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Ānanda
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E-book278 pagine3 ore

Ānanda

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Info su questo ebook

Tre furono gli eventi catastrofici che sconvolsero l’umanità: l’ultima grande guerra, che devastò migliaia di città in tutto il globo, un batterio che mise a dura prova i superstiti e la grande pioggia, che cadde per tredici mesi e travolse le comunità sulle coste. 
Quando la pioggia cessò e le acque si ritirarono, i pochi sopravvissuti erano ormai stremati. Fu allora che da Oriente giunse un popolo misterioso, di cui nessuno seppe mai l’origine, che portò nuova linfa al genere umano e stabilì la pace con la Natura.
Ānanda è una raccolta di racconti, che narra le vite di alcune persone vissute nel periodo in cui avvennero le tre catastrofi planetarie. Le loro storie si intersecano nei secoli (e nei millenni), in un continuo salto tra passato e presente, in cui il lettore, come un archeologo, è chiamato a ricostruire gli eventi e le genealogie familiari. In particolare, si raccontano le vite di tre donne: Judy, la figlia Vera e la nipote Rebecca. In parallelo, una figura misteriosa, chiamata il Discepolo, percorre i millenni alla ricerca di un significato alla vita.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita1 lug 2021
ISBN9788833669359
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    Anteprima del libro

    Ānanda - Argyros Singh

    ARGOMENTO

    Tre furono gli eventi catastrofici che sconvolsero l’umanità.

    Un primo conflitto mondiale, durato pochi mesi, avrebbe dovuto allarmare le nazioni; ma fu solo il preludio all’ultima grande guerra, che devastò migliaia di città in tutto il globo.

    Trascorsero gli anni, i sopravvissuti tentarono di ripristinare la civiltà, impiegando le tecniche e le tecnologie ancora disponibili, ma un batterio, nominato Anthrax, mise a dura prova quel tentativo. Non vi erano più strutture sanitarie abbastanza attrezzate e organizzate sui territori, per questa ragione si cercò di isolare i focolai e si sperò di essere immuni.

    In alcune aree del mondo nacquero nuove comunità, collegate tra loro da una rete di scambio commerciale e culturale.

    Così avvenne per esempio nelle Americhe e soprattutto in Britannia, un territorio che si estendeva dalla Groenlandia alla Norvegia, dove ci si sosteneva a vicenda, in forma paritaria, riprendendo il modello delle antiche poleis.

    Dell’Europa continentale si avevano informazioni frammentarie, mentre in Medio Oriente sopravviveva una società feudale divisa tra gli immuni e i contagiabili. L’Africa era tornata una terra ignota, isolata dal resto del mondo. Ritrovò, forse così, la propria pace. Nemmeno da Oriente vi furono più notizie.

    Un giorno, tuttavia, la grande pioggia cominciò a cadere e non smise per tredici mesi. Molte comunità, che erano state fondate sulle coste o nei pressi dei fiumi, finirono per essere travolte dalle acque. L’umanità fu ulteriormente decimata dalla Natura.

    Quando la pioggia cessò e le acque si ritirarono, i pochi sopravvissuti erano ormai esausti, privati di una guida umana o divina che li rialzasse.

    Fu allora che da Oriente giunse un popolo misterioso, di cui nessuno seppe mai l’origine, che colonizzò gran parte del pianeta. Esso portò nuova linfa al genere umano e stabilì una pace con la Natura.

    Rispettandola e rendendole onore, questa avrebbe permesso all’umanità di vivere un’età dell’oro e di poter aspirare alla liberazione dalla materia.

    Guerre, una pandemia e la grande pioggia: questi i tre fenomeni che cambiarono il mondo. Prima della loro realizzazione, le due stirpi più nobili del creato, l’una di origine umana, l’altra luciferina, si incontrarono in diversi secoli, nell’attesa della fine dei tempi.

    Per millenni si scontrarono con il Nemico, intenzionato a fare in modo che in seguito all’apocalisse continuasse a regnare il caos.

    Nel corso delle tre catastrofi, artisti, profeti e veggenti furono animati da incredibili ispirazioni, come nell’antichità. Con le loro abilità sigillarono l’ultima gloriosa opera di quella generazione di uomini.

    Compiuta la fine, l’Essere venuto alla luce dalle due stirpi cammina nel tempo. In ogni luogo che visita aspira a estinguersi in Brahmâ.

    Le vicende di ciascuno si intersecano tra le epoche e sembrano confondersi tra passato, presente e futuro.

    RACCONTI

    John e Vera

    John Komie fece un grosso errore.

    Uccise Vera Kaufmann in modo atroce, manifestando una cattiveria del tutto gratuita. Quando John si avvide della differenza sostanziale tra la vita e la morte, era già troppo tardi.

    In un secondo riuscì a provare un potere sovrumano nelle proprie mani e l’istante successivo rimase impotente di fronte a quel corpo spento.

    Si accorse con estasi di come fosse irrimediabile la morte e delle conseguenze che essa portava con sé. Si rese conto che sarebbe stato un reietto, costretto a nascondersi al giudizio su di sé che egli vedeva riflesso nei volti degli altri.

    Un killer fuori controllo è un predatore il cui desiderio è tanto intenso da volerlo manifestare in un atto di potenza che tutti possano ammirare. E John quel delirio poteva ora comprenderlo, ma non era in grado di appropriarsene. Vestiva un abito scomodo, quello del killer, nascosto sotto l’abituale confuso insieme di tinte spente.

    Un giorno, molto tempo prima, Vera gli aveva domandato quale fosse il maggior pregio di una persona.

    «La trasparenza» rispose lapidario John con quell’atteggiamento distaccato che si era imposto ormai da lunga data.

    Vera era una donna curiosa, in grado di trasformare la curiosità in ansia e l’ansia in insistenza. Una dolce insistenza, a voler essere onesti.

    John le pagò il conto, e Vera disse che ci aveva già pensato lei per prima a pagare quello di lui. L’uomo fu riportato alla realtà dopo anni di apatia emotiva; un solo piccolo atto fuori dalla norma dei codici sociali.

    Da allora, ogni sera, si incontravano in quello stesso locale. A volte si aspettavano per ore; tra un tè ormai freddo e un libro finito, c’era sempre tempo per altri dieci minuti.

    «È sbagliato» le disse John anni dopo, nella loro nuova casa. Ma Vera insistette, era lei la regista, nel lavoro e nella vita. In un mondo restrittivo per molti e permissivo per altri, Vera era abituata a quei gesti significativi che spezzavano la calma piatta della quotidianità pubblica e privata.

    «Uccidimi, John!»

    Cominciò una fase strana delle loro vite.

    John non poteva più nemmeno respirare senza la voce di Vera che gli intimava di farla fuori, ogni ora in un modo diverso, in luoghi nuovi. John si spaventò; pensò che la donna fosse impazzita e fosse necessario ricoverarla.

    Si accorse di qualcosa di ancora più angosciante. Uccidimi, gli diceva Vera nei suoi pensieri, a letto durante il sonno, di giorno quando in casa non c’era che lui. Uccidimi, John. Era così semplice. Poi prendevano tempo i rimorsi, le tregue serali, gli attimi di libertà da quel mantra oscuro, così tutto tornava ridicolo. Semplice, sì, ma così assurdo.

    In ogni legame, i litigi fanno parte della natura della relazione, ma, quando si innestarono in una condizione così surreale come la loro, quelle due parole, Uccidimi, John, si trasformarono da assurda possibilità a soluzione.

    Fu in uno di questi giorni che Vera morì.

    Richard Crow era molto legato alla donna. Dai tempi del college erano ottimi amici e Richard era lo sceneggiatore sul quale Vera faceva maggiore affidamento per realizzare i propri film.

    Ogni regista ha un attore feticcio; Vera aveva uno sceneggiatore, che si era fatto notare a Hollywood. Non tanto per meriti personali, ma per la grande maestria di Vera; era capace di leggere tra le righe della sceneggiatura l’anima della storia che Richard desiderava scrivere.

    Tutto si concluse con quel viaggio in California, che non portò davvero a nulla per Richard. Nel frattempo, Vera aveva conosciuto nuovi personaggi del mondo dello spettacolo e i due, pur rimanendo in buoni rapporti, non avevano più trovato un’occasione per collaborare.

    Richard accolse la notizia dell’assassinio con un pianto di rabbia mostruoso, gutturale. Si sorprese di quanto si fosse allontanato da Vera, tanto da non sapere chi diavolo fosse John.

    La vicenda si fermò a quel punto, John era scomparso, o meglio, era stanco e appesantito da tanti anni di parole scritte. Richard tenne per sé tutto quel rancore e trovò finalmente la via per esprimere l’anima che era sempre rimasta imprigionata tra le righe. John svanì.

    E non se ne seppe più nulla. Una decina di anni dopo, il suo ricordo ritornò nella frase di uno sconosciuto qualsiasi: «Ti ricordi di quell’uomo che assassinò la moglie e raccontò quella strana storia di essere stato costretto proprio da lei?»

    «Caspita, ora che mi ci fai pensare mi ricordo qualcosa. Ma non era la moglie, sai? Almeno non credo.»

    «Va bene, non era la moglie. Ma che fine ha fatto?»

    Vera Kaufmann portò un tè caldo a John, posandolo sulla scrivania.

    «Ho finito» disse John.

    «Hai ascoltato i miei consigli per quella scena?» domandò Vera.

    «Nessuno avrebbe potuto darmi una visuale migliore di quella offerta dal tuo occhio.»

    «Adulatore.»

    «Sei morta, Vera, come ti senti?»

    «Sai, non è bello parlare di questo, non è un gioco. Nelle storie un morto spezza quasi sempre la banalità del quotidiano…»

    «… Ma nella realtà, una donna assassinata è il più triste degli eventi ordinari.»

    «Scommetto che il tuo racconto piacerà al giornale. A proposito di scrittori, questa sera Rick verrà a cena da noi.»

    Dialogo intorno a un cucchiaino

    Il Discepolo camminava lungo la spiaggia a nord di Capo Meares, nella contea di Tillamook, Oregon.

    I piedi nudi affondavano nella sabbia finissima, il cui manto omogeneo era interrotto da sassolini ruvidi e pezzi di legno levigati. La lunga distesa umida era sovrastata da una nebbia vaporosa, capace di coniugare terra e cielo.

    I Nativi gli avevano raccontato di un uomo che ogni mattina, un istante prima dell’alba, si piegava sulle ginocchia ed estraeva l’acqua dall’oceano con un cucchiaino.

    Il viandante lo vide con difficoltà, poiché la piccola figura dell’uomo, come accartocciata, si perdeva nella nebbia. Si avvicinò, cosciente di essere stato notato, e l’uomo misterioso cominciò a parlargli come se lo avesse conosciuto da sempre e anzi persino atteso.

    «Chiamami Er. Questo è il nome più antico che io porti sulla mia schiena.» E riprese a estrarre acqua dall’oceano, con ancora maggiore cura nel non rovesciare una singola goccia.

    «Perché lo fai?» domandò il Discepolo, pur sapendo che una domanda tanto diretta non avrebbe portato a nulla. Sapeva tuttavia di dover giocare una parte, di doverla assecondare.

    «Andiamo – disse Er mettendo in tasca il cucchiaino e prendendo il secchio pieno d’acqua – Cammineremo lungo il sentiero panoramico, addentrandoci nel National Wildlife Refuge. Così lo chiamano ora» e sorrise, come se avesse detto qualcosa di buffo.

    Il Discepolo annuì e si offerse di portare il secchio al posto di Er, il quale acconsentì. Rimasero in silenzio per mezz’ora, guardandosi alternativamente i piedi e l’orizzonte sterminato, fino a quando la spiaggia ebbe fine e si avventurarono nel verde della foresta.

    Il terreno si fece in salita.

    «Hai mai visto più uccelli fischiare e volare in un film, o nella mente in un libro, oppure nella realtà? Puoi dire davvero, quando le nomini, di conoscere le cose di cui parli?»

    Le domande di Er scossero il dialogo interiore del Discepolo.

    «Ritengo – disse – che nessuno di noi sia originale e che non sia possibile nominare nulla pensando di conoscerlo per intero. Come dice Emerson, fare una scelta autonoma è una rarità. Essere originali ci permetterebbe di scegliere nella massima coscienza, ma in tanti anni di cammino non ho ancora trovato una via così diretta.»

    «Ragioni bene, te lo concedo. Ma lascia perdere Emerson; era un gran pensatore, ma quello era il suo cammino e tu hai le capacità per segnarne uno tuo. Inoltre, non trovi che parlare di libero arbitrio citando qualcun altro sia un controsenso?»

    Il Discepolo arrossì, un po’ per il complimento e un po’ per l’evidenza che Er gli aveva messo davanti.

    I due proseguirono nella foresta in silenzio, e raggiunsero Capo Meares, un promontorio che si affacciava morbidamente sulla costa del Pacifico. Uscendo dal manto verde, il Discepolo osservò l’oceano. Vi era una leggera brezza e la nebbia cominciava a dissolversi, resistendo solo nel cuore della foresta.

    Vide gli scogli bianchi, grigi e gialli che affondavano nelle acque, sormontati da uno strato di folta vegetazione verde scura. All’orizzonte, emergevano piccoli scogli e, a una distanza maggiore, i due più grandi noti come Pillar e Pyramid.

    Un’angoscia inspiegabile prese il petto del viandante ed Er se ne accorse.

    «Stai guardando nella direzione dei Three Arch Rocks, ma la tua vista non è in grado di distinguere bene quelle figure così lontane. È ciò che non vedi, ma senti, che ti crea oppressione. E tu non sei un veggente, per questo ti opprimono i pensieri negativi su ciò che sarà. Guarda questa natura, quegli uccelli che si fiondano nell’oceano senza sapere se vanno incontro alla vita o alla morte. Vivono nel presente, la loro natura è il dolce e amorevole seno della Terra. Guarda dall’altra parte – gli disse Er – e osserva come la costa si pieghi all’abbraccio delle acque.»

    E in effetti il Discepolo vide quella curiosa conformazione della scogliera e rimase sorpreso, ma il dubbio ancora lo frenava.

    «Forse è un significato che noi gli attribuiamo e niente di più, non trovi?» domandò in cerca di approvazione.

    «Questo mi sembra ovvio. E che cos’altro dovrebbe essere, altrimenti?»

    I due si spostarono al faro di Capo Meares ed Er aprì la porta senza alcuna chiave, benché la torre dovesse essere chiusa. Salirono in cima.

    Il sole era sorto da pochi minuti. All’orizzonte i colori a cui dava origine erano quelli che, in alcune fotografie, confondono l’alba con il tramonto. «Er – disse il Discepolo – soffro nel vedere in questo mondo la mancanza di pietà, di gentilezza, di altruismo in favore delle lotte degli altri. Siamo così egoisti e cinici che ho paura per il futuro dell’umanità.»

    «E fai bene. La vita è un dare e avere. Sono rare le persone che danno con totale disinteresse, quelle di cui dovremmo circondarci. Ma non solo; per apprendere da esse dovremmo anche imparare a cogliere quando vivono un momento di difficoltà. Smettere di prendere da loro e non lasciarle cadere.»

    Scesero dal faro e osservarono ancora una volta la vastità dell’oceano.

    «La terra ha preso ogni cosa dall’acqua; ha preso per milioni di anni. E gli umani, non ancora soddisfatti, hanno depredato quanto rimaneva di esclusivo nelle acque, e non era affatto poco.»

    Er si rabbuiò, ma presto, voltandosi verso la foresta, il suo volto ritornò alla quiete che lo caratterizzava. Camminarono nuovamente e, a pochi passi dal faro, raggiunsero l’Octopus Tree, un abete sitka con rami che crescevano come tentacoli giganti da una base di cinquanta piedi. Non vi era alcun tronco centrale e i rami superavano in altezza i cento piedi.

    «La leggenda racconta che l’albero fu modellato dagli Indiani per contenere le loro canoe con i morti, trasformando questo sito in un ambiente funerario. È una mania tutta occidentale quella di vedere la morte ovunque, e meno la vita. – e sorrise di nuovo, divertito – Modellai l’albero con le mie mani, centinaia di anni fa, facendolo diventare un catalizzatore delle energie del cielo e della terra. E costruii molti altri templi come questo, nei punti cardine del mondo. Questa era la mia missione.»

    Il Discepolo lo ascoltava con crescente stupore. Si accorse che la foresta era insolitamente silenziosa, quasi fosse in attesa di un evento ed Er il suo officiante e attore.

    «Tu guardi in avanti, in cerca di risposte, ma confondi la verità con l’avvenire. Ma la verità non è qualcosa che sarà; è qualcosa che già è ed è sempre. Nella difficoltà di questo cammino, le persone confondono la metafora con il significato del messaggio e dunque proiettano avanti nel tempo le risposte. Non trovandole esaustive, inventano la speranza per vincere l’inevitabilità di cui sono in realtà intimamente consapevoli.»

    Il Discepolo era destabilizzato da quelle parole. La foresta, con quell’albero-piovra, incuteva in lui un timore reverenziale.

    «Ciò che mi dici, Er, è di non avere speranza, ma nemmeno rassegnazione. Si tratta di accettare ciò che deve essere, che anzi già è.»

    «Sì, come quegli uccelli che si precipitano tra le onde.»

    Er, che era vestito di stracci logorati dalla salsedine, prese il secchio dalle mani del Discepolo e lentamente versò l’acqua al cuore dell’albero.

    «Vecchiaia e invisibilità – disse – Ho avuto la fortuna di poterle scegliere entrambe. Rari sono gli esseri umani che hanno avuto tale privilegio.»

    «Non hai svuotato l’oceano con un cucchiaino – disse il Discepolo in un lampo di coscienza – volevi ricoprire la terra con l’oceano.»

    «È una cosa piuttosto strana da dire, non credi?» domandò Er in tono ironico.

    «Si deve accettare ciò che è inevitabile» rispose il giovane.

    Er appoggiò il secchio ai bordi dell’albero e ritornò al centro, avvolto dai rami. Essi potevano apparire come un artiglio emerso dalle profondità della terra, ma anche come piante che si inerpicavano su fili invisibili alla ricerca della luce.

    Il Discepolo osservava l’uomo, che si era ormai isolato con la mente, meditando quel momento fuori dallo spazio e dal tempo. La natura circostante cominciò a tremare; gli uccelli spiccarono il volo e gli altri animali, come impazziti, entravano e uscivano dalle tane.

    Cadevano le foglie e fremevano i rami. L’abete sitka era l’unico albero immobile, ma si percepiva in esso un’energia smisurata, segnata dalla luce emanata dal legno.

    Crebbe la tensione nella natura e l’aria divenne elettrica; un raggio di sole illuminò Er e i rami, come arti sottoposti a una straziante contrazione, liberarono quell’energia incontenibile.

    Er, che aveva vissuto per oltre duemila anni su quella terra, scomparve nell’abbraccio dell’abete sitka, di fronte agli occhi stupefatti del Discepolo. Il prodigio avvenuto e il dialogo di quella mattina lo avevano convinto a non abbandonare il cammino.

    Egli era consapevole, poiché lo percepiva, che Er non era morto, che l’Octopus Tree non era una tomba di morte, ma il sarcofago che apriva alla rinascita.

    Astenia – Parte I

    Judy era stata cresciuta in una famiglia strana. In realtà, esistevano solo lei e suo padre. Vivevano in una casa di campagna nella Willamette Valley, in Oregon, a non molte miglia da Salem. I principali parenti di suo padre erano morti in circostanze poco piacevoli.

    La madre se ne era andata da casa, un giorno, senza lasciare traccia. Nei momenti migliori, il padre di Judy diceva che era sempre stata una donna indipendente; in quelli peggiori, alludeva a quella strana famiglia in cui sua madre si era ritrovata e che l’aveva segnata in maniera irrimediabile.

    All’età di sei anni, Judy iniziò a fare inconsuete esperienze di vita per una bambina.

    Il padre la terrorizzava. No, non aveva mai alzato un dito contro di lei; adorava la propria figlia, idolo incarnato di una religione tutta sua.

    La metteva in situazioni psicologicamente difficili da sostenere. Le parlava giorno e notte di fatti orribili: omicidi a sangue freddo, suicidi, torture, sadismo e persino di presenze demoniache. A quindici anni, Judy aveva una conoscenza del cosiddetto lato oscuro degna del miglior esperto dell’incubo.

    Ricordava la prima prova, non era altro che l’introduzione a tutto ciò che sarebbe venuto. Si doveva cominciare dalla fuga.

    Il padre poteva scomparire anche per intere giornate; una volta era capitato che la lasciasse sola in casa per tre giorni, con le porte e le finestre sprangate, priva di elettricità e acqua corrente. Nella notte insinuava nella casa rumori sinistri, in modo che la bambina non potesse prendere sonno.

    Al termine del terzo giorno, quando i nervi di Judy erano divenuti estremamente tesi, il padre spalancò la porta, mascherato e armato di coltello.

    Judy fu colta dal panico, l’uomo restava immobile sull’uscio senza pronunciare una parola, e la tenue luce lunare mostrava quel poco che era necessario alla fantasia per terrorizzarsi ancora di più. Gridò con tutto il fiato che quei piccoli polmoni potevano concederle e corse in salotto, per frapporre il divano tra sé e l’assalitore. Questo costrinse l’uomo a seguirla. Lei lo fece girare lentamente, in modo quasi impercettibile, intorno a quel divano.

    Gridò ancora, ma l’urlo fu spezzato sul nascere. La bambina si mise a correre con tutte le forze rimaste e uscì dalla porta d’ingresso.

    Seguì un silenzio apparente, smorzato in realtà dalle cicale e dal fruscio delle canne al vento.

    Judy, rannicchiata tra le piante, le gambe nell’acqua paludosa, sentì scivolare tra le caviglie una piccola biscia. Non poteva farle paura. La conosceva, sapeva tutto della fauna e della geografia di quel territorio, dai depositi alluvionali del fiume Willamette ai vigneti e ai campi, fino alle cime delle Cascades, della Coast Range e delle Calapooya Mountains.

    La luna era rimasta oscurata e il nero della notte era ormai quasi totale, quando, osservando la propria casa, Judy vide finalmente una luce artificiale, all’ingresso.

    L’uomo si tolse la maschera e la salutò con un braccio alzato in verticale. La bambina fece un gemito incomprensibile e uscì dalla vegetazione, corse incontro al padre e lo abbracciò come se nulla fosse.

    Nei giorni che seguirono, Judy fu viziata all’inverosimile, con giochi, cibo, vestiti e un appuntamento serale fisso al luna park.

    Anche in quel clima di rilassamento, il padre non smetteva di insegnarle una serie di nozioni per lui fondamentali. Il luna park divenne l’ennesimo banco di scuola.

    L’uomo si congratulò con lei in continuazione: «Non sei fuggita salendo le scale, non ti sei rifugiata sotto il letto, né ti sei nascosta nel ripostiglio o nell’armadio. Sono fiero di te, Judy. Con astuzia mi hai costretto a seguirti e hai mantenuto i nervi saldi. Questa era la prima vera prova, piccola mia, e l’hai superata».

    Passarono gli anni e le prove si fecero poco a poco più cruente, macabre e pericolose. Judy, nata per quel genere di mondo, superò ogni ostacolo.

    Compiuti i quindici anni, il padre le organizzò una festa con le amiche e i compagni di classe. Quella mattina le disse che era pronta, le aveva trasmesso tutto

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