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Il gusto dell'immaginazione
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E-book359 pagine3 ore

Il gusto dell'immaginazione

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Info su questo ebook

Divertire e divertirsi, stupire e stupirsi, in cucina si può!

Cucinare e degustare significa stimolare i cinque i sensi, anzi sei, considerando la mente e, quindi, l’immaginazione.

È questa l'idea de “Il gusto dell’immaginazione” dello chef campano Federico Campolattano che, partendo dal concetto di gusto in cucina, accarezza le varie forme d'arte, mescolandole e fondendole, condividendo, con chi legge, la risposta alla domanda divenuta fulcro della sua filosofia gastronomica: che gusto ha l'immaginazione?

Un trattatello (così lo chiama il prof. Michele Francipane nella prefazione) di ricette fatte per essere “rifatte”; aforismi, musica, fotografie, esperienze personali, informazioni utili e dettagliate, confronti con il nutrizionista dr. Pietro Carideo, accompagnano il lettore in un viaggio in cui il concetto di gusto vuole essere protagonista.

"Il cibo - spiega l'autore - ha una sua forma ed una sua dimensione, diventa equilibrio, trasforma una sensazione in un gioco di piacevoli esperienze; il cibo è gusto, il cibo è immaginazione".
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2013
ISBN9788891103987
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    Anteprima del libro

    Il gusto dell'immaginazione - Federico Campolattano

    FEDERICO CAMPOLATTANO | Cuoco, chef, artigiano della cucina, innamorato del proprio lavoro e soprattutto del cibo. Stimolato dalla scoperta del nuovo, in costante ricerca di gusti dimenticati e sapori sconosciuti, ritiene che la cucina debba essere alla giusta distanza tra tradizione e innovazione, mantenendo sempre un legame con il passato e con ciò che è stato tramandato.

    Secondo me è il rimorso di ciò che abbiamo mangiato che ci fa ingrassare, non il cibo; nonostante ciò vado a correre almeno una volta alla settimana...non si sa mai!

    www.ilgustodellimmaginazione.it

    il gusto dell’immaginazione

    Altri impazzisca a numerar le stelle;

    O del cerchio a trovar la quadratura;

    Altri a veder di quali particelle

    Un tutto sa formar dotta Natura:

    Solo a tegami, a pentole, e a padelle,

    Volgere io volli ogni più attenta cura.

    M.F. | Napoli 1816

    Federico Campolattano

    Fotografia

    Paolo Piantadosi

    Progetto grafico

    Claudia Pelliccia

    Redazione

    Vittoria Tito

    Federico Campolattano: il gusto dell’immaginazione®

    è un marchio registrato

    Tutti i diritti riservati.

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    Tel. 0832.1836509

    Fax. 0832.1836533

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    ISBN: 9788891103987

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Dedicato a mio nonno Salvatore;

    a mio padre, mia madre,

    mia sorella Diletta, mia nonna Pina

    e alla mia compagna Valentina.

    Prefazione

    "Scrivere un libro è meno che niente

    se il libro fatto non ristora il dente!"

    Di qualunque argomento si tratti, mi sento sempre in imbarazzo a trovare l’incipit più efficace e calzante alla prefazione che sono di volta in volta invitato a redigere. Ma, assaggiato, degustato e digerito questo trattatello di gastronomia, m’è venuto spontaneo in epigrafe parodiare il famoso epigramma di Giuseppe Giusti che in originale suona:

    «Scrivere un libro è meno che nïente

    se il libro fatto non rifà la gente»

    Giusto il Giusti per rendere la pariglia simmetrica all’aforisma di Oscar Wilde che l’autore ha posto in epigrafe al libro stesso:

    «Dopo un buon pranzo si può perdonare chiunque,

    persino i nostri parenti »

    Quindi – di parola in parola, di assaggio in assaggio – con altrettanta spontaneità mi sono riaffiorati in mente due nomi di spicco ai quali l’autore stesso si sarebbe - più o meno consapevolmente - ispirato. I grandi nomi, infatti, che – a mio parere – fan da cornice e quadro ideali all’elaborato di Federico sono due buone forchette d’antan: Ippolito Cavalcanti e Pellegrino Artusi.

    Vediamo perché e percome.

    L’Artusi, vive fra la prima metà dell’Ottocento e il secolo scorso, ed è il primo a sistemare la materia in lingua italiana col trattato La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), suo capolavoro. Ippolito Cavalcanti, vive tra lo scorcio del Settecento e la prima metà dell’Ottocento, e si può considerare l’antesignano popolare e dialettale dello stesso Artusi: egli scrive in lingua campanonapoletana, per il popolo, e sforna il trattato La cucina teorico-pratica (1837), suo capolavoro. I due scrittori gastronomi appartengono alla stessa scuola (grosso modo autodidatti), praticano due culture distanti, diverse e forse neanche si conoscono di persona: l’Artusi nasce a Forlimpopoli in Emilia Romagna ma ristora in Firenze e il Cavalcanti nasce a Buonvicino in Calabria ma ristora a Napoli.

    Perché quindi questi due nomi son balzati d’acchito insieme? Semplice: il Federico impasta il suo scritto in lingua italiana e lo irrora di spirito napoletano. Non per nulla, il giovane autore nasce al Vomero ossia è verace pastenopeo (il refuso è un lapsus freudiano, d’accordo, perciò mi piace, è icastico, in tema, e lo lascio); così come verace è il suo rapporto con cucina, cibo, gusto e ambiente gastronomico fra il colto e il popolano (le radici sono calamitate!).

    In cucina è infatti di casa, anzi vi si direbbe concepito, nato e pasciuto: nonna Pina con nonno Salvatore buongustaio, e più la bisnonna Silvia, tutti e tre cuochi estrosi all’impronta, gli trasmettono il DNA del giusto gusto quando - ancora nel grembo di mamma Annamaria incantata nel tramestio dell’alta cucina domestica - il nascituro assiste alla preparazione certosina di piatti davvero appetibili. Mamma non diverrà a sua volta una grande cuoca, ma il gene ereditato – tramite suo – dal figliolo darà i suoi frutti. Infatti, il piccolo e poi grandicello Federico, apprese e assimilate dagli avi quelle tecniche quasi magiche, progressivamente approfondirà con gli opportuni studi canonici. E lo farà in modo tanto magistrale da rendere qualsiasi ambiente gastronomico in cui si trova a pasticciare mescolare o mesticare una fucina d’irresistibile richiamo.

    Chi la prova ci riprova. Con più piacere.

    In breve, il parallelo coi due celebri autori m’è utile pure per sottolineare che il giovane Campolattano, nel suo lavoro personalissimo, sa felicemente coniugare le due tradizioni di maggiore spicco nella cultura gastronomica italiana: quella sanguigna dell’Emilia-Romagna ben rappresentata dall’Artusi e quella mediterranea esemplarmente rappresentata dal Cavalcanti.

    • • •

    E veniamo al libro. Che dirne globalmente quanto a struttura, contenuto, stile? E soprattutto come valutarne il ricco policromo apparato illustrativo? Ecco, accanto all’organico e pertinente utile glossario, che felicemente l’autore chiama tavolozza degli alimenti, è proprio l’apparato iconografico a caratterizzare, completandolo, il lavoro descrittivo, a esprimerne la vis edulis guidando a occhio (e naso) l’attento lettore a entrare nel piatto e focalizzando ogni pietanza da servire vivificata al meglio…

    Insomma, la tavolozza degli alimenti misticata dal cuocoscrittore – che talora pizzica felicemente pure le corde della poesia – ben si fonde con la tavolozza dei colori odorosi del cuoco-pittore: tavolozze gioiose agli occhi, stuzzicanti al naso e sempre pronte a titillare le papille gustative d’ogni buongustaio.

    E qui voglio fermarmi per degustare di nuovo e più a fondo il prodotto. À la carte...Anche perché, alla fin fine, non spetta al prefatore assegnare da una a cinque stelle alla qualità formale e sostanziale ma spetta al lettoregustatore, purché si disponga in corpo e spirito ad assaporare, pagina dopo pagina, piatto dopo piatto, quel che è capace di creare e offrire uno chef del calibro di Federico Campolattano: odori, colori, sapori.

    E il sapore, con l’ancorché giovane gastrattore, non produce sopore ma stupore!

    Provate e crederete. Anche voi!

    Michele Francipane

    Amuse bouche

    "Dopo un buon pranzo si può perdonare chiunque,

    persino i nostri parenti"

    (Oscar Wilde)

    Cucinare l’ho sempre trovato il modo più semplice e naturale di esprimersi. E ha ragione Oscar Wilde, il cibo è un modo virtuoso di lasciarsi tentare ed un mezzo incredibile per sedurre mente e spirito di chi siede alla nostra tavola. Se pensassimo a quante ricette nascono ogni giorno e a quante già ne esistono, verremmo sicuramente sommersi da ciò che è stato già creato, cedendo alla sfiducia di credere che non ci sia più nulla da inventare. Un pensiero questo in cui più volte mi sono imbattuto mentre parlavo con amici e colleghi, e il mio invito era sempre lo stesso: pensate per un istante di essere nel 1860, di vestire i panni di un uomo il cui nome è Thomas Edison e di ritenere che, in pieno sviluppo industriale, ormai la civiltà sia arrivata al suo apice tecnologico senza più sbocchi; se Edison si fosse fatto abbattere da questo pensiero, oggi, probabilmente, saremmo ancora a combattere con le candele per avere un po’ di luce nelle nostre case. È questo il motivo per cui credo che la cucina sia quel mare infinito in cui solo chi è capace di sognare può navigare a vele spiegate. Non bisogna essere chef intergalattici o cuochi professionisti per mettersi dietro ai fornelli e cucinare in modo amatoriale; l’importante è utilizzare ingredienti di qualità, passione e la giusta dose di conoscenza di quello che ci si sta accingendo a preparare, lasciando che padelle e mestoli facciano il resto attraverso le vostre mani.

    Nel linguaggio di tutti i giorni a volte si usa dire che il sapore della vittoria sia dolce, che la sconfitta sia amara, che la vendetta sia un piatto da servire freddo o che la passione sia calda, oppure ancora che un carattere sia acido come uno yogurt. Il gusto, così, viene preso in prestito dal suo universo gergale per essere utilizzato come rafforzativo di concetti e frasi, per meglio descrivere una determinata situazione, uno stato d’animo o il carattere di una persona. Una cosa alquanto insolita, ma che riesce a trasmettere al nostro interlocutore il giusto significato; così come è strano trovarsi su un aereo ed aver voglia di dare un morso alle nuvole, perché alcuni le immaginano come panna montata che fluttua nel cielo, altri come zucchero filato, altri ancora come gelato al gusto di fior di latte. Ecco, quindi, che i sapori escono ancora una volta fuori dal loro contesto naturale, trasformandosi in un’immaginazione del gusto, un volo pindarico fatto di ciò che più ci piace, che ci fa nascere sensazioni piacevoli, con un tocco di divertimento, andando oltre il semplice contesto di realtà a cui tutti i giorni siamo assuefatti. È così che secondo me nasce un piatto, una ricetta nuova o l’idea per un menù particolare, liberandoci dai quei vincoli di razionalità a cui siamo inevitabilmente legati e che ci scrolliamo di dosso quando voliamo o quando guardiamo un film, fantasticando di vivere le avventure del protagonista, condividendo le sue emozioni, immaginando di essere accanto a lui o, ancor di più, di essere lui. È l’immaginazione, quindi, il fulcro di questa sete di fantasia, che ha bisogno di sé stessa per nutrirsi, è lei il motore di tutto il nostro agire. E se invece vi chiedessi proprio dell’immaginazione? Che gusto avrebbe secondo voi?

    La mia idea è che la cucina non debba essere un mezzo di comunicazione freddo, ma suscitare emozioni e sensazioni uniche, raccontando storie diverse attraverso i suoi sapori, i suoi colori e i suoi profumi, come un libro fa con le parole. La crescita personale è frutto delle diverse esperienze che facciamo durante il nostro percorso di formazione (lavorativa, emotiva, caratteriale) ed è proprio questa evoluzione a cui siamo soggetti che determina ciò che facciamo, ciò che creiamo, ciò che arriviamo ad immaginare. Ho imparato a non perdere nessuna occasione per soddisfare la mia sete di conoscenza, aprendo la mente a non sottovalutare mai nulla, né a considerare poco rilevante qualcosa senza averlo prima approfondito (o assaggiato), perché mi è capitato di apprendere più cose da ciò che apparivano come un insignificante granello di polvere, che da qualcosa che avesse l’aspetto di una montagna, ma dentro, in realtà, era vuoto. Il volersi confrontare, il mettersi continuamente in discussione, sono questi i meccanismi che stimolano la messa in moto di un universo che si può materializzare all’interno della nostra immaginazione e che, inevitabilmente, prima o poi, vuole esplodere verso l’esterno, prendendo forma fisica che, in ambito gastronomico, si manifesta attraverso la cucina. Cucinare è un po’ come imparare ad andare in bicicletta, alcuni ne sono spaventati all’inizio, solo fino a quando non ci salgono sopra, ma, una volta percorsi i primi metri, fatte le prime pedalate con un po’ di insicurezza, provata l’ebrezza del vento che sferza il viso, non vogliono più scendere. La cucina è così, un equilibrio tra passione ed istinto, dove tecnica, attenzione e precisione fanno da meccanismo che ne muove gli ingranaggi, alimentati dalla forza delle nostre idee e dall’intensità di ciò in cui crediamo. Durante un viaggio, ciò che più mi appassiona, é conoscere la civiltà e l’evoluzione di un popolo attraverso i prodotti della sua terra, i suoi mercati, attraverso la sua tradizione culinaria, perché é questa la vera eredità che possiamo toccare con mano o, per meglio dire, con gusto.

    Assaggiare una pietanza la cui ricetta viene tramandata di generazione in generazione é come fare un viaggio nel tempo, che dà la gioia e l’emozione di scoprire i vari percorsi storici ed economici che sono avvenuti in quel posto. É quindi possibile raccontare qualcosa attraverso un banale (solo in apparenza) piatto di pasta o la cottura di un pezzo di carne, senza dover per forza ricorrere ad ingredienti provenienti da chissà quale angolo sperduto del pianeta. La cucina odierna é frutto dell’evoluzione di quei piatti storici e tradizionali che ancora apprezziamo cucinati dalle nostre nonne e dalle nostre mamme, che si sono assunte il compito (in maniera non cosciente) di non farne perdere le tracce.

    Cucinare è anche riuscire a sorprendere chi siede alla nostra tavola, stuzzicare la fantasia creando un legame sottile tra le varie portate, giocando con gli ingredienti, ideando nuovi accostamenti di sapore e nuove geometrie al centro dei piatti. Amo accostare la cucina a tutte le altre forme d’arte, la musica, la danza, il teatro, la pittura, una partica questa le cui origini vanno ricercate tra l’inizio del XVII e l’inizio del XVIII secolo, quando la parola Gusto cominciò a subire profondi cambiamenti, il più importante dei quali: gusto nel senso di buon gusto. Un’evoluzione avvenuta in poco meno di un secolo¹, dove per parlare della distinzione tra il bello e il brutto nelle opere d’arte, si fu obbligati a ricorrere ad una metafora e l’unica che si trovò capace di descrivere appieno quest’attitudine fu quella del gusto alimentare. Con un metro di giudizio così familiare, aumentò l’interesse delle persone per le forme d’arte, con la conseguente nascita di una componente critica sopra di esse, fatta da persone che cominciavano a specializzarsi in questo settore, esponendo in maniera esaustiva e alla portata di tutti giudizi critici nei vari campi: musica, pittura, scultura, architettura, teatro, poesia, letteratura, ecc.

    Nota

    ¹ | Le Thrésor de la langue françoise di Nicot nel 1606 dedicò 2 righe su 22 agli utilizzi metaforici della parola, che non aveva niente a che vedere con l’alimentazione; il Dictionnaire de Trévoux nel 1704, invece, gliene dedicò 81 su 98.

    La descrizione dei sapori subisce anch’essa un’evoluzione: prima si dividevano in caldi, freddi e medi, ma nel Dictionnaire de Trévoux (1704) la voce Sapore viene così descritta: «I medici riconoscono unanimemente nove sapori semplici. I tre caldi sono l’acre, l’amaro e il salato. I tre freddi sono l’austero², l’acerbo e l’agro. I tre temperati,il grasso o oleoso, il dolce e l’insipido». Così come l’interesse per le arti, anche quello per il cibo cominciò ad andare ben oltre la sua pura funzione di sopravvivenza, un risultato deplorevole per i moralisti cristiani, dove tutto ciò era la tentazione del male che, attraverso il peccato della gola di mangiare al di là del necessario, induceva l’uomo sulla via della dannazione. César de Rochefort nel 1685 scrisse nel suo Dictionnaire général curieux: «Benché il gusto non sia il più nobile dei sensi cionondimeno è il più necessario. San Gerolamo dice che senza di lui l’uomo non può vivere a lungo, cosa che invece accade senza gli altri…». Un concetto che oggi nessuno arriverebbe a condividere, in quanto allora la percezione del gusto permetteva di riconoscere un eventuale deterioramento dell’alimento o un qualunque altro elemento tossico presente nel cibo; nessuno oggi si sognerebbe mai di barattare il senso della vista con quello del gusto.

    Voltaire, nel suo Dictionnaire philosophique, nel 1764 scrisse: «Il Gusto, questo senso, questo dono di distinguere i nostri cibi, in ogni lingua conosciuta ha prodotto la metafora che esprime, con la parola gusto, la sensibilità per le bellezze e i difetti nelle belle arti: è una distinzione immediata, come quella della lingua e del palato e che anticipa, come quella, la riflessione; come lei è sensibile

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