David.

    L'Università della California gestiva, con il supporto del governo federale, un centro di ricerche top secret sulle armi nucleari a Los Alamos, in Nuovo Messico, e il dipartimento di Fisica di Berkeley forniva la maggior parte dello staff del laboratorio di ricerca. Non fu una sorpresa quando, sei mesi dopo l'inizio della loro convivenza, a David venne offerto un lavoro nel laboratorio di Los Alamos.

    In buona fede, Mariah lo aveva seguito nel deserto, intenzionata a lavorare sulla tesi di dottorato. Ma se il Nuovo Messico offriva un ottimo ambiente di studio, non era il posto adatto a cementare la loro relazione. La rottura arrivò il giorno in cui Mariah vide un furgone militare trainare un missile in pieno centro della città. Quella sera aveva affrontato David, di ritorno dal laboratorio.

    «David, questo posto non fa per noi.»

    David, che non amava le discussioni, l'aveva buttata sullo scherzo. «Cosa ne dici del tavolo della sala da pranzo?» le aveva chiesto stringendola fra le braccia. «Non ti piace tutto questo spazio? Ci sono tante possibilità...»

    Mariah gli aveva dato una gomitata, ridendo suo malgrado. «Non è quel che intendevo.» Il suo sorriso era svanito. «Parlo di Los Alamos.»

    L'aveva presa tra le braccia, gli occhi che brillavano. «Cosa c'è che non va qui? Hai delle prospettive di insegnamento. Ed è un posto sicuro per crescere dei bambini e costruire una famiglia» aveva aggiunto, avvicinandosi di nuovo a lei.

    «Sicuro? È una fabbrica di bombe nucleari! Non hai mai provato a pensare a cosa fate in quel laboratorio?»

    «Facciamo scienza, e ogni ricercatore arriverebbe perfino a uccidere per sfiorare delle apparecchiature tanto all'avanguardia.»

    «Uccidere è la parola giusta. Voi progettate armi nucleari.»

    «Scopriamo i segreti dell'atomo. Svegliati, Mariah. Il laboratorio non compie solo ricerche militari. E questo lavoro è eccitante. Nell'atomo si nasconde la chiave per l'energia illimitata. Potrebbe condurre a incredibili scoperte biomediche e industriali. Le armi sono la parte meno interessante.»

    «Questo è soltanto un pretesto. Il motivo per cui quel laboratorio è stato creato è la creazione della bomba.»

    «Non puoi biasimare gli scienziati se il governo utilizza in maniera perversa il nostro lavoro» aveva ribattuto David, una ruga di ostinazione che si disegnava sulla fronte. «Non possiamo essere ritenuti responsabili per l'etica dell'intera Nazione. Il lavoro sulle armi potrebbe essere fermato, se la gente avesse il coraggio di dire basta.»

    «Oh, maledizione, David» aveva mormorato Mariah con tono triste. «Non sono stupida e nemmeno ingenua. So che non ci libereremo delle armi nucleari domani, ora che il genio è fuori dalla lampada. Ma progettiamo una nuova bomba e i russi ne creeranno una più potente della nostra. Allora noi ne metteremo a punto una più letale, e ancora e ancora e ancora. Non posso stare a guardare mentre sprechi il tuo talento aiutando quei bastardi a sviluppare l'ultima arma di distruzione di massa. Perché è questa la vera ragione per cui siete pagati, e tu lo sai.»

    Avevano litigato per lo stesso motivo decine di volte, da quando David aveva accettato il lavoro a Los Alamos. Il silenzio che aleggiava quella notte, mentre si allontanavano l'uno dall'altro, aveva siglato una volta per tutte la fine della disputa. Alla fine, Mariah aveva lasciato David e il Nuovo Messico e accettato un lavoro come analista al quartier generale della CIA in Virginia, convincendosi che, se avesse potuto fare qualsiasi cosa per ostacolare la minaccia nucleare sovietica, avrebbe anche reso superfluo il lavoro di David e dei suoi colleghi a Los Alamos.

    Per due anni, i loro unici contatti erano stati uno stillicidio di lettere e telefonate. Poi un giorno, dal nulla, David era apparso sugli scalini di casa, affranto e turbato. In un incidente al laboratorio, aveva perso la vita uno dei suoi colleghi, un giovane tecnico. Era morto in modo lento e raccapricciante, dopo un'esposizione accidentale a materiale radio-attivo. Quella tragedia aveva tolto a David ogni illusione per quanto riguardava il suo lavoro sulle armi, ed era determinato a dedicarsi soltanto all'insegnamento. E a sposarla.

    Non si erano più separati. Lindsay era nata nove mesi dopo e la vita le era sembrata un sogno meraviglioso. Finché un camion impazzito non l'aveva trasformato nel suo incubo peggiore.

    Quando la vide comparire nella stanza, gli occhi di David brillarono di gioia. Mariah rivolse un sorriso all'uomo che aveva amato per tanto tempo. Che amava ancora, si corresse. Ma che le mancava da morire, anche quando gli sedeva accanto nelle poche ore fugaci che riusciva a trascorrere con lui ogni settimana.

    «David» gli disse, buttandogli le braccia al collo, la fronte appoggiata alla sua. Chiuse gli occhi per un istante, cercando di ignorare quel vago odore di decadenza che proveniva dal corpo atrofizzato, nonostante i lavaggi frequenti cui lo sottoponevano le infermiere. «Come stai, amore?» lo baciò sulla fronte e gli passò le dita fra i capelli, scompigliandoli affettuosamente. «Mi spiace di essere arrivata in ritardo. Ma sai, il traffico...»

    David sbatté le ciglia. Mariah scivolò alle sue spalle, liberandosi delle scarpe e del cappotto e rimboccandosi le maniche della giacca. Poi raggiunse il tavolo del computer nell'angolo.

    «Vuoi la benda?» chiese. Un occhio chiuso, l'altro aperto, poi chiuso. Il segnale per il no. David sembrava nervoso e Mariah si biasimava per averlo fatto aspettare.

    Mise da parte la benda per la testa con il bastoncino attaccato, che David usava per digitare sulla tastiera quando la mano destra si stancava. La sinistra era ormai inservibile, come del resto il braccio. Il suo corpo era perpetuamente riverso in posizione fetale, eccetto quando dormiva e i muscoli si rilassavano.

    Mariah gli sistemò un tavolino pieghevole sulle gambe e gli alzò la mano destra, accompagnandola delicatamente sulla tastiera del computer. L'indice ossuto si mosse tremante e premette un tasto. Mariah osservò lo schermo e vide comparire la lettera

    L. Lindsay.

    «È in piscina» gli spiegò. «Andrò a prenderla tornando a casa.» Mariah si appoggiò con la schiena al davanzale della finestra e sorrise. «Sta facendo grandi progressi. L'allenatore sostiene che potrebbe entrare addirittura nella squadra, il prossimo anno. È così forte, David.»

    Gli occhi del marito la fissavano intensamente.

    «E il dottore dice che la piscina sta facendo miracoli per la gamba» continuò. «La massa muscolare sta crescendo e crede ci sia una possibilità che alla fine torni come l'altra.» Mariah frugò nella busta che aveva portato. «Lindsay non è potuta venire ma ti ha preparato i biscotti. Quelli con le scaglie di cioccolato che ti piacciono tanto.»

    Le rispose con un sorriso asimmetrico.

    «Lo fa per farmi arrabbiare. Solo perché sono allergica alla cioccolata e tu no. Non siete per nulla spiritosi, voi due.»

    Mariah posò un biscotto in mano al marito e gli serrò le dita: mentre David portava il biscotto alla bocca con una lentezza agonizzante, i tendini del dorso della mano si tesero come i fili di una marionetta. Mariah prese alcune camicie dalla borsa e le sistemò nel piccolo guardaroba vicino al letto. Gli occhi di David la seguivano passo passo, la mascella che faticava sul biscotto.

    «Ti ho lavato le camicie di flanella. Comincia ormai a fare freddo.» David non usciva molto, per ovvie ragioni, a parte quando lei e Lindsay lo portavano a passeggiare nel weekend. O quando, una volta al mese, lo portavano a casa per la notte. Ma lo disse semplicemente per ricordargli che era vivo e che le stagioni si avvicendavano ancora.

    Mariah tornò da lui e avvicinò una sedia, pulendogli il rivolo di bava marrone che scendeva all'angolo della bocca. Tenendogli la mano, gli raccontò di Lindsay e della nuova scuola, delle loro serate, dei pettegolezzi da ufficio. Storie irrilevanti di persone, vecchi amici e altri che David non conosceva. Non importava molto, finché poteva fargli sentire che faceva ancora parte del loro mondo.

    Gli inservienti riuscivano sempre a combinare qualcosa di disastroso con i suoi capelli. Non era colpa loro, in verità: non avevano passato anni a vederlo uscire dalla doccia e dare a quella massa di riccioli neri una scossa distratta, perché ogni boccolo trovasse il suo equilibrio. Ora, il modo in cui lo pettinavano, i capelli lisciati e appiattiti, la riga da una parte, donava loro uno strano ordine che David avrebbe detestato se fosse stato ancora padrone di sé. E stavano diventando grigi. In quei dieci mesi dopo l'incidente, sembrava invecchiato di dieci anni e ne dimostrava molti più dei suoi quarantuno.

    Solo gli occhi conservavano l'essenza dell'uomo che David era stato. Erano anche la sola parte di lui ancora in grado di trasmettere un'emozione familiare. Le emozioni che manifestava in quei giorni erano fugaci ed elementari: la gioia quando vedeva arrivare Mariah, la tristezza quando se ne andava, la frustrazione nei rari tentativi di comunicare.

    Una volta, a Vienna, quando era uscito dal coma in cui giaceva da settimane dopo l'incidente, Mariah aveva scorto in quegli occhi l'orrore della consapevolezza.

    Per molti giorni, mentre il marito era incosciente, c'erano stati momenti in cui sembrava che la riconoscesse.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1