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Etta
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E-book335 pagine4 ore

Etta

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Info su questo ebook

«Grazie. Per avermi restituito il braccialetto. E per non aver detto a nessuno di me». Poche parole, sussurrate in una fresca notte d’estate, che cambieranno per sempre la vita della giovane Etta. Vissuta fin da bambina tra le fredde mura di un antico castello perso nelle foreste del Nord Italia, nascosta dagli sguardi di un mondo che non sa della sua esistenza, troverà la forza di spezzare le catene che l’hanno costretta a una vita solitaria grazie a l’incontro con Geremia e al forte legame che ben presto si instaura tra i due ragazzi. Ma ogni cosa ha il suo prezzo. La libertà ritrovata porterà con se un oscuro segreto che minaccerà di distruggere tutto quello che Etta ha appena conquistato.

Milko Carozza vive nella provincia di Varese. Professore di musica, lascia il pentagramma per un’altra forma d’arte che meglio gli permetta di plasmare le infinite dimensioni della sua immaginazione: la scrittura. Convinto che le leggi che governano l’universo siano la vera “magia”, colloca i suoi romanzi su un confine dove la realtà e l’imponderabile danzano L’una nell’altro, creando scenari immaginifici che non valicano però le soglie dell’impossibile.
LinguaItaliano
Data di uscita21 apr 2017
ISBN9788899394899
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    Anteprima del libro

    Etta - Milko Carozza

    Milko Carozza

    ETTA

    Edizioni EVE

    Milko Carozza

    Etta

    Edizioni EVE

    Via pozzo 34

    20069 Vaprio d’Adda-Mi

    www.edizionieve.it

    Ogni riferimento descritto nel seguente romanzo, a cose luoghi, persone

    è da ritenersi del tutto casuali

    EDIZIONI EVE è un marchio editoriale di Editrice GDS

    CAPITOLO 1

    Con una leggera smorfia di dolore, Geremia spostò il peso dalla gamba destra alla sinistra, facendo scricchiolare i sassolini tra la suola delle scarpe e l’asfalto della strada. Poi alzò lo sguardo oltre il prato fiorito che aveva di fronte fino al bosco di abeti più avanti e infine lo posò sulle cime innevate che spiccavano in lontananza e che sembravano ammiccare sotto i raggi del sole di quella splendida mattinata di luglio. Lo spettacolo che il panorama offriva nel suo insieme era poesia per gli occhi.

    L’imprecazione che giunse secca alle sue orecchie lo riportò alla realtà.

    «Fine della poesia» sospirò voltandosi verso la fonte dell’epiteto.

    «Scusate» disse il ragazzo accucciato di fianco all’automobile parcheggiata lungo la strada. Il tono era contrito, ma la voce vibrava ancora di un’irritazione a stento repressa. «È solo che questi bulloni sono davvero duri e mi è scivolata la mano contro l’asfalto».

    Si rialzò da terra, si tolse il guanto di tela e controllò che non vi fossero danni alla mano.

    «Ti sei fatto male, amore?» intervenne Clara prendendogli la mano tra le sue e controllandola.

    «No, non ti preoccupare» si affrettò a tranquillizzarla il giovane, in imbarazzo di fronte a quel gesto affettuoso.

    «Davvero Manuel, sei sicuro che non hai bisogno di aiuto?» domandò Geremia pentendosi all’istante della domanda. Lui e il lavoro manuale non andavano proprio d’accordo, senza considerare che l’aria stava cominciando a scaldarsi, lì sotto il sole e fermi in mezzo alla strada.

    «Per cambiare la ruota a questo macinino? No, figurati, me la cavo senza problemi. Grazie comunque».

    «Ehi, attento a come parli della mia macchina», sbottò Clara con espressione offesa.

    «Scusami. Era solo un modo di dire» si affrettò ad aggiungere Manuel. «Bene, rimettiamoci al lavoro».

    Gonfiò con un respiro il petto e si concentrò di nuovo sulla ruota.

    «Qualcosa da dire anche tu?» sbuffò Clara con aria di sfida all’indirizzo di Geremia.

    «In merito a cosa?» chiese lui.

    «In merito al mio macinino».

    «Ti ho chiesto scusa» replicò Manuel con un grugnito, mentre l’ultimo bullone della ruota usciva finalmente dalla sua sede.

    La ragazza lo ignorò, fissando con un sopracciglio inarcato il ragazzo di fronte a sé.

    «Assolutamente niente» rispose Geremia.

    «Ah, volevo ben dire» annuì lei soddisfatta.

    Il ragazzo si avvicinò zoppicando verso Clara, le sorrise affabile e guardò la macchina.

    «Comunque lo sai che hanno costruito automobili anche nel ventunesimo secolo, vero?» aggiunse poi.

    «Lo sai che hanno costruito automobili anche nel ventunesimo secolo?» ripeté lei imitando il timbro dell’amico. «Solo perché non è una Ferrari non significa che non sia un’auto valida». La sua espressione era seria ma il tono della voce tradiva una nota divertita.

    «Era solo un modo di dire» osservò Geremia.

    «Lasciatemi fuori dal vostro battibecco, voi due» intervenne Manuel sentendosi chiamato in causa.

    A dire il vero a Geremia piaceva l’auto di Clara, una Citroen due cavalli color vinaccia con il tettuccio nero. Ma aveva dovuto rispondere alla provocazione dell’amica con un po’ di ironia, com’era loro abitudine. I due ragazzi si conoscevano fin dall’infanzia e sin da quando Geremia ne aveva memoria si erano sempre stuzzicati l’uno con l’altra con battute piccate. Era il loro modo di volersi bene. Anche se adesso le provocazioni di Clara avevano un altro scopo, che la ragazza non avrebbe mai ammesso, ma che Geremia conosceva benissimo.

    «Ecco fatto», disse Manuel sistemando la ruota forata nel baule, assieme agli utensili che gli erano serviti per il cambio della gomma. «Ora possiamo ripartire». Si asciugò la faccia e le braccia muscolose con una salvietta, svuotò in poche sorsate una bottiglia d’acqua e si accinse a sedersi al posto di guida, buttando un occhio all’orologio. «Siamo comunque in orario» annunciò con soddisfazione. «Non c’è di che» aggiunse visto che nessuno gli aveva prestato attenzione.

    «Grazie, caro» disse allora Clara passandogli di fianco e accarezzandogli una guancia.

    «Davvero un ottimo lavoro» annuì Geremia seguendo la ragazza verso il lato del passeggero.

    «Ora non esagerate» sbuffò Manuel.

    La ragazza aprì la portiera posteriore con l’intenzione di sedersi dietro.

    «Cosa pensi di fare?» la ammonì Geremia. Il tono della sua voce aveva perso ogni sfumatura divertita.

    «Adesso stai davanti tu» replicò lei.

    «Non penso proprio» ribatté lui guardando negli occhi l’amica. «Eravamo d’accordo che non avresti fatto così».

    «Davanti sei più comodo» continuò lei prendendo posto sul sedile posteriore. Geremia assunse la sua espressione più neutra che, per chi lo conosceva bene come Clara, segnalava che si stava preparando per una discussione.

    «Bene» disse con tono piatto, «vorrà dire che proseguirò a piedi» e chiuse la portiera rimanendo fermo sul ciglio della strada.

    Manuel sospirò passandosi una mano sul viso. Lanciò un’occhiata nello specchietto retrovisore e poi, con una certa difficoltà vista la sua mole e lo spazio angusto dell’abitacolo, si girò verso la sua ragazza.

    «Clara, per favore» disse a bassa voce. «Non rovinare tutto».

    «Rovinare tutto? Io?» sibilò lei. «Lo vedi anche tu che gli fa male la gamba. Perché non deve mai accettare aiuto da nessuno? Perché deve sempre fare così?». Gli occhi socchiusi riflettevano la sua irritazione, anche se dietro vi si poteva scorgere una velata tristezza.

    «Clara» ripeté il ragazzo in tono sommesso. «Lo conosci da una vita, lo sai che è testardo come un mulo. Lo so che lo fai per il suo bene, ma lasciagli fare come vuole. Per lui è importante, cerca di capirlo».

    «No, non lo capisco» ribatté lei. Invece lo capiva meglio di chiunque altro.

    Uscì dall’auto e guardando il ragazzo dritto negli occhi gli tenne la portiera aperta, senza dire una parola. Geremia ricambiò lo sguardo con un’espressione priva di emozioni e si accomodò in macchina, riuscendo a sistemarsi sul sedile posteriore trattenendo a fatica un grugnito di dolore.

    «Bene, bambini» annunciò Manuel. «Allacciatevi le cinture che il viaggio dei divertimenti prosegue».

    Nessuno rise alla sua battuta.

    Per un po’ nell’abitacolo regnò il più assoluto silenzio. Manuel era impegnato nella guida, mentre Clara, aperto il finestrino per fare entrare un po’ d’aria, si era messa a mandare messaggi col cellulare. Geremia approfittò dell’apparente momento di calma per riflettere. Sapeva di non essere stato molto corretto con Clara ed era conscio del fatto che la ragazza voleva solo il suo bene. Ma da quando si era risvegliato dal coma faceva sempre più fatica a relazionarsi con gli altri, persino con gli amici. E la situazione non era migliorata con gli anni.

    Tutto era iniziato all’ultimo anno di liceo. A parte dei genitori assenti che a stento lo avevano visto crescere (documentaristi affermati, erano sempre in viaggio per lavoro), fino ad allora la sua vita, che ora sembrava essere appartenuta a un’altra persona, era stata normale. La scuola, gli amici, i sogni sul futuro. Poi tutto quanto era esploso come una bolla di sapone quando un’infezione lo aveva colpito, consegnandolo nel giro di pochi giorni tra le braccia di un sonno che avrebbe potuto non finire più.

    Invece ne era uscito grazie alle cure mediche, anche se gli piaceva pensare che gran parte del merito fosse della sua forza di volontà e del suo attaccamento alla vita.

    Alla fine era guarito, ma la sua vittoria aveva avuto un costo. L’infezione aveva leso alcuni nervi importanti e come conseguenza la gamba destra aveva smesso di funzionare. E aveva invece cominciato a fare molto male. Era stato un periodo terribile per Geremia, sapere che da quel momento in poi avrebbe dovuto convivere con il dolore di un arto inutilizzabile. Era stato però proprio in quella circostanza che l’amicizia con Clara si era mostrata in tutta la sua profondità.

    Lei gli era stata accanto continuamente, senza che lui glielo avesse mai chiesto. Aveva sopportato senza battere ciglio le sue crisi, sia quelle legate al dolore, sia quelle nate dalla depressione. Aveva sopportato i suoi scatti di rabbia e anche qualche insulto e, alla fine, lo aveva preso per mano conducendolo fuori dall’intrico di rovi nel quale sembrava essersi perso per sempre.

    Le cose avevano cominciato a migliorare. La gamba era tornata a funzionare, anche se non del tutto e il dolore era diminuito fino a sembrare la puntura di un grosso spillo conficcato nella coscia. Molto meglio di prima, comunque.

    La vita di Geremia era ripresa quasi come un tempo. Era riuscito a diplomarsi e si era iscritto all’università, alla Facoltà di Lettere. Ma qualcosa in lui era cambiato. Non era più il ragazzo allegro di un tempo, spesso si chiudeva in sé senza parlare per giorni interi e riusciva ad aprirsi un po’ solo con pochissime persone. Viveva con distacco e niente lo interessava più, diventando sempre più consapevole di essere menomato non solo nel corpo, ma soprattutto nello spirito.

    Seduto sul sedile posteriore della due cavalli, osservò dal finestrino il paesaggio che in quel momento non sembrava più poetico come prima. Quei brutti ricordi gli pulsavano nell’animo come il dolore sordo alla gamba.

    La voce baritonale di Manuel interruppe il triste flusso dei suoi pensieri.

    «Mancano ancora un paio d’ore e non so voi ma io devo mettere qualcosa nello stomaco. Che ne dite se ci fermiamo e diamo fondo alle scorte?».

    «Cavolo, hai ragione» ammise Clara guardando l’orologio, «è l’una passata. Non me ne ero proprio resa conto».

    «Allora approvato, si mangia!» decise l’autista con rinnovato entusiasmo. Clara si girò a fissare Geremia per chiedere conferma. Dal suo sguardo era evidente che il momento di tensione per lei era ormai passato. Geremia annuì e si esibì in un sorriso così forzato che sembrò più una smorfia di dolore.

    La ragazza scoppiò a ridere. «Non ti sforzare altrimenti ti si strappa la faccia, testone che non sei altro».

    Parcheggiarono la due cavalli in un’area di sosta e, raccolte dal bagagliaio le provviste, raggiunsero un tavolo in legno sotto a un gruppo di pini.

    «Non male, vero?» osservò Clara tirando fuori i panini. «È un posto tranquillo».

    Manuel si guardò attorno. «Sì, ricorda un po’ quei luoghi dei film dell’orrore di serie B, dove gli ignari viaggiatori vengono massacrati dallo psicopatico di turno».

    «Ti pareva!» sbuffò la ragazza. «Sempre a notare il lato positivo».

    «È il luogo migliore dove riposarsi dopo tanto peregrinare» concesse allora Manuel.

    Clara gli scompigliò i capelli in un gesto d’affetto. «Non è un tesoro quando fa così?»

    «Adorabile» fu il laconico commento di Geremia.

    «Allora, Clara» disse Manuel, «racconta un po’ come nasce quest’idea di passare qualche giorno in un castello della Val d’Aosta».

    La giovane aprì una bottiglietta d’acqua, ne bevve due sorsi e attaccò a spiegare.

    «Dunque, c’è quest’amica di un’amica di mia madre…».

    «Ho già mal di testa» gemette Geremia.

    La ragazza si lasciò sfuggire una risatina. «Lo sapevo. Ok, seriamente. Ve la ricordate Jennifer, vero? Quella mia amica che vi ho presentato alla festa di Luca l’hanno scorso. Eravamo alle medie insieme, poi lei si è trasferita all’estero con la famiglia e per caso ci siamo rincontrate proprio alla festa».

    «Sicura che io ci fossi?» domandò dubbioso Geremia.

    «Ah no, è vero, tu non c’eri. Geremia a una festa, che cosa ridicola».

    «Sì, me la ricordo» intervenne Manuel. «Mora, non tanto alta, molto carina».

    «È bionda, alta quanto te e sì, è carina, che stranamente è l’unica cosa che ti ricordi».

    «Appunto» ghignò Geremia.

    «Vedrai» gli si rivolse lei, «ti piacerà».

    «Ma certo» sospirò lui.

    «Comunque» proseguì Clara, «si dà il caso che suo padre sia il vice-presidente di una holding che da quanto ho capito ha in gestione questo castello. E pare che vogliano trasformarlo in un albergo di lusso. Siccome lei si è laureata in architettura, come me, si occuperà degli interni e mi ha chiesto se volevo darle qualche consiglio. Ho accettato e così mi ha invitata a stare qualche giorno da lei e mi ha detto che potevo portare chi volevo. Visto che allo studio di architettura dove lavoro non mi fanno fare molto, questa potrebbe essere un’occasione unica per accumulare un po’ di esperienza. Tra l’altro pare che nel paese lì vicino si stiano preparando per una festa, la ricorrenza di qualche santo o giù di lì, quindi ci sarà anche da divertirsi».

    «Fantastico!» esclamò Geremia per nulla entusiasta.

    «Vero?» annuì Clara battendo le mani.

    «Penso fosse ironico» l’avvertì Manuel.

    «Lo so, ma tu non dargli retta».

    «Se ti prenderanno come consulente avranno fatto un ottimo investimento» sentenziò Geremia. «Sei davvero brava. Vedrai che presto se ne accorgeranno anche gli altri».

    «Grazie» rispose Clara dopo un attimo di esitazione, presa alla sprovvista dal complimento.

    Lui si strinse nelle spalle. «È vero».

    «Bene, credo sia giunto il momento di rimettersi in viaggio» esortò Manuel. «Prima che questo momento melenso mi strappi fiumi di lacrime».

    «Sciocco!» lo rimbrottò lei.

    Il pomeriggio procedette pigro verso il suo culmine, mentre la due cavalli arrancava lungo i tornanti che portavano verso Cluje, il borgo di montagna meta del loro viaggio. Il sole stava cominciando a baciare le cime delle montagne quando giunsero a destinazione.

    «Fai un colpo di telefono a Jennifer per avvisarla che siamo quasi arrivati» suggerì Manuel. La ragazza sfiorò lo schermo del telefonino e se lo portò all’orecchio. Ne seguì una breve conversazione, terminata la quale si voltò verso i due giovani.

    «Allora» cominciò a spiegare, «Jennifer è fuori città, ma arriverà tra un’oretta. Dice che intanto possiamo andare al castello, oppure ci incontriamo qui al paese e poi ci andiamo insieme. Come volete».

    «Aspettiamola» propose Manuel.

    «È meglio» concordò Geremia.

    «D’accordo allora. Le mando un messaggio, poi facciamo un giro per il paese».

    Parcheggiata l’auto appena fuori dall’abitato i tre si incamminarono verso il centro.

    Cluje, la cui origine si perdeva nei secoli e la cui appartenenza all’Italia era frutto di un tiro alla fune politico con la confinante Francia, era un paese tipico della regione, costruito attorno a una piazza con l’immancabile fontana, una chiesa, un ristorante-hotel e una serie di negozi. Clara fu subito attratta da questi ultimi come un pezzo di ferro da un magnete.

    «Ahia, ho un brutto presentimento» gemette Manuel osservando la sua ragazza procedere a passo sostenuto verso le vetrine.

    «Perché, ti aspettavi qualcosa di diverso?» gli domandò Geremia. Il ragazzone sospirò rassegnato e la seguì. Con le mani infilate nelle tasche dei jeans e una smorfia di dolore sul viso, Geremia cambiò invece direzione.

    «Ci vediamo qui fra un quarto d’ora» gridò a Manuel, poi proseguì zoppicando nella direzione opposta.

    «Vigliacco!».

    Sorridendo divertito, Geremia attraversò la piazza per i suoi gusti un po’ troppo gremita di gente. Individuò un vicolo fra le case e ci si infilò come un topolino nella tana quando avverte la presenza di un gatto. La strada, disseminata di negozi, aveva la pregevole qualità di perdersi in altrettanti vicoli meno battuti che, come una ragnatela, si dipanavano fra le mura in pietra delle abitazioni.

    Protetto da quelle barriere in pietra e celato dalla semi oscurità di un sole ormai prossimo al tramonto, riuscì a rilassarsi dopo un viaggio per lui fisicamente faticoso. Procedette fino a ritrovarsi in uno spiazzo delimitato da una ringhiera, oltre la quale si poteva ammirare l’infinita distesa di boschi. Si appoggiò con le braccia alla balaustra in ferro battuto e lasciò vagare lo sguardo.

    Gli ci vollero pochi secondi per notarlo. Sulla destra, arroccato su un costone di roccia, si innalzava un castello circondato dagli alberi.

    Una sommessa vibrazione lo riportò alla realtà. Afferrò dalla tasca il cellulare e lesse il messaggio di Clara: Jennifer era arrivata e lo stavano aspettando vicino alla fontana. Si incamminò verso la piazza, non prima di aver lanciato un’ultima occhiata al castello. Giunto dai ragazzi seguirono le presentazioni di rito e insieme si incamminarono tutti e quattro verso le auto parcheggiate.

    Jennifer era davvero una bella ragazza e, anche se era prematuro qualsiasi giudizio, si riservò di concederle il beneficio del dubbio.

    «Allora, seguite me» disse Jennifer. «Comunque la strada è una sola, quindi non vi potete perdere».

    «Ti sei lasciato sfuggire un bello shopping» lo informò con tono ironico Manuel una volta saliti in macchina.

    «Non me lo perdonerò mai» rispose Geremia.

    «Oh, dateci un taglio voi due» protestò Clara. Seguirono la Jaguar di Jennifer lungo una strada stretta e poco trafficata che serpeggiava tra giganteschi abeti e giunsero al castello. Parcheggiarono le auto e si avviarono verso le porte in legno dell’ingresso.

    «Benvenuti nella mia modesta dimora» scherzò Jennifer accogliendoli all’interno del maniero.

    La sala in cui si ritrovarono era grande e di forma rettangolare. Il soffitto era formato da una serie di archi e a Geremia non parve così alto come si sarebbe aspettato dall’architettura di un castello. La sala era arredata in maniera molto spartana e con nulla che riconducesse all’idea che lui aveva di queste antiche costruzioni. Di fronte all’ingresso un’ampia scalinata in pietra si proiettava per circa tre metri verso la parete opposta per poi dividersi in due scale più piccole che scomparivano oltre il soffitto.

    «Questo è l’ingresso, come avete potuto capire» li istruì Jennifer. «Ovviamente ti spiegherò nel dettaglio tutto quanto» continuò rivolta a Clara, «prima però vi faccio sistemare nelle vostre camere».

    Li condusse sulla scalinata fino a un soppalco con delle finestre. «Questa potrebbe essere un’area di attesa per gli ospiti, anche se non mi convince fino in fondo».

    In effetti a Geremia nulla di quello che finora aveva visto lo convinceva. A parte la scalinata, appariva tutto un po’ troppo moderno per una costruzione medioevale.

    «Comunque…» proseguì Jennifer sottolineando la frase con un gesto della mano.

    «…mi spiegherai nel dettaglio tutto quanto» finì al suo posto Clara. L’amica annuì e aprì una porta che immetteva in un lungo corridoio, sulle cui pareti erano appesi dei grandi drappi di diversi colori vigilati da antiche armature di cavalieri.

    «Adesso sì che ci siamo», mormorò Geremia.

    «Questo settore si presenta meglio, vero?» concordò Jennifer.

    Lungo le due pareti speculari si aprivano tre porte distanziate di diversi metri l’una dall’altra. La ragazza ignorò la prima e aprì la seconda. La camera che li accolse sembrava uscita da una fiaba. Un enorme letto a baldacchino addossato alla parete si litigava la scena con un camino ad angolo. Di fronte, una porta-finestra conduceva su un ampio terrazzo, mentre un paio di mobili antichi e preziosi tendaggi completavano l’arredamento.

    «Oh, cavolo!» esclamò Clara con gli occhi che le brillavano. Entrò nella camera e compì un giro completo su se stessa. «Oh, cavolo!» ripeté con voce di un’ottava più alta. «Questa sarebbe la nostra stanza?».

    «Certo che no» rispose Jennifer, «questa è la tua stanza. I ragazzi si sistemeranno in quella di fianco». Indicò una porta sulla parete dove era addossato il letto. «Le due camere sono comunicanti, possiamo passare di qui. Prima però seguitemi».

    Clara non stava più nella pelle e i suoi gridolini di gioia rimbalzavano sulle pareti di pietra.

    «Spero tu abbia portato del valium» sbuffò Geremia.

    «No, però in macchina ho una mazza» rispose serio l’altro.

    «Ci sono delle segrete in questo castello?» chiese Clara a Jennifer fulminando con lo sguardo i due ragazzi.

    «Certo» confermò l’amica, poi aprì un’altra porta e li condusse in un bagno che faceva quasi impallidire la camera da letto. Una vasca era circondata da un delicato mobilio bianco in stile antico, creando una frattura temporale stilistica che riusciva a dare vita a qualcosa di davvero unico.

    Questa volta Clara rimase senza parole.

    «Di là» Jennifer indicò una porta, «c’è il reparto meno nobile del bagno».

    Manuel la guardò perplesso.

    «Water e bidet» spiegò laconico Geremia.

    «Ah, ho capito».

    La stanza dei ragazzi era molto simile alla prima, a parte il letto a baldacchino che era stato sostituito da due letti singoli più piccoli, ma dall’aspetto decisamente comodo.

    «Quando avete finito di sistemarvi venite giù che andiamo a cena fuori» disse Jennifer congedandosi.

    «Beh, devo ammettere che sono davvero colpito» dichiarò Manuel mentre si sistemavano.

    «In effetti il mio iniziale scetticismo è stato ribaltato» ammise Geremia. «Spero che il resto del castello celi altre sorprese. Comunque, non per farmi gli affari vostri, ma perché tu e Clara non dormite assieme?».

    «Non ti è chiaro? Non vuole che ti isoli troppo».

    «Che sciocchezza!».

    «È quello che ho detto anch’io. Ma credo che la ragione vera sia quella di farti un dispetto».

    «Non capisco».

    «Io russo. Parecchio».

    «Perfetto».

    Tornati alla hall dopo essersi rinfrescati e cambiati, trovarono Jennifer che li aspettava.

    «Domani ceneremo qui al castello» spiegò, «ma per questa sera sarete miei ospiti in paese. Si mangia veramente bene, ve lo garantisco».

    Clara diede di gomito a Manuel e gli mandò un messaggio con lo sguardo.

    «Non ne dubito» rispose lui, «ma questa sera offriamo noi. Insisto» concluse prima che la ragazza potesse ribattere.

    «Grazie» si intromise Geremia battendo una pacca sulla spalla dell’amico. «Un pensiero davvero gentile».

    «Per noi intendevo anche tu, furbone» sentenziò Manuel.

    Scuotendo la testa in una pacata rassegnazione, Clara invitò i ragazzi a incamminarsi verso il paese.

    CAPITOLO 2

    Ciao mamma,

    questa mattina presto sono andata a vedere le nostre rose. Il sole era appena sorto e loro erano ancora addormentate.

    Allora mi sono seduta sulla tua panchina preferita (ti ho già detto che adesso è anche la mia panchina preferita? Sì, te l’ho già detto, vero?) comunque ho aspettato che i raggi del sole cominciassero a riscaldare l’aria e piano piano le nostre rose si sono finalmente aperte.

    Oh, dovevi vederle! Si sono stiracchiate come faccio io quando mi sveglio, cioè molto ma molto lentamente. Ma alla fine hanno cominciato a guardare il mondo tutte bagnate di goccioline d’acqua.

    Che bello! Il loro profumo è qualcosa di speciale e sono rimasta ad annusarle per non so quanto tempo. È stato stupendo, anche se ho pianto un po’, perché mi ricordavano troppo quando andavamo insieme a vederle.

    Va bene, ho pianto più di un po’. Ma non importa, davvero. È stato comunque bello e mi ha fatto sentire bene.

    Vedessi che colore hanno. Rosso come… non so, come… hai presente quel tappeto enorme nella sala delle maschere, quello dove io inciampavo sempre da piccola? Ecco, rosso come quello, ma molto più bello, più vivo perché il rosso delle rose è il colore dell’amore che hai messo per coltivarle.

    Che abbiamo messo.

    E hanno anche un gambo robusto. Sono sanissime e con tante, ma tante spine. Sì, mi sono punta un’altra volta, ma che ci vuoi fare? Tu me lo dicevi sempre che ero una sciocchina con la testa sempre tra le nuvole.

    Sai, volevo tagliarne un paio per portarle su nella mia camera, ma non ho avuto cuore. Non so, mi sembrava che avrei potuto fare del male a loro e a te.

    Lo so, lo so, è sciocco pensarla così, ma comunque posso andarle a vedere quando voglio quindi…

    Sono rimasta insieme a loro per non so quanto tempo poi le ho salutate e sono andata in cucina.

    Rosa (è buffo vero? Parlare di Rosa dopo averti raccontato delle rose). Beh, Rosa mi ha fatto trovare delle paste davvero deliziose. Ne ho mangiate tre… ok, quattro! Sono troppe? Dici che diventerò una balena? Pazienza, dai.

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