Alla conquista del monte Everest
Di Craig Storti
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Info su questo ebook
Il Monte Everest è la vetta più alta dell’Asia e del mondo. La sua altezza venne misurata per la prima volta nel 1850, ma, fino al 1921, nessuno riuscì anche solo ad avvicinarsi alla montagna. La storia della sua ricognizione e, successivamente, della sua ascesa, è leggendaria. Questo appassionante volume narra tutto ciò che accadde nei settantun anni tra la scoperta dell’Everest e il primo tentativo di conquistarne la cima. Un racconto avvincente, con personaggi incredibili come George Everest, Francis Younghusband, George Mallory, Lord Curzon, Edward Whymper, oltre ad alcuni eroi poco conosciuti come Alexander Kellas, l’ottavo Dalai Lama e Charles Bell. Tra spie, guerre, intrighi politici e centinaia di muli, cammelli, buoi, yak e persino due “zebrasini” (incroci tra zebre e asini), Craig Storti ripercorre l’affascinante e ancora trascurata saga che ha portato gli inglesi George Mallory e Guy Bullock, alla fine del mese di giugno del 1921, a essere i primi occidentali (e quasi certamente i primi esseri umani) a mettere piede sull’Everest e a rivendicare così l’ultima grande sfida montana.
In occasione del centenario della prima leggendaria ricognizione della montagna più alta del mondo
La maggior parte delle cronache trattano la storia dell’arrampicata dell’Everest, questa è la vicenda mai raccontata di tutto ciò che è accaduto prima
Craig Storti
è fondatore e codirettore di Communicating Across Cultures, una società di formazione e consulenza per la comunicazione interculturale con sede a Washington DC. Ha scritto articoli per il «Washington Post», il «Los Angeles Times» e il «Chicago Tribune» ed è autore di sei libri. Dopo aver vissuto all’estero, si è stabilito nel Maryland.
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Anteprima del libro
Alla conquista del monte Everest - Craig Storti
746
Copertina © Sebastiano Barcaroli
Titolo originale: The Hunt for Mount Everest
Copyright © 2021 Craig Storti
Traduzione dalla lingua inglese di Andrea Russo
Prima edizione ebook: giugno 2021
© 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-5229-1
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Craig Storti
Alla conquista del monte Everest
Indice
Prologo. «Non ne potevo più»
Capitolo 1. Picco XV
Capitolo 2. «Manifestazioni grezze della natura»
Capitolo 3. «Una reazione assurda a un groviglio di voci»
Capitolo 4. «A stretto contatto»
Capitolo 5. «Sta arrivando un gruppo di sahib»
Capitolo 6. «Con niente in mezzo»
Epilogo. «Il colle dei nostri sogni»
Ringraziamenti
Note
Bibliografia
Per Charlotte
«Prima di tutto dovremmo trovare la montagna».
George Mallory
Prologo
«Non ne potevo più»
L’atmosfera divenne elettrica. I volti erano tutti irrigiditi. Uno dei generali uscì dalla stanza, furono suonate le trombe all’esterno e gli attendenti si disposero intorno a noi circondandoci.
Francis Younghusband
La mattina del 13 gennaio 1904, mentre soggiornava nel villaggio di Tuna nell’altopiano del Tibet, il colonnello Francis Younghusband, in un atto di «sbalorditiva sconsideratezza», corse il più grande rischio della sua carriera; una carriera, è bene sottolineare, già piena di rischi ¹. Aveva passato la notte del 12 gennaio in uno stato di irrequietezza, fino al mattino successivo, quando:
alla fine non ne potevo più e, portando con me soltanto i capitani O’Connor e Sawyer, senza alcuna scorta e senza dar loro alcun preavviso, cavalcai dritto nell’accampamento tibetano a circa [sedici] chilometri di distanza. Nella notte mi ero svegliato con la forte convinzione che era ciò che avrei dovuto fare, e […] mi adoperai per metterla in atto ².
L’accampamento tibetano, installato in una località chiamata Guru, ospitava più di millecinquecento soldati, la crema dell’esercito tibetano, che si erano assemblati con il preciso compito di bloccare l’avanzata di Younghusband a Gyantse in direzione di Lhasa. Entrando nell’accampamento disarmato, senza farsi annunciare e senza scorta, Younghusband stava mettendo in grave pericolo la sua missione nel Tibet – che coinvolgeva millecento uomini – e correndo il rischio più che concreto di venire rapito o quantomeno arrestato. In seguito sarebbe stato aspramente rimproverato per la sua sconsideratezza da Lord Curzon, viceré d’India.
Younghusband, il generale Macdonald e le loro truppe erano parte di ciò che ufficialmente era nota come Commissione di frontiera del Tibet, un’entità istituita dal governo di Sua Maestà su ripetute sollecitazioni del viceré, con l’obiettivo di entrare nel Tibet e negoziare alcune questioni commerciali e di confine in sospeso. Curzon riteneva che fosse quantomeno assurdo – e molto probabilmente pericoloso – che la Gran Bretagna, e in particolare il governo britannico in India (il Raj), non avesse alcun tipo di rapporto con un Paese con cui confinava per milleseicento chilometri. Inoltre, Curzon credeva che i tibetani stessero trattando con i russi – e probabilmente peggio – ed era convinto, come secondo lui doveva essere qualsiasi persona raziocinante, che i russi volessero minare l’influenza britannica nell’Asia Centrale e forse anche minacciare il controllo britannico in India.
Curzon aveva scritto due lettere al Dalai Lama per chiedere il permesso di inviare una delegazione a Lhasa per discutere l’istituzione di rapporti formali, ma entrambe erano state rispedite al mittente ancora chiuse. Sebbene non fosse un comportamento insolito per i tibetani, notoriamente xenofobi, l’orgoglioso Lord Curzon, non abituato a essere ignorato, era «enormemente oltraggiato nel vedere la sua autorità imperiale ignorata in tal modo da un’entità politica priva di valore» ³. Scelse di interpretare il gesto del Dalai Lama come un affronto personale e, nell’estate del 1903, convinse il governo britannico ad autorizzare l’invio di una commissione nel villaggio tibetano di Kampa Dzong per aprire le negoziazioni.
Younghusband, che aveva guidato anche quella missione – molto più piccola – aveva aspettato invano l’arrivo degli ufficiali tibetani al tavolo delle negoziazioni, e alla fine del 1903 fu richiamato in India. Per cui, arrivato al gennaio dell’anno successivo, quando non «ne poteva più» e decise di correre quel rischio, erano ormai sei mesi che cercava di trovare degli interlocutori del posto. La differenza era che nel gennaio del 1904 Younghusband era tornato in Tibet a capo di un esercito invasore di millecento uomini, la cui missione era costringere i tibetani a negoziare. Quest’ultimi, da parte loro, sin dall’inizio si erano dimostrati coerenti sulla questione del confine, una posizione razionale e logicamente incontestabile: quale vantaggio avrebbero potuto ottenere nel negoziare con una commissione di frontiera che stava apertamente violando quella stessa frontiera?
Younghusband era avvezzo ai rischi, ma in passato li aveva corsi quando non aveva avuto altra scelta, oppure quando pensava che ne valesse la pena. Ma in quel momento niente gli stava forzando la mano: avrebbe potuto richiedere un incontro, e anche se la richiesta fosse stata rifiutata, avrebbe potuto almeno annunciare la sua decisione di recarsi a Guru; avrebbe potuto andarci con una piccola scorta senza allarmare nessuno; e in qualità di colonnello dell’esercito britannico, non aveva motivo di girare disarmato. Inoltre, Younghusband non era così ingenuo: «Normalmente, non penso che un commissario britannico debba correre rischi personali», scriveva. «Mette in pericolo la posizione dell’intera missione e raddoppia le difficoltà del suo governo». Si rendeva conto che nella sua posizione avrebbe dovuto «inviare un giovane ufficiale. Ci andai solo come ultima risorsa. Ormai combattere era quasi inevitabile. Volevo fare un ultimo tentativo per raggiungere il mio obiettivo senza ricorrere alla forza» ⁴.
Ammirevole, forse, ma non convincente. Younghusband non aveva motivo di supporre che valesse la pena correre quei rischi, il principale del quali era la possibilità di essere arrestato, nella migliore delle ipotesi. Inoltre, i tibetani non avevano chiesto un incontro – anzi, avevano domandato ripetutamente ai britannici di tornare nel Sikkim – e Younghusband non aveva modo di sapere chi lo avrebbe accolto a Guru. Ma in base alla sua esperienza a Kampa Dzong dell’estate precedente, sapeva meglio di chiunque altro che le decisioni di rilievo venivano prese a Lhasa, e chiunque avrebbe trovato a Guru non sarebbe stato in grado di decidere alcunché di importante. Ma partì comunque: «Ero profondamente stanco di rimanere neutrale a distanza» ⁵.
Alle prime luci dell’alba convocò il capitano Frederick O’Connor, il suo interprete di tibetano – «Fui sbigottito dalla proposta», scrisse O’Connor a un amico – e il tenente Sawyer, un altro ufficiale che conosceva il tibetano, e si prepararono a partire ⁶. In difesa di Younghusband, va detto che era sinceramente convinto di una cosa: e cioè che se fosse riuscito a incontrare la sua controparte tibetana, bere insieme un tè e parlare civilmente delle loro differenze, non ci sarebbe stato bisogno di uno scontro tra i due eserciti né di spargimenti di sangue. «Volevo conoscere i tibetani […]. Se fossi riuscito a incontrarli, una volta a faccia a faccia avrei potuto valutarli, cominciare a comprenderli e capire come gestirli» ⁷.
Dopo novanta minuti arrivarono a Guru. Lungo tutto il tragitto, i tre uomini incontrarono gente del posto che raccoglieva sterco di yak, l’unico combustibile nell’altopiano tibetano; O’Connor notò che «non ci rivolgevano sguardi severi, [i tibetani] ridevano tra loro come se fossimo un’eccellente fonte d’intrattenimento» ⁸. Una volta al villaggio, chiesero di parlare con l’uomo che chiamavano generale Lhasa
, e furono indirizzati a un’ampia casa di pietra a due piani, dove il generale li accolse con un largo sorriso in cima alle scale. Nella stanza in cui entrarono c’erano diversi generali, tutti sorridenti, e tre lama tibetani dall’aria arcigna. «[I lama] non si sforzarono minimamente di alzarsi dai cuscini, e accennarono appena un saluto cordiale. Avevo già raggiunto un obiettivo della mia visita: mi bastò quell’approccio per capire quale fosse la situazione nel Paese e chi realmente facesse ostruzione» ⁹.
I tibetani fecero accomodare i tre ospiti su pelli di pecora, servirono il tè, e il generale Lhasa si informò educatamente riguardo alla salute di Younghusband. Poi ribadì, come da prassi, che il Tibet era chiuso agli stranieri – per proteggere e preservare la religione tibetana – e chiese con rispetto di spostare l’intera missione a Yatung, dove avrebbero potuto condurre le opportune negoziazioni. Younghusband, seguendo la prassi, rifiutò e poi, ponendo fine a quella recita, si avventurò con trasporto nel mondo della geopolitica chiedendo al generale perché i tibetani intrattenessero regolari rapporti con i russi ma si rifiutassero persino di aprire le lettere del viceré. A quella domanda i lama sobbalzarono e si alzarono per denunciare a gran voce quell’accusa, negando qualsiasi rapporto con i russi, e assicurando a Younghusband, non molto diplomaticamente, che detestavano i russi tanto quanto i britannici.
Una volta placati gli animi, Younghusband cercò di ragionare con i tibetani, domandando loro se i britannici avessero mai ostacolato una religione, e questi dovettero ammettere che non era mai accaduto. Ma non riuscendo ad arrivare a niente, dopo quasi due ore Younghusband si alzò per annunciare la sua partenza. «I monaci, neri come diavoli», scrisse,
gridarono: «Non te ne andrai, ti fermerai qui». Uno dei generali disse, in maniera piuttosto educata, che avevamo infranto le leggi della strada entrando nel Paese, e occupando il forte di Phari non eravamo altro che ladri e briganti. I monaci, utilizzando un registro che, come mi spiegò il capitano O’Connor, era usato solo per rivolgersi agli inferiori, ci domandarono a gran voce di fissare il giorno in cui ci saremmo ritirati da Tuna, altrimenti non ci avrebbero fatto uscire dalla stanza. L’atmosfera divenne elettrica. I volti erano tutti irrigiditi. Uno dei generali uscì dalla stanza, furono suonate le trombe all’esterno e gli attendenti si disposero intorno a noi circondandoci.
«Una vera e propria crisi si abbatté su di noi», osservò Younghusband, «e un passo falso avrebbe potuto rivelarsi fatale» ¹⁰.
Un tempo il punto più alto della Terra era il fondo all’oceano Tetide. I fossili di creature invertebrate marine trovate vicino alla cima dell’Everest hanno permesso di dimostrare che la montagna è composta da sedimenti formatisi originariamente sul fondale di quel vasto oceano più di quattrocentocinquanta milioni di anni fa. Più di recente, circa centoventi milioni di anni fa, un pezzo del supercontinente Gondwana si staccò e iniziò a spostarsi verso nord, portandosi dietro parte del fondale dell’oceano Tetide, finché questa placca, oggi il subcontinente indiano, non si scontrò con l’Asia, e il fondale marino non fu lentamente spinto verso l’alto, fino a formare il leggendario tetto del mondo, la catena montuosa del Karakorum e dell’Himalaya, lunga duemilaquattrocento chilometri, e le cui vette continuano ad alzarsi a una velocità di circa sei centimetri all’anno.
L’Himalaya comprende settantacinque vette oltre i 24.000 piedi (7300 metri) e diciotto sopra i 26.000 piedi (7920 metri), la più alta delle quali è l’Everest, con i suoi 29.029 piedi (8848 m)*. L’Everest non è solo la montagna più alta del mondo, ma è più alta del suo diretto rivale, il K2
del Karakorum, di quasi ottocento piedi (243 metri). Per fare un confronto, il monte Bianco, la vetta più alta delle Alpi, è alto 15.774 piedi (4808 metri), appena più della metà dell’Everest, e nell’Himalaya ci sono più di centotrenta montagne che superano la vetta più alta dell’emisfero occidentale, l’Aconcagua, con i suoi 22.837 piedi (6960 metri). Prima che l’Himalaya fosse conosciuta in Occidente, si pensava che il limite superiore della Terra fosse poco più di 26.000 piedi (7924 metri), e persino dopo la sua scoperta era opinione diffusa che gli esseri umani sarebbero svenuti e morti sopra ai 22.000 piedi (6705 metri).
Probabilmente, i primi occidentali a imbattersi nell’Himalaya furono i soldati greci dell’esercito di Alessandro Magno, che invase l’India nel 326 a.C. Si ritiene che Marco Polo sia passato poco più a nord del Karakorum nel suo viaggio verso la Cina nel 1272, e a partire dal 1590 una serie di gesuiti italiani, portoghesi e spagnoli visitarono l’Asia, Tibet compreso; uno di questi, padre Antonio Monserrate, un missionario alla corte dell’imperatore moghul Akbar, è considerato il primo occidentale ad aver visto l’Himalaya e ad aver disegnato la catena su una mappa. Mentre penetravano «il labirinto apparentemente inestricabile di vette innevate», questi primi missionari «erano semplicemente inorriditi dall’orribile aspetto delle montagne e dall’inverno perenne» ¹¹.
Quanto all’Everest in sé, si ritiene che l’uomo abbia iniziato ad avvicinarvisi intorno al 925, quando fu costruito un monastero alla testata della valle Rongbuk, pochi chilometri più a nord del punto in cui termina il ghiacciaio Rongbuk, che origina dalla parete nord dell’Everest. I primi occidentali ad alzare gli occhi sull’Everest furono probabilmente il gesuita austriaco Johann Grueber e il suo compagno belga Albert d’Orville, che nel 1661 viaggiarono da Pechino ad Agra passando da Lhasa e Katmandu. L’Everest comparve per la prima volta su una mappa nel 1719, il risultato di esplorazioni condotte da missionari gesuiti da Pechino su richiesta dell’imperatore cinese Kangshi. Una copia della mappa, stampata originariamente in lingua han, fu spedita al re francese Luigi
XV
e al cartografo francese J.B.B. d’Anville, che pubblicò la Carte générale du Tibet ou Bout-tan nel 1733. Su questa mappa, nella posizione della montagna leggiamo il nome Tchoumour Lancma, l’adattamento francese di Chomolungma, il nome tibetano dell’Everest ancora in uso.
A partire dal primo decennio del
XVII
secolo, la storia dell’Himalaya, e in particolare dell’esplorazione dell’Himalaya, procede più o meno parallelamente alla storia dell’occupazione britannica dell’India. Nel 1612, la Compagnia britannica delle Indie orientali aprì la prima filiale commerciale a Surat, più a monte lungo il fiume Tapti rispetto all’odierna Mumbai, proprio mentre il potere dei moghul in India iniziava a indebolirsi. Insieme all’espansione delle operazioni commerciali della compagnia cresceva anche la sua forza politica e militare. Nel 1757 Robert Clive, al comando dell’esercito della compagnia, sconfisse gli indiani nella battaglia di Plassey, e da quel momento la Compagnia delle Indie orientali – e in seguito il governo britannico stesso – conquistò sempre più potere e territori, finché nel 1857 l’India non fu ufficialmente annessa all’impero britannico.
Scoprire l’Himalaya, perlopiù ancora sconosciuto e assente sulle mappe, diventò una priorità militare e politica a mano a mano che il dominio territoriale del Raj cresceva, fino a coprire quasi tutto il confine himalayano lungo duemilaquattrocento chilometri che separava India e odierno Pakistan da Tibet, Afghanistan e altre regioni dell’Asia Centrale. Questa lacuna fu colmata da una serie di squadre di topografi, i cui sforzi furono consolidati a inizio Ottocento con il Survey of India. A tempo debito, i topografi puntarono il mirino – il teodolite, per essere precisi – sull’Himalaya, e fu solo una questione di tempo prima che, a Darjeeling, guardassero più da vicino un puntino all’orizzonte a quasi duecento chilometri a nordovest ed eseguissero attente misurazioni. Il puntino all’orizzonte si rivelò la montagna più alta della Terra, e la sua scoperta
nel 1850 diede il via a una caccia lunga settantuno anni per trovare la vetta sulla cima del mondo.
Anche se l’esistenza dell’Everest era stata confermata nel 1850, all’epoca dell’invasione del Tibet nel 1904 nessun occidentale era arrivato a meno di centosessanta chilometri dalla montagna. All’epoca, l’Everest era diventato uno degli ultimi tre luoghi non ancora raggiunti nella storia delle esplorazioni moderne. Gli altri due, il Polo Nord e il Polo Sud, sarebbe caduti rispettivamente nel 1909 e nel 1911, e l’Everest – che presto sarebbe stato soprannominato il Terzo Polo
– diventò l’unico luogo sulla Terra non ancora conquistato e apparentemente irraggiungibile. Si trovava sul confine tra Tibet e Nepal, due Paesi che per più di cent’anni erano stati completamente chiusi agli stranieri.
Per una coincidenza, l’alpinismo aveva iniziato a svilupparsi in Europa negli anni Cinquanta del
XIX
secolo, fino a un’epoca d’oro che andò dal 1854, subito dopo la scoperta dell’Everest, al 1865 con la prima ascensione del Cervino. In questi undici anni furono effettuate quarantatré prime ascensioni, comprese quasi tutte le vette principali delle Alpi. A quel punto, gli arrampicatori iniziarono inevitabilmente a rivolgere la propria attenzione verso est, prima al Caucaso, le montagne più alte d’Europa, e poi all’Himalaya e all’Everest.
E fu così che nella seconda metà del
XIX
secolo e i primi anni del
XX
, la comunità di alpinisti di tutto il mondo – per non parlare di geografi, cartografi ed esploratori, sia da salotto sia professionisti – diventò sempre più ossessionata dall’Everest. Ma nonostante l’interesse e il fascino crescenti, sarebbero passati quasi tre quarti di secolo dall’annuncio della scoperta della montagna al momento in cui, nel giugno del 1921, due inglesi, George Mallory e Guy Bullock, diventarono le primissime persone ad arrivare ai piedi del monte Everest. La missione di Francis Younghusband del 1903-04 nel Tibet si sarebbe rivelata la chiave per aprire la strada a quella terra irraggiungibile e, in ultima istanza, alla montagna più alta del mondo. Questa è la storia della caccia al monte Everest.
È un racconto profondamente drammatico, pieno di personaggi straordinari – George Everest, Francis Younghusband, Lord Curzon e Lord Kitchener, George Mallory – e di alcuni eroi silenziosi: Radanath Sickdhar, Alexander Kellas, il
XIII
Dalai Lama, Sir Charles Bell. È un racconto di spie, intrighi e decapitazioni; di guerra (due, in realtà) e massacro; di intrecci militari, diplomatici e politici mozzafiato; di eroismi, di fughe spaventose e di atti di vero coraggio. Il vento è una presenza potente, così come lo sono la pioggia e il fango, insieme ai rododendri e le orchidee, le sanguisughe e le farfalle, le zanzare, i moscerini e le mosche del deserto. Compaiono centinaia di buoi, yak e muli, migliaia di cammelli, numerosi elefanti e almeno due zebralli (non furono un successo). Ed è ambientato in una delle regioni più spettacolari della Terra.
Per settantuno anni, la vera natura dell’Everest rimase stranamente irrisolta e indefinita; era tanto mito quanto realtà, in parte simbolo e in parte sostanza, e soprattutto una metafora, l’emblema di qualcosa di supremo ma allo stesso tempo irraggiungibile. È il racconto di come una metafora si trasformò in una montagna.
Tornando a Guru, circondato da millecinquecento tibetani urlanti, il rischio di Francis Younghusband si stava rivelando un grave errore: «un passo falso avrebbe potuto rivelarsi fatale». I lama, furiosi, avevano chiesto al colonnello di fissare una data in cui lui e le sue truppe avrebbero lasciato il Tibet, altrimenti non gli avrebbero permesso di uscire dall’accampamento. «Dissi al capitano O’Connor, sebbene non ci fosse bisogno di dare un simile avvertimento a una persona imperturbabile come lui, di mantenere una voce calma e sorridere quanto più potesse» ¹². Younghusband riuscì ad allentare la tensione affermando che non spettava a lui scegliere una data, ma che avrebbe con piacere chiesto al viceré, aggiungendo che se quest’ultimo gli avesse ordinato di tornare in India, sarebbe stato «più che felice, perché [il Tibet] era un Paese freddo, spoglio e inospitale, e avevo una moglie e un figlio a Darjeeling che ero impaziente di rivedere il prima possibile» ¹³.
Se il generale tibetano più anziano, già un prediletto di Younghusband e dei suoi ufficiali, la trovò una soluzione sensata, gli animi dei monaci bellicosi non erano stati placati, e insistettero affinché il colonnello stabilisse una data. Lo stallo fu risolto quando il generale suggerì «che un messaggero sarebbe tornato a Tuna con me per aspettare la risposta del viceré». Tutti sorridevano di nuovo, a eccezione dei monaci, «che rimanevano seduti e con un’espressione quanto più arcigna e malvagia fosse umanamente possibile» ¹⁴.
Alla fine il rischio corso dal colonnello non portò a nessun risultato, se non a un severo rimprovero da parte di Curzon; sembra, tuttavia, che l’audacia di Younghusband avesse colpito molto le truppe e contribuito non poco alla nascita della sua leggenda. In seguito, l’interprete O’Connor (noto come Frank) osservò che «fu piuttosto interessante e non privo di adrenalina. Nessuno tranne [Younghusband] lo avrebbe pensato o fatto. […] Il suo perfetto autocontrollo e sangue freddo salvarono la situazione, e ce la cavammo benissimo» ¹⁵. Forse avevano salvato la situazione, ma l’autocontrollo e il sangue freddo del colonnello non riuscirono a evitare l’imminente scontro con l’esercito tibetano, che avrebbe trasformato l’invasione del Tibet in uno degli episodi più disonorevoli della storia dell’impero britannico.
E aperto la strada al monte Everest.
* Per anni, la Cina e il Nepal hanno dichiarato un’altezza diversa per l’Everest; in Occidente era ampiamente usata la misurazione nepalese (29.029 piedi/8848 metri), appena superiore. Nel dicembre del 2020, dopo una nuova misurazione da parte di entrambi i Paesi, si accordarono su 29.032 piedi (8848,86 metri), aggiungendo quindi 2,8 piedi (86 centimetri), che probabilmente negli anni a venire diventerà lo standard.
1
Picco XV
Adesso sono in possesso dei valori finali del picco designato xv nella lista dell’ufficio del topografo generale. Sappiamo da alcuni anni che questa montagna è più alta rispetto a tutte le altre finora misurate in India, e molto probabilmente è la più alta del mondo.
Andrew Waugh, topografo generale
Survey of India
In una serie di mattine limpide tra il novembre del 1849 e il gennaio del 1850, James Nicholson, per ordine del suo superiore Andrew Waugh, guidò una squadra di portatori in cima a sei diverse vette nelle vicinanze della stazione collinare britannica di Darjeeling, in India. Mentre Nicholson tirava fuori l’attrezzatura per le misurazioni, tra cui un grosso teodolite trasportato da dodici portatori, l’enorme massa del Kangchenjunga, cinquantasei chilometri più a nord, si trovava alla sua destra. Con i suoi 28.169 piedi (8586 metri), era la montagna più alta del mondo. Era stato Andrew Waugh stesso a scoprire
il Kangchenjunga due anni prima, ma sebbene avesse stabilito che fosse più alto di ben 2526 piedi (770 metri) del Nanda Devi, allora una delle possibili vette più alte del mondo, era stato riluttante ad annunciare quella scoperta per via di alcuni sospetti che lui ed altri nutrivano riguardo a una macchia all’orizzonte a circa 190 km a nordest di Darjeeling, al confine tra Tibet e Nepal.
Era proprio verso quella sagoma lontana che Nicholson e gli altri puntarono il teodolite dalle sei colline intorno a Darjeeling, per cercare di capire se fosse effettivamente la montagna più alta del mondo. In precedenza era stata chiamata picco b
, e poi gamma
, e adesso era nota semplicemente come "picco
XV
", e già da un anno Waugh cercava, senza successo, di misurarla. Adesso, Waugh e Nicholson potevano essere più sicuri dell’accuratezza delle misurazioni grazie ai progressi del progetto a cui i due lavoravano: il Great Trigonometrical Survey of India, il servizio topografico britannico. Waugh ne era a capo, mentre Nicholson era uno dei suoi collaboratori.
Nel suo cinquantesimo anno di esistenza, quando Nicholson salì sulle colline intorno a Darjeeling, il Survey aveva raggiunto le montagne da poco, il che aveva reso possibile una prima misurazione delle remote cime himalayane, anche solo per triangolazione, stabilendo un’importantissima linea base. I picchi non potevano essere misurati da distanze minori perché si trovavano in Nepal o in Tibet, Paesi chiusi agli stranieri. Ma grazie a una linea base Nicholson e la sua squadra potevano stimare con una buona accuratezza l’altezza delle sei colline su cui si trovavano e dalle quali effettuavano le misurazioni. Solo conoscendo quel valore sarebbe stato possibile (con la trigonometria) calcolare l’altezza della vetta lontana su cui avevano puntato il teodolite. Com’era prevedibile, Nicholson ottenne valori diversi da tutti e sei i punti di osservazione, da un massimo di 29.998 piedi (9143 metri) a Ladnia a un minimo di 28.991 piedi (8836 metri) a Jirol.
Ma non era granché preoccupato. Doveva soltanto raccogliere i dati; tutti i valori venivano passati a chi effettuava calcoli complessi nella sede computazionale e amministrativa del Survey a Calcutta. Erano noti come computers per le loro abilità nella computazione matematica, e il loro capo – il chief computer – era un certo Radanath Sickdhar, il primo indiano a ricoprire quella carica nel Survey. Quello che accadde nei mesi successivi a Calcutta, mentre Sickdhar e la sua squadra analizzavano i dati di Nicholson e altri, fu l’inizio di una storia che avrebbe affascinato il mondo intero.
William Lambton si trovò nel posto sbagliato nel momento sbagliato, ovvero a Yorktown, nella colonia americana della Virginia, a metà ottobre del 1781. Lambton era un soldato del 33° Reggimento di fanteria dell’esercito britannico e combatté nella campagna finale della guerra d’indipendenza americana, che culminò la mattina del 19 ottobre a Yorktown con la sconfitta e la resa dei britannici sotto il comando di Lord Cornwallis. Lambton fu uno dei circa ottomila prigionieri britannici, la maggior parte dei quali furono in seguito rimpatriati. Lui fu invece mandato nel Nuovo Brunswick, in Canada.
Prima della guerra Lambton, un topografo esperto, aveva lavorato nelle colonie come membro civile del 33° Reggimento, misurando gli appezzamenti di terreno concessi ai coloni. Dopo il conflitto fece parte del gruppo di topografi che definì il confine tra il Canada britannico e gli Stati Uniti. Inviato più tardi nella Columbia Britannica, si appassionò di geodesia, lo studio della forma della Terra, imbattendosi nella controversia del pompelmo e dell’uovo.
Gli studiosi sapevano che la Terra era uno sferoide, ma era rotonda o più ovale? Era un pompelmo o un uovo? Quando Lambton si avvicinò alla geodesia, i francesi avevano ormai risposto alla domanda, grazie a due spedizioni che finanziarono negli anni Trenta del
XVIII
secolo con lo scopo di misurare la curvatura della Terra, una all’equatore nell’odierno Ecuador (ma che allora era il Perù) e una in Lapponia, nell’Artide. In Ecuador i francesi Charles Marie de La Condamine e Pierre Bouguer misurarono un arco della lunghezza di duecentonovanta chilometri. Inizialmente i peruviani furono non poco sospettosi, perché immaginavano che gli stranieri stessero cercando l’oro. «Chi avrebbe attraversato l’oceano e scalato le Ande soltanto per misurare la forma della Terra?», domandò Bouguer, osservando che «incontrarono difficoltà inimmaginabili» ¹.
Nelle sue memorie del 1871, Clements Markham, geografo inglese e presidente per molti anni della Royal Geographical Society, lamentò l’imbarazzante assenza del contributo britannico a quel nobile sforzo. In effetti, quando i due francesi stavano misurando l’arco, la marina britannica era impegnata a bombardare porti e a tartassare le navi straniere al largo della costa sudamericana. «È deplorevole», scrisse Markham, «che mentre Francia e Spagna si alleavano negli interessi della scienza, l’Inghilterra fosse meno nobilmente impegnata a bruciare chiese e a tagliare i rifornimenti in arrivo alla costa peruviana». Non molto tempo dopo, i britannici iniziarono a recuperare terreno quando il generale Watson concepì il Trigonometrical Survey of Great Britain, e «finalmente», continuava Markham, «i connazionali di [Sir Isaac] Newton iniziarono a dedicarsi al lavoro in cui avrebbero dovuto essere pionieri» ².
I britannici si fecero perdonare del ritardo iniziale in maniera spettacolare alcuni anni più tardi, nel 1802, con la fondazione del Great Trigonometrical Survey of India. Annunciato ben presto come «uno dei lavori più grandi della storia della scienza», il Survey fu fondato e poi guidato da nientemeno che William Lambton, trasferito in India dal Canada quando gli ufficiali con mansioni civili (come le rilevazioni topografiche) furono rimossi dal registro dei rispettivi reggimenti ³. Lambton poteva diventare un impiegato statale o arruolarsi nell’esercito regolare; scelse l’esercito, e salpò per Calcutta nel 1796.
Arrivò appena in tempo per prendere parte alla quarta guerra anglo-mysore, un conflitto tra il territorio sotto il dominio britannico a Madras e il famigerato sultano Tipu del vicino regno di Mysore. Tipu era soprannominato Tigre del Mysore
, soprattutto perché aveva commissionato un modello funzionante di una tigre che divorava un soldato britannico, con tanto di effetti sonori che riproducevano il ringhio della tigre e le urla del soldato. (Oggi si trova al Victoria and Albert Museum di Londra). Ma alla fine fu Tipu a essere inghiottito, trovando la morte quando la sua capitale fu attaccata dalle truppe della Compagnia delle Indie orientali.
Lambton si distinse almeno due volte nella campagna; la prima quando, grazie alla sua esperienza nella navigazione astronomica, informò il generale Baird che le sue truppe non stavano marciando verso nord, in territori sicuri, come supponeva il generale, bensì verso sud, verso l’accampamento di Tipu. La seconda fu durante la conquista della roccaforte di Tipu a Seringapatam, il punto di svolta della guerra, quando assunse il comando dell’assalto dopo che gli ufficiali più anziani erano tutti caduti. Uno dei commentatori del combattimento osservò che Lambton «diede un esempio migliore di eroismo» del suo comandante: una lode non da poco, considerando che il comandante in questione era un giovane e ambizioso Arthur Wellesley, il futuro duca di Wellington e vincitore a Waterloo ⁴.
Tra le altre cose, grazie alla conquista di Mysore, un’ampia striscia di terra dell’India meridionale, dalla Costa di Malabar a ovest fino a quasi la punta dell’India a sud, finì sotto la protezione
britannica. Mentre il suo e altri reggimenti attraversavano quei territori durante la campagna militare, «sottomettendo governatori e saccheggiando fortezze», a Lambton (che anche da soldato rimaneva pur sempre un topografo) venne in mente che qualcuno avrebbe dovuto realizzare una mappa di quella nuova vasta conquista ⁵. Da autentico geodeta