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Niebla
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E-book374 pagine5 ore

Niebla

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Info su questo ebook

In un futuro prossimo, la pace globale è stata raggiunta e le guerre sono soltanto un lontano ricordo. L'umanità vive nel periodo più luminoso della sua storia e il mondo sembra avviato verso un costante e irreversibile progresso. Ma non tutto è come sembra.

Niebla è un thriller fantapolitico che scava nel lato oscuro della società. Ambientato in un mondo simile a quello reale, ma con personaggi e istituzioni di fantasia, il romanzo mette in risalto i lati peggiori o migliori dell'animo umano: l'ambizione, la sete di potere, la voglia di arricchirsi, ma anche il rifiuto di far parte di una società malata e corrotta e il desiderio di vivere una vita normale.

 
LinguaItaliano
Data di uscita19 ago 2020
ISBN9788869632426
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    Anteprima del libro

    Niebla - Isabella Marangotto

    Isabella Marangotto

    NIEBLA

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2020 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869632426

    Capitolo 1

    Dovreste vergognarvi.

    Come dice?

    E non solo voi. Tutti dovrebbero fare un passo indietro. Tutti. Dignità. Rispetto. Etica. Ogni essere vivente dovrebbe avere il senso della misura. Ma questo è chiedere troppo, me ne rendo conto.

    La dignità è la prima voce del Trattato. Il rispetto…

    Cazzate, generale. Parole al vento. Nessuno sa riconoscere il proprio limite. Mai.

    E lei? Lei ci riesce?

    Sì. Ora sì. Sentirete ancora parlare di me.

    Il generale piegò le labbra.

    Non ho idea di cosa le abbiano detto, ragazzo, ma è fuori strada.

    E lo sa qual è la cosa più divertente di tutte?

    Come?

    Il giovane si sporse oltre il tavolo, si avvicinò il più possibile al generale.

    Che voi ci credete veramente. Ne siete convinti sul serio.

    A cosa si riferisce?

    L’altro sorrise. Disse un’unica, semplice parola.

    Niebla.

    ***

    La villa dove il vecchio D aveva scelto di vivere sorgeva appena fuori città, nelle splendide campagne piene di luce. Era baciata dal sole, dall’ombra e dal silenzio, piena d’erba e frutta sugli alberi. La pace era in ogni cosa, anche nel latrare lontano di un cane.

    Jenkins guidava per la strada sterrata, spezzando di netto la quiete. Le ruote della macchina alzavano polvere e ghiaia, il fumo del tubo di scappamento era uno schiaffo in faccia alla natura.

    Jenkins non metteva piede in quei luoghi da quando era bambino. Suo padre e il vecchio D erano stati l’uno la spalla dell’altro, uniti dall’amicizia e dal rispetto reciproco. Nelle calde sere d’estate si ritrovavano in veranda a bere e mangiare, circondati dall’affetto delle mogli, dalle risate dei figli, dai cani che correvano liberi per il parco. Sedevano sulle sedie di vimini sotto il gazebo, con un bicchiere di vino in una mano e un sigaro d’importazione nell’altra. Si godevano il fresco e la vita.

    Poi qualcosa si era rotto.

    Il generale Saito se n’era andato dalla casa dei Diomede sbattendo la porta e vomitando odio da ogni poro. Aveva minacciato querele per mesi, sputando fango su D fino allo sfinimento. Solo il rischio di un infarto era riuscito a calmarlo: era stato costretto a darsi pace, convinto dai consigli di un medico e da un esaurimento nervoso. Da quel giorno il Generale non aveva più nominato né D, né alcun membro di quella brutta famiglia. I Diomede erano diventati trasparenti come l’aria.

    Ora Jenkins tornava da quelle parti e non ne era contento. Gli era arrivato l’ordine direttamente dalla voce di Klaus, altrimenti col cavolo che avrebbe accettato un simile impiccio.

    Svoltò a destra e la villa apparve. Sorgeva sopra un rialzo del terreno ed era impossibile non notarla: un inutile ammasso di ricchezza, una scatarrata di denaro in mezzo al verde. Il parco si snodava in un’unica, interminabile distesa di fiori rosso fuoco, erba sottile e alberi da frutto.

    Jenkins parcheggiò proprio di fianco a una grossa automobile nera. Scese dalla macchina e rimase a guardare il mostro scuro davanti a lui: un SUV, un colosso succhia-benzina come se ne vedevano pochi. Si domandò chi tra i Diomede avesse il cattivo gusto di comprare una simile pacchianata. D no di certo: lui non amava investire nel superfluo.

    L’aria della campagna era buona, sapeva di fresco e fiori. Il sole scaldava la pelle, la brezza portava con sé l’odore intenso dell’erba appena tagliata. Jenkins si avvicinò all’entrata, suonò il campanello e rimase in attesa, una mano appoggiata al cancello in ferro scuro e l’altra nella tasca dei pantaloni. Non gli piaceva aspettare. Non gli piaceva neppure il discorso che doveva affrontare con D. Se lo ripassò mentalmente, mentre il suo piede batteva a terra.

    Venne ad aprirgli una cameriera che doveva essere stata assunta da poco. Lo si capiva dal modo in cui sorrideva: timido, ingenuo, persino irritante. Jenkins non la guardò nemmeno. Andò avanti per il vialetto in pietra con passo svelto, senza neanche buttare un’occhiata ai bei fiori rossi del giardino. Il profumo del glicine gli dava fastidio: non ricordava che ce ne fosse tanto, in casa di D.

    Può attendere nel salone mentre io vado ad annunciarla, maggiore Saito. disse la ragazza.

    Jenkins gettò uno sguardo distratto verso di lei. Oltre che timida era pure sciatta, con gli occhiali dalla montatura brutta e i denti storti. Non le rispose, non ne valeva la pena. Si fermò in prossimità della porta e attese che lei gli aprisse, come un re che si fa servire dai sudditi. Poi entrò.

    Il salone era uguale a come lo ricordava: le stesse brutte nature morte alle pareti, gli stessi tappeti in terra e persino gli stessi, colossali lampadari di cristallo. I Diomede non amavano i cambiamenti. Si circondavano di ricordi, ancorati al passato come se il presente non esistesse.

    Se vuole accomodarsi, maggiore… disse ancora la cameriera.

    Jenkins si lasciò cadere a peso morto sopra una poltrona, schiacciò i cuscini morbidi come una bomba che atterra sulla panna montata. Accavallò le gambe, si portò le mani dietro la nuca, si appoggiò con disinvoltura allo schienale.

    Vuole che le porti qualcosa da bere mentre aspetta, maggiore?

    Jenkins si voltò, guardò la ragazza in malo modo. Lei sorrise, perché i Diomede dovevano averla istruita così. Lui le fece cenno di andarsene: con la mano, uno dei gesti più brutti che esistessero nel linguaggio non verbale. Lei divenne seria di colpo: annuì e si congedò in fretta, senza dire più nulla.

    Jenkins rimase da solo, in quella stanza impregnata di tempo antico. Il quadro con il cane da caccia era sempre là, appeso sopra il caminetto. Jenkins si sorprese a guardare il dipinto con fastidio. La memoria era una brutta cosa: turbava, senza che si potesse fare niente per impedirlo.

    C’era una rivista, sul tavolino accanto alla poltrona, appoggiata sul piano di vetro. Jenkins la prese e cominciò a sfogliarla. Gossip. Gossip stupido e frivolo. Apparteneva a Emelina, di sicuro. Jenkins piegò le labbra, infastidito dall’articolo sul matrimonio di qualcuno.

    La porta si spalancò proprio mentre era immerso nella lettura del pezzo. Non se l’aspettava. Chiuse il giornale in fretta e lo posò sul tavolo, imbarazzato come se l’avessero scoperto a rubare.

    Diomede era un’apparizione: le braccia spalancate parevano ali d’angelo, le labbra aperte tremavano in modo impercettibile. Non era cambiato affatto. I baffi avevano perso colore, certo, i capelli erano bianchi e le spalle curve. Però il sorriso era rimasto lo stesso. Enigmatico.

    Jenkins si alzò in piedi. D avanzava verso di lui, commosso come se avesse ritrovato un figlio.

    Un uomo. disse, con voce rotta dall’emozione Sei diventato un uomo.

    Jenkins si lasciò abbracciare controvoglia.

    Sono qui per un brutto motivo, D. Lo sai, vero?

    Diomede si scostò: aveva un’aria trasognata, come se la sua mente fosse altrove.

    Ci sarà un’inchiesta, dopo quello che è successo. E io devo farti delle domande.

    Diomede non disse nulla. Pareva che le parole gli scivolassero addosso senza entrare in profondità. Jenkins si aspettava una reazione diversa: credeva di trovarsi faccia a faccia con un uomo turbato, pronto a chiedere spiegazioni. Invece D era tranquillo. L’Ariete era in pezzi e lui era tranquillo.

    Klaus mi ha spedito qua. Vogliono sapere cos’è successo, sono tutti fuori di testa là dentro.

    E hanno mandato te?

    Beh, io ti conosco. Vogliono sapere se hai ricevuto minacce. Magari da qualcuno che ti vuole male o prova rancore nei tuoi confronti.

    Un sacco di gente mi vuole male, ragazzo mio. A cominciare da tuo padre.

    Jenkins divenne cupo. D amava dipingere se stesso come il santo che non sarebbe mai stato. L’aveva sempre fatto, fin dai tempi dell’amicizia col Generale, e gli anni passati non l’avevano ancora costretto a perdere quella brutta abitudine.

    Pensiamo a un’azione dei pacifisti, D. Hanno rotto le palle per un anno, ora saranno contenti.

    Ma non ci sono ancora state rivendicazioni.

    No.

    D sollevò una mano e la agitò in aria.

    I pacifisti non piazzano bombe. E se ci fosse stato un operaio, all’interno dell’Ariete?

    Sapevano che il posto era vuoto e hanno deciso di rischiare. Lo ripeto: è stato un atto dimostrativo.   Esercito, finanza, politica… Tutte forze che secondo loro stanno distruggendo la società.

    D appoggiò le mani sullo schienale del divano e cominciò a tamburellare con le dita. L’unico gioiello che portava addosso era la fede.

    Come sta tuo fratello? domandò all’improvviso So che sua moglie ha avuto un bambino.

    Jenkins non era felice di aver visto l’Ariete raso al suolo e non avrebbe dovuto esserne felice neppure D. Invece il vecchio sorrideva ed evitava le domande scomode come un gatto evita l’acqua.

    Diomede, la tua creatura è saltata in aria. Ci hai perso un sacco di soldi. Te ne rendi conto, vero?

    Certamente.

    E allora perché te ne stai lì tranquillo, come se non fosse successo niente?

    D alzò la testa. Non sorrise, perché tanto non ce n’era bisogno.

    Io sono un imprenditore, Jenkins. Costruisco case. Non ho contatti con l’esercito e non so nulla dei vostri trascorsi. Non so nemmeno perché delle persone che manifestano in pace perdano la testa a tal punto da piazzare bombe. Mi sembra assurdo.

    La gente è assurda, D. Lo sai meglio di me.

    Anche questo è vero.

    Manderanno una squadra laggiù, per valutare l’entità dei danni. Lasciami dire che mi aspettavo da te una maggiore collaborazione. Quello che è successo è anche una tua responsabilità, in fondo.

    La bomba è una mia responsabilità? L’ho piazzata io?

    No, ma…

    Diomede sorrise, finalmente. Non era turbato, non lo era affatto. Forse l’assicurazione copriva gran parte dei danni, forse dell’Ariete non gli importava poi molto.

    "Assomigli proprio a tuo padre, sai? Mai abbassare lo sguardo, mai piegare la testa. Andare sempre a fondo delle questioni. Mi sembra di sentir parlare il Generale." disse.

    Cominciò a ridere, come se gli fossero tornati in mente ricordi piacevoli. Jenkins invece era scuro in volto. Gli pareva che la conversazione terminasse lì, senza aver cavato un ragno dal buco.

    Io non ti capisco, D. Non ti importa nulla dell’Ariete, non ti importa nulla dei soldi persi. E allora perché diavolo hai fatto di tutto per avere l’appalto? Potevi startene tranquillo a goderti i tuoi averi, invece di infilarti in un progetto che si portava dietro fin dall’inizio un mare di polemiche.

    D staccò le dita dal divano, si diresse verso la finestra. Si fermò accanto ai vetri, scostò la tenda per guardare fuori. La bella giornata di sole volgeva al termine. I merli cantavano sugli alberi, in modo talmente chiassoso da confondere le loro voci l’una nell’altra.

    Sai perché ho scelto di vivere qui? disse.

    No.

    Perché la natura ha dei limiti. E non li supera mai.

    Il vecchio si voltò. Era serio. Forse il canto degli uccellacci gli aveva dato alla testa, forse negli anni si era bevuto il cervello e nessuno se n’era ancora accorto.

    Non capisci, vero Jenkins? Non preoccuparti. C’è tempo. concluse.

    Jenkins piegò le labbra: sembrava D lo stesse congedando. Con cortesia, certo, ma lo stava comunque silurando senza possibilità di replica.

    Non hai risposto a nessuna delle mie domande, Diomede. Te lo faccio presente.

    Ti ho detto quello che so. Appena la situazione diventerà più chiara sarò felice di rivederti.

    Tante belle parole per non dire nulla. Ecco D Diomede. Un sorriso, un paio di baffi e nient’altro.

    Jenkins si aggiustò la giacca con nervosismo, come se anche i suoi gesti esprimessero disappunto.

    Forse avrò bisogno di farti altre domande, Diomede. Sappilo. Se vuoi evitarmi, hai tutto il tempo per inventare una scusa credibile.

    Sono a tua completa disposizione. Nessuna scusa.

    Salutami Emelina. E anche il resto della famiglia.

    Non mancherò. Se tuo padre, tua madre o tuo fratello volessero venire a trovarmi, ne sarei felice.

    Jenkins annuì. Il suo incontro con D Diomede, dopo ventitré anni di vuoto, finiva lì.

    Jenkins lasciò la villa quando fuori era ormai sera. I merli cantavano con meno convinzione ora, l’aria si era fatta più fresca. Il tramonto aveva reso il profumo dei fiori ancora più intenso.

    Si era accesa una luce, in una delle finestre al piano superiore della villa, e un’ombra si muoveva oltre il vetro. C’era qualcuno, lassù. Uno dei Diomede che aveva preferito restarsene nascosto invece di scendere a salutare. Jenkins piegò le labbra. Che gente, pensò. Salì in macchina, deciso ad andarsene via e non tornare mai più.

    Capitolo 2

    L’Ariete era un gigantesco complesso militare, nato nell’arco di un solo anno e morto nel giro di una sola notte. Il mondo progrediva a grandi passi verso la pace globale. Gli ultimi conflitti erano finiti nel nulla, come una bolla che si sgonfia senza esplodere. Cominciava il periodo migliore nella Storia dell’Uomo. Un’epoca di speranza per tutti.

    L’Ariete arrivava come un fulmine a ciel sereno in mezzo al processo di pace. Riportava indietro le lancette del tempo, costringendo l’umanità a fare i conti con il suo volto peggiore: l’aspetto militare, cui nessuno sembrava ancora in grado di rinunciare, era ancora lì, a ricordare a tutti che la fiducia è una bella cosa, sì, ma la possibilità di difendersi è una cosa ancora più bella.

    La lotta per l’appalto fu una sfida all’ultimo sangue. Molti parteciparono, ma a spuntarla fu un uomo soltanto: D Diomede. Fece gettare la spugna, uno dopo l’altro, a tutti i peggiori avversari. Apparve sorridente sulle prime pagine dei giornali, dopo la vittoria, intento a stringere la mano al generale Klaus. I flash dei fotografi si scatenarono, le istituzioni fecero i complimenti, il Presidente sorrise e l’esercito annuì con rispetto. Alla gente comune, dell’Ariete, di Diomede, di Klaus, importava poco. Erano notizie che scorrevano in mezzo ad altre notizie.

    Importava a Pagot, invece. Lui si batteva da anni affinché il paese gettasse via ogni tipo di arma. Lottava per fissare nelle menti di tutti il concetto di pace globale. Quella che non è stata ancora raggiunta, nonostante tutti dicano il contrario. Un bravo giornalista, con davanti la strada più spianata del mondo. Ecco chi era Pagot. La sua colpa peggiore, la sua unica colpa, a dire il vero, fu credere davvero nel Trattato. Applicare alla lettera un qualcosa che esisteva solo sulla carta. E accorgersi che, nonostante i propositi di pace, l’idea di smilitarizzare il mondo era davvero lontana.

    Ci prendono in giro. Ci fanno credere che abbiamo bisogno dell’esercito, che tutto questo viene fatto per la nostra sicurezza. Non è vero. Perché costruire basi militari in giro per il mondo? Non bastavano quelle che c’erano già?

    Pagot cominciò la sua lotta solitaria. Fece ricerche. Scavò negli archivi dello Stato.

    Vi siete mai chiesti con quali soldi vengano costruite queste opere? Anche l’Ariete, che sorgerà fra pochi mesi, con che fondi lo faranno? Ve lo dico io, da dove arriva il denaro. Finanziamenti privati, gente che ha interesse a costruire, gente senza un’etica. Una società chiamata Cometa W, per esempio. Non c’è nessun controllo su chi gestisce i soldi, non sappiamo perché una spesa pubblica sia in mano a un ente privato. Fatevele, delle domande.

    Continuò a lamentarsi per mesi, nel tentativo di bloccare il progetto. Raccolse firme e smosse coscienze. Smise persino di mangiare per due settimane. Ma l’Ariete si fece lo stesso. Il mostro, come lo chiamava lui, sorse a Mucho Quanto nel giro di sei mesi, nel disinteresse della stampa. Pagot sputò l’ultima saliva nei salotti televisivi, sbraitò nei comizi in piazza. Tutto, pur di farsi ascoltare da qualcuno. Parlò di fratellanza dal palco, in una calda notte d’estate. Ottenne un botto, verso l’una di notte, che fece tremare tutti.

    Qualcuno piazzò una bomba nell’Ariete e premette il detonatore. Lo scoppio buttò giù il lato ovest della caserma e fece perdere soldi e credibilità all’esercito. Diomede si chiuse in casa, tirò le tende e lasciò la stampa a bocca asciutta. La gente accolse la notizia con cinismo: non c’erano state vittime e nessuno avrebbe pianto per un muro crollato.

    Pagot venne buttato a calci fuori dall’ordine dei giornalisti. Si disse che le sue chiacchiere senza fondamento avessero ispirato le gesta di un folle. Lui si consegnò una notte nelle mani della polizia, giurando di non c’entrare niente con l’esplosione. La sua deposizione non servì a nulla.

    Le indagini partirono: un gruppo di militari fu incaricato di raggiungere l’Ariete, per controllare che la zona fosse sicura. Il compito di formare la squadra fu affidato al sergente Linda Brie.

    Lei era la persona adatta: decisa, seria, con la testa ben piantata sulle spalle. Pochi vizi: rispettava le regole come nessun altro. Riceveva un comando e lo portava a termine senza discutere. I maligni dicevano che lo portasse a termine senza pensare.

    Quando l’incarico all’Ariete fu affidato a lei, Linda sbatté più volte le palpebre. Un ordine importante veniva affidato solo a gente importante. E Linda Brie, importante non lo era mai stata.

    Si presentò davanti a Klaus vestita in modo impeccabile, come da tempo non le capitava di essere. I capelli legati in una coda di cavallo, la divisa lavata e stirata poche ore prima, i gradi da sergente che brillavano sulla sua giacca.

    Voleva vedermi, generale? disse.

    Klaus alzò la testa e la guardò senza parlare. Afferrò della carte dalla scrivania e le porse a Linda. Erano fotografie, sfocate e stampate su carta. Linda rimase a fissare le immagini per qualche istante, con le sopracciglia aggrottate. Poi riconsegnò le foto a Klaus.

    È l’Ariete. Perché ha voluto farmelo vedere?

    Perché è lì che andrà, sergente. In un luogo considerato da molti un posto da evitare.

    Povertà, gente ostile, bombe che scoppiano nelle caserme, caos che va avanti da cinquanta anni. Una persona astuta si sarebbe tenuta alla larga da una grana del genere. Linda invece era quasi commossa: stava facendo la muffa da secoli, qualunque incarico era benvenuto.

    Molti sono convinti che l’Ariete non avrebbe mai dovuto nascere. E non parlo solo di Pagot, ma di uomini all’interno dell’esercito. Insospettabili che remano contro. disse Klaus.

    Non ci sono pacifisti tra i miei soldati, generale.

    Alcuni tra i nostri migliori uomini si sono opposti con forza al progetto Ariete. Non mi spiego un tale contrasto, se non con un preoccupante fanatismo di fondo.

    Linda era all’oscuro di tutto. Le polemiche sulla base di Mucho Quanto erano arrivate in forma ridotta alle sue orecchie, un mormorio attutito che non le aveva procurato il minimo fastidio. Lei si trascinava annoiata da un’esercitazione all’altra, indifferente alle proteste dei pacifisti e alla guerra solitaria di Pagot. Ogni tanto apriva un occhio e controllava che nessuno la disturbasse.

    Potrei sapere il motivo di tanta ostilità, generale? Mucho Quanto è una regione povera, però…

    La pace è stata raggiunta. E l’Ariete, secondo alcuni, non ha senso di esistere. Vedere il denaro pubblico speso per costruire una base militare ha fatto storcere il naso a molti.

    La pace è un equilibrio precario. Finché non siamo sicuri che regga non possiamo smilitarizzare il mondo.

    Lo vada a dire a Pagot. E a quelli come lui.

    Portare la pace non era stato difficile. Cambiare gli interessi economici in ballo era stato impossibile. Dietro ogni conflitto si muovevano giri di denaro impensabili. Per calmare i signori della guerra si erano versati fiumi di contante. C’era chi sosteneva che si fosse pagato un prezzo ben più alto dei soldi: era stata venduta l’onestà.

    Nessuno dei soldati che porterò come me creerà dei problemi, signore. Glielo assicuro.

    Mi fido di lei, Brie, e della sua capacità di giudizio.

    È un onore lavorare per lei, generale. È un onore servire il mio Paese ed è un onore servire lei.

    Che sviolinata. Linda si sentì quasi in imbarazzo, mentre la pronunciava. Klaus sorrise: non lo faceva spesso. Linda lo vide piegarsi e aprire un cassetto della sua scrivania. Lo vide rovistare dentro. Sembrava che cercasse qualcosa di importante senza riuscire a trovarlo.

    Ha mai sentito parlare di Niebla, sergente? chiese.

    Linda aggrottò le sopracciglia, sorpresa dalla domanda del generale. Klaus alzò una mano e la mosse in aria, come se cercasse allontanare le parole che aveva appena pronunciato.

    No, niente. Non fa niente. disse.

    Linda rimase in silenzio. Non le piacevano le frasi lasciate in sospeso, erano una mancanza di rispetto nei confronti di chi ascoltava. Il generale richiuse il cassetto e posò le mani in grembo.

    Può andare, sergente. concluse.

    Linda Brie corrugò la fronte ma non disse nulla. Non era abituata a fare domande e non avrebbe cominciato proprio quel pomeriggio. Fece il saluto militare e lasciò la stanza fin troppo in fretta.

    Scosse la testa, mentre camminava per il corridoio. Riflettere a lungo non era utile e cozzava contro la sua filosofia di vita: non si arriva a quarant’anni illesi, se non si impara a fregarsene di tutto.

    E poi doveva formare la squadra. Aveva già in mente alcuni uomini che le sarebbe piaciuto portare con sé. Soldati di cui si fidava, che non l’avrebbero delusa.

    Linda si allontanò lungo il corridoio, con la testa immersa nel suo nuovo incarico.

    Capitolo 3

    Jenkins sospirò. Quello era il suo giorno libero e lui non riusciva a goderselo. L’impressione di essersi lasciato fregare come un pivello non gli dava pace. D aveva ruotato intorno alla questione dell’Ariete, evitando il problema con un’eleganza tale che ora, riflettendoci a mente lucida, Jenkins si sentiva un cretino. Si alzò in piedi. Era tutto il pomeriggio che andava avanti così: si sedeva sul divano per un paio di minuti e poi si rialzava di scatto, come se avesse il fuoco sotto alle chiappe.

    Era una bella domenica di sole. Una giornata in cui lui non avrebbe dovuto fare altro che starsene in poltrona, coi piedi infilati nelle pantofole e le braccia incrociate sul petto.

    Invece prese il cellulare e digitò un numero. Le notizie sull’Ariete non arrivavano più sulla sua scrivania e lui cominciava a pensare che tutti, là in caserma, gli stessero nascondendo qualcosa.

    Perché non rispondi, Felix? Dove sei? urlò nella cornetta.

    Lisa era sopra una scala, tinteggiava le pareti con una flemma tale da sembrare in pace col mondo intero. Si voltò per un attimo, quando sentì Jenkins urlare. Lui si lasciò cadere di nuovo sulla poltrona, rigirando il cellulare tra le mani, convinto che tanto non avrebbe squillato. Il suo piede destro cominciò a battere sul pavimento.

    Prova a rilassarti, Jenks. Il mondo va avanti anche senza di te, sai? disse Lisa.

    La voce di lei era un fastidioso ronzio nelle orecchie. Come riuscisse a starsene lì a dipingere, senza preoccupazioni, senza un solo pensiero in testa, Jenkins proprio non riusciva a capirlo.

    Lisa era spesso incomprensibile. Negli ultimi mesi aveva attaccato una mensola storta in soggiorno, tinteggiato male un tavolo del giardino, costruito una lampada con materiali di scarto e appeso un quadro di merda in fondo al corridoio.

    Quella domenica si era messa in testa di disegnare fiori sul muro. Aveva spostato i mobili, coperto con la plastica quelli rimasti e riempito la stanza di vasi di vernice e tanfo.

    Mi porti quel vaso di pittura, Jenks? Quello rosa, là in fondo. disse infatti.

    Jenkins si voltò verso la porta: il contenitore era là, in fondo al corridoio. Jenkins posò le mani sulle gambe, fece leva e si alzò dal divano con un grugnito. Raggiunse l’andito: ce n’erano due, di bidoni rosa, uno più chiaro e uno più scuro. Jenkins li guardò per un attimo con la fronte corrugata. Poi li prese entrambi. Si avvicinò alla scala, passò i contenitori a Lisa e lei li afferrò con aria sorpresa.

    Perché hai portato anche quello fucsia? chiese.

    Jenkins non disse nulla: infilò una mano in tasca, tirò fuori il cellulare. Compose un numero. Lasciò squillare un’infinità di volte, ma nessuno rispose. Lui scagliò il telefono contro la poltrona, una di quelle che Lisa aveva spostato per fare spazio alla sua arte. Il cellulare partì come un bolide, fece due metri di volo e rimbalzò sulla stoffa un paio di volte, prima di fermarsi sopra un cuscino.

    Felice non richiama. È da ieri sera che lo cerco e lui non si fa trovare. disse Jenkins.

    Telefona a casa sua.

    L’ho già fatto. Alina dice che non è rientrato. Non doveva fermarsi in caserma, cazzo. Era libero. Mi stanno nascondendo qualcosa. Tutti quanti.

    Lisa scoppiò a ridere di colpo. Era sempre così, lei. Sdrammatizzava. Non capiva quando fosse il caso di essere allegra e quando era meglio starsene in silenzio.

    Vedi sempre il lato peggiore delle cose, Jenks. Tuo fratello avrà avuto qualcosa da fare, no?

    Di domenica pomeriggio?

    Ma sì. Magari un’emergenza.

    Jenkins andò verso la poltrona, raccattò il cellulare e se lo mise in tasca. Raggiunse la porta, la spalancò. Uscì. Era un pomeriggio estivo, l’aria calda invitava a lasciare le case. Jenkins non fece caso al bel tempo. La sua testa era altrove. Aprì la portiera e salì in macchina.

                                                                                                                      ***

    Lisa era senza parole. Aveva già visto Jenkins perdere la testa per sciocchezze, ma mai come quel pomeriggio. Scese in fretta dalla scala, posò il pennello in terra e rimase ferma in mezzo alla stanza, indecisa su ciò che doveva fare. Aveva dipinto la parete, mancavano solo i fiori in cima. Un lavoro su cui Jenkins aveva avuto da ridire fin dall’inizio.

    Non voglio fiori del cazzo nel mio soggiorno.

    Farò delle rose stilizzate, mica dei fiori veri. Ho già una visione di come verrà la parete.

    Le visioni di Lisa non erano mai gradite. Non era stato accolto bene il quadro appeso nel corridoio e neppure l’unica piastrella verde in mezzo a quelle beige della cucina. Non sarebbero stati accolti bene neppure i fiori.

    Un colpo di clacson riportò Lisa coi piedi per terra. Doveva essere Jenkins. La stava aspettando in macchina e si stava spazientendo. Lisa uscì di casa senza neppure cambiarsi d’abito.

    Lui attendeva al posto di guida: tamburellava le dita sul volante e pareva fin troppo nervoso. Il cellulare era appoggiato sul cruscotto, pronto per essere afferrato nel caso si fosse messo a suonare. Lisa si sistemò sul sedile e chiuse la portiera. Jenkins mise in moto, non aspettò nemmeno che lei si allacciasse la cintura. Fece una manovra brusca e uscì dal vialetto di casa.

    Attento! Butti giù il bidone dell’immondizia. gridò Lisa.

    Lui partì sgommando, la mano destra sulla leva del cambio e la sinistra sul volante. Le ruote stridevano, Jenkins filava.

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