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Le grandi battaglie tra greci e romani
Le grandi battaglie tra greci e romani
Le grandi battaglie tra greci e romani
E-book281 pagine3 ore

Le grandi battaglie tra greci e romani

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Info su questo ebook

Falange contro legione

Da Eraclea a Pidna, tutti gli scontri tra opliti e legionari

Non c’è stata, in tutta l’antichità, una formazione militare più celebrata della falange o della legione, né un soldato più vincente dell’oplita ellenico o del legionario romano.

Il primato nell'arte della guerra sembra essere passato nel corso dei secoli dai Greci ai Romani, conferendo ai loro eserciti fama di invincibilità. Eppure, c’è stato un periodo, lungo poco più di un secolo, in cui opliti e legionari si sono affrontati in diverse occasioni, quasi fosse una sfida per decidere il miglior soldato dell’antichità. Ma mentre Greci e Macedoni erano ormai in declino, i Romani stavano appena iniziando a creare un impero fuori dall’Italia, in un confronto serrato con i Cartaginesi. Falangi e legioni si sono scontrate in alcune grandi battaglie della storia grecoromana, da Eraclea a Benevento, da Cinoscefale a Pidna, battaglie che hanno visto protagonisti condottieri quali Pirro, Tito Quinzio Flaminino e Lucio Emilio Paolo. Andrea Frediani offre per la prima volta un’analisi originale e un quadro esauriente di tattiche, armi e schieramenti delle due massime unità belliche del mondo antico.

Falange e legione: armi, gerarchie e tattiche a confronto:

• l’invasione di Pirro

• la sfida di Filippo V

• resa dei conti con Perseo

• la ribellione degli achei

• Nabide, il tiranno di Sparta

• gli irriducibili etoli

La guerra non ammette errori

Il nuovo libro di Andrea Frediani. Per milioni di lettori, una leggenda

«Frediani è un grande narratore di battaglie.»

Corrado Augias, il Venerdì di Repubblica

«Frediani è abile nell’immergere il lettore dentro le battaglie, nell’accendere emozioni, nel ricostruire fin nei minimi particolari paesaggi e ambienti, nel portare i lettori in prima linea, fra scintillii di spade e atroci spargimenti di sangue.»

Giuseppe Di Stefano, Corriere della Sera

Andrea Frediani

È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato svariati saggi (Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro Magno; L’ultima battaglia dell’impero romano e Le grandi battaglie tra Greci e Romani) e diversi romanzi storici, tra cui: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; Il tiranno di Roma. Sta scrivendo una quadrilogia dedicata ad Augusto, iniziata con la pubblicazione de Gli Invincibili – Alla conquista del potere e La battaglia della vendetta. Alla battaglia delle Termopili ha dedicato il bestseller 300 guerrieri e a quella di Salamina 300. Nascita di un impero. Le sue opere sono state tradotte in cinque lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2014
ISBN9788854170926
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    Le grandi battaglie tra greci e romani - Andrea Frediani

    Le guerre tarantine

    Non si può dire che il sistema macedone che Pirro utilizzò fosse inefficace o obsoleto. Al contrario, Alessandro Magno provò che, con una leadership ispirata e soldati motivati, la falange macedone poteva sconfiggere qualunque forza le si opponesse. Il problema, con il sistema macedone, stava proprio nella sua fragilità intrinseca e nella sua dipendenza da una forte leadership. Un sistema del genere derivava la gran parte del suo terrificante potere dal matrimonio tra una rigida e solida formazione di fanteria pesante e l’azione dinamica di cavalleria e fanteria leggera. Quando erano coordinati da un genio come Alessandro, tutti questi elementi potevano essere correttamente impiegati con piena efficacia al momento giusto, e la vittoria ne era quasi sempre la logica conseguenza. Il sistema macedone tendeva a sfaldarsi, però, quando generali di più basso profilo cercavano di azionarlo piuttosto che di manovrarlo sul campo di battaglia. Se un comandante non aveva sviluppato la sua abilità alla perfezione, la complicata falange macedone poteva frustrare le sue speranze di vittoria, più che rafforzarle. La legione, un semplice randello al confronto, poteva essere, e spesso lo fu, guidata da ufficiali nominati dall’alto e con scarsa esperienza militare o abilità. Sulle rive del Siri, queste due grandi forze militari del mondo antico si sarebbero affrontate per la prima volta in un sanguinoso confronto per il controllo dell’Italia¹.

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    Mentre i Romani guerreggiavano cercando il bandolo della matassa contro un popolo come i Sanniti – capace di affiancare alla capacità di combattere in formazione coesa sul campo di battaglia le tattiche di guerriglia in limitati reparti combattenti tra i monti del Sannio – i Greci e i Macedoni erano nel pieno della quarantennale lotta tra i diadochi, i successori di Alessandro Magno, morto nel 323 a.C. dopo aver creato uno sterminato impero dalla penisola balcanica all’India. Ed era proprio quello dei diadochi lo scenario principale della storia della guerra, allora. Anzi, della Storia e basta, a dirla tutta. Dalla Siria alla Grecia, dozzine di falangi si affrontavano inesauste, sostenute e affiancate da pochi nuclei di cavalieri, da volteggiatori abili con gli archi, le lance, i giavellotti, le fionde, e perfino, talvolta, da qualche elefante. Battaglie di poco momento, oppure scontri tra armate sterminate, guidate dapprima dai generali che avevano seguito Alessandro nelle sue imprese, sviluppando una profonda esperienza militare, poi dai loro figli ed eredi, cresciuti in un mondo in stato endemico di guerra.

    Due generazioni di prìncipi, re, despoti, generali, governatori, in lotta per la supremazia, contrassegnarono anche sotto l’aspetto militare la cosiddetta epoca ellenistica. Rispetto all’età d’oro della Macedonia – quella di Filippo II e Alessandro Magno, solo di pochi anni prima – le loro falangi agivano sul campo di battaglia in modo già profondamente diverso. E, nel complesso, meno efficace. Mancava, ai diadochi, quella capacità, straordinaria in Alessandro, di combinare l’avanzata frontale della falange con l’attacco sull’ala destra della potente cavalleria; in sostanza, la brillante tattica combinata che permetteva ai cavalieri di trasformarsi nel martello che spingeva le armate avversarie contro l’incudine rappresentata dalla fanteria pesante. Lo sfondamento, semmai, era affidato alla insidiosissima variabile degli elefanti, eredità della campagna indiana e utilizzati in particolar modo da Seleuco di Siria.

    Si era anche ulteriormente ridotta la differenza di armamento tra la fanteria pesante e quella leggera. Gli opliti – i fanti pesanti per eccellenza del mondo antico – non erano più così pesanti; o perlomeno, non lo erano quelli macedoni, denominati pezeteri: solo quelli delle prime file di una falange, da Filippo II in poi e a maggior ragione in epoca ellenistica, indossavano l’armatura. In effetti, la vera e propria differenza la facevano l’uso tattico e l’armamento offensivo. I falangiti marciavano ancora coesi – o perlomeno, si sforzavano di farlo –, i fanti leggeri li anticipavano davanti e sui fianchi in ordine sparso; i pezeteri erano dotati di scudo rotondo, di dimensioni ridotte rispetto all’aspis dell’oplita spartano o ateniese del periodo classico, e della sarissa, la lancia lunga fino a sei metri, mentre i fanti leggeri potevano, semmai, disporre di una pelta, uno scudino da spalla, e di corti giavellotti.

    S’intende subito che, in questo modo, la falange aveva progressivamente perso parte della sua forza d’urto, ovvero la sua principale ragion d’essere, e anche parte della sua funzione tattica a vantaggio di una maggior dinamicità, senza dubbio, e forse di una maggiore capacità di avanzare su un terreno irregolare senza scompaginare i ranghi; tuttavia, un simile restyling la rendeva meno produttiva di fronte a formazioni duttili come quelle che avrebbe incontrato più a occidente, e perfino davanti a unità dalle caratteristiche più peculiari, quali gli arcieri medi e persiani oppure la cavalleria leggera o pesante, confluite negli eserciti dei diadochi come eredità del composito e multietnico impero macedone.

    Ma per i decenni successivi alla morte di Alessandro Magno, nessuno dei generali che si disputavano il suo impero dovette porsi il problema. Il modo ellenistico di fare la guerra era già sufficientemente ricco di contributi provenienti dalle più svariate regioni dell’Eurasia, per indurre qualche condottiero a immaginare un’evoluzione diversa dell’arte militare. Il resto, se mai qualcuno si dava il disturbo di prenderlo in considerazione, era barbarie, e si reputava che avesse ben poco da insegnare. Il primo a prendere contatto con una realtà bellica diversa, e a scoprire che non tutti i barbari avevano un’organizzazione militare approssimativa, fu un lontano parente di Alessandro Magno, un monarca periferico frustrato nei suoi sogni di gloria, i cui tentativi di ritagliarsi un ruolo da protagonista nelle lotte tra diadochi erano stati ripetutamente ridimensionati da generali più potenti, più fortunati o solo più abili di lui.

    L’autore della clamorosa scoperta si chiamava Pirro, ed era il battagliero sovrano del piccolo regno dell’Epiro, confinante con la Macedonia e da sempre un suo satellite. Il gruppo dirigente dell’Epiro, i Molossi, si era dato molto da fare per costruirsi un pedigree che permettesse al Paese di non essere annoverato tra le nazioni barbariche distribuite intorno ai territori considerati più propriamente greci. Pirro, ad esempio, vantava una discendenza da Achille, era imparentato con la nobiltà ellenica e, in ambito religioso, faceva riferimento al santuario di Zeus a Dodona, tra i principali della Grecia.

    Nonostante non potesse annoverare grandi vittorie, era grandemente stimato come condottiero, adorato dai suoi uomini, temuto e rispettato dagli avversari: subito dopo la sua sfortunata morte, il suo più pervicace nemico, Antigono Gonata, ne avrebbe deplorato la scomparsa e onorato la salma. Era tanto apprezzato, anzi, da essere chiamato in altri scacchieri a mettere la sua esperienza al servizio di Stati stranieri, per addestrare eserciti e condurli sul campo di battaglia. E lui si prestava volentieri. Pare che non concepisse altro interesse che la guerra, tanto da gettarsi a capofitto, spesso senza riflettere a sufficienza, in qualunque avventura gli proponessero, perfino in quelle che non gli offrivano particolari vantaggi. Ma che fosse competente, non è da mettere in dubbio. Si sa che, tra i pochi prodotti della magra letteratura epirota, esistevano un paio di suoi trattati di arte militare, e gli antichi lo consideravano secondo solo ad Alessandro Magno. Inoltre, qualche battaglia l’aveva vinta in maniera incruenta grazie alla sua fama, inducendo i soldati della parte avversa a disertare e a passare tra le proprie file.

    Intorno al 280 a.C. si erano ormai venuti formando tre nuclei distinti dal frazionamento dell’impero macedone: quello seleucide di Siria, con baricentro in Asia Minore, quello tolemaico in Egitto, e quello antigonide nella penisola balcanica. Stavano nascendo i tre regni ellenistici che poi, nel corso dei secoli successivi, sarebbero stati inglobati uno dopo l’altro dal più longevo impero conosciuto: quello di Roma (e Cleopatra sarebbe stata l’ultima discendente di quel Tolomeo che aveva militato agli ordini del grande macedone, ricavandosi poi un regno tutto suo). Non c’era più spazio, dunque, per Pirro, privo ormai di sostegno, risorse ed eserciti per continuare a coltivare i sogni di gloria.

    La mancanza di sbocchi sullo scenario principale lo spinse quindi verso un nuovo scacchiere, quello della penisola italica. Ad attrarlo, contribuirono certamente anche la sua smania di avventure, la disponibilità a farsi mercenario, il bisogno endemico di denaro, la volontà di provare la sua fama di condottiero.

    Qui i Romani erano nella terza fase della loro espansione. Dopo aver assunto il controllo dell’area laziale, nei primissimi secoli della repubblica erano riusciti finalmente ad avere ragione dei Sanniti, allargando la loro sfera di dominio all’intera Italia centrale. Adesso toccava alla Magna Grecia, ovvero al settore meridionale della penisola. E l’ostacolo maggiore era rappresentato da Taranto, città di origine spartana, a capo della lega di centri greci coalizzati contro i popoli italici, in particolar modo Bruzi e Lucani, che rappresentavano per loro quel che i barbari, con le loro incursioni lungo le frontiere dell’impero, avrebbero significato per i Romani secoli e secoli dopo.

    La Lega Greca basava la propria potenza più sulla ricchezza che sulla forza militare, tanto da potersi permettere mercenari in luogo della coscrizione dei cittadini. Gli opliti, d’altronde, sono stati i mercenari più richiesti dell’antichità, tanto da poterne ritrovare alcuni gruppi in Egitto già nell’epoca della Grecia preclassica. E questa era anche la consuetudine che si era andata affermando da oltre mezzo secolo, fin da quando Taranto aveva chiamato a guidare le sue truppe Archidamo di Sparta, che ci aveva perfino lasciato la pelle. Adesso, la scomparsa di Agatocle, tiranno di Siracusa e personalità di spicco dello scacchiere meridionale, lasciava i Greci d’Italia senza una guida e più che mai esposti alle aggressioni dei Lucani.

    Insomma, c’era margine, per un personaggio sufficientemente privo di scrupoli, per ritagliarsi un posto al sole. Le città della Magna Grecia guardavano a Taranto come punto di riferimento nella lotta ai popoli italici, ma una di esse, Turi, considerò insufficiente la sua opera e cercò per la prima volta aiuto al di fuori della madrepatria. Si appellò nientemeno che a Roma.

    Per i Romani la circostanza offrì un buon pretesto per estendere l’influenza su uno scacchiere dove l’Urbe poteva già contare sulla presenza di due colonie, Lucera e Venosa. E se lo scopo del senato era la ricerca del casus belli, Taranto glielo offrì subito, distruggendo la piccola flotta inviata nel 282 a.C. da Roma al console artefice della liberazione di Turi, Gaio Fabricio Luscino. Anche volendo considerare la presenza dei Romani in acque territoriali tarantine come una violazione del trattato stipulato tra le due potenze mezzo secolo prima, la rappresaglia fu straordinariamente violenta, né si limitò a questo; subito dopo, infatti, una colonna di Tarantini marciò su Turi costringendo la guarnigione romana a ritirarsi.

    Nell’Urbe, in realtà, non tutti vedevano con favore l’impegno nel Meridione. In particolare in senato c’era chi appariva contrario, e per il momento prevalsero le colombe. Ma una richiesta di risarcimento fu rigettata dai Tarantini, il che produsse l’invio di un esercito nel Sannio, al comando del console Emilio Barbula. I soldati romani non si azzardarono a sconfinare in territorio tarantino, ma la loro sola presenza sullo scacchiere fu ritenuta una minaccia sufficiente a fare ricorso a un’armata mercenaria.

    Fu allora che entrò in scena Pirro. La sua terra, l’Epiro, l’odierna Albania, era proprio frontistante il golfo di Taranto. Ricorrere a lui era quasi scontato, per i Tarantini (o perlomeno, per la parte di essi che aveva optato per la guerra); non a caso, già in passato Alessandro d’Epiro era venuto a combattere e a morire nel meridione d’Italia. Per giunta, Pirro era anche imparentato con Agatocle, e quindi la sua scelta avrebbe dato un’impressione di continuità. Per di più, il sovrano epirota, che non considerava un’occupazione degna di un re limitarsi a governare la sua terra, era virtualmente disoccupato, all’epoca: per breve tempo si era seduto sul trono che era stato di Alessandro Magno, a Pella in Macedonia, ma poi ne era stato cacciato dallo stesso alleato che lo aveva aiutato a conquistarlo, Lisimaco. L’opportunità che gli veniva offerta, d’altra parte, gli dava la possibilità di ergersi a difensore dei Greci italici e di estendere la sua fama di condottiero al bacino del Mediterraneo.

    Guardato dall’alto in basso dai principali protagonisti dello scenario ellenistico, Pirro era visto invece come una celebrità assoluta dai Greci d’Occidente. Parte dei Tarantini, in realtà, deplorava il suo ingaggio: i Romani erano troppo temuti perché tutti fossero disposti a impegnarsi in una lotta che la presenza di un personaggio tanto ingombrante rischiava di far diventare senza quartiere. E allora Pirro pensò bene di mettere subito a tacere qualsiasi dissenso facendo presidiare la città, prima ancora di arrivare in Italia, da un contingente di 3000 suoi falangiti, al comando del luogotenente Cinea. In tutto, sembra che avesse assemblato una ragguardevole armata di 20.000 fanti pesanti, 3000 cavalieri, 2000 arcieri, 500 frombolieri e 20 elefanti da guerra, sopravvissuti a una tempesta che disperse la flotta e rischiò quasi di ucciderlo.

    La presenza in città – e in uno scenario, quello italico, dove si combatteva solo in certi periodi dell’anno per compiere il proprio dovere di cittadini – di professionisti della guerra, minacciosi reparti armati di tutto punto, reduci da uno scacchiere di cui si raccontavano mirabolanti imprese militari, grandi battaglie e celebri condottieri, mise in riga anche i più riottosi, almeno per il momento. Quando poi arrivò con il resto del suo esercito, nella primavera del 280 a.C., Pirro instaurò un vero e proprio regime d’occupazione. Si dice che avesse chiuso i teatri, vietato ogni forma di divertimento, abolito le festività e precettato chiunque fosse in età di combattere. Per i suoi standard, d’altronde, i Tarantini avevano una scarsa attitudine alla guerra e – dovendo valersene come soldati per incrementare le magre file della sua armata – non esitò a sottoporli a un durissimo addestramento. Il re considerava i Romani dei barbari disorganizzati, ma la sua professionalità non gli permetteva di lasciare niente al caso. In realtà, ancora non sapeva che la disciplina e l’organizzazione dell’esercito romano non avrebbero affatto sfigurato nel contesto ellenistico.

    Eppure qualcuno doveva avergli consigliato che con quei nemici non si scherzava, perché prima di dar corso alla campagna tentò qualche approccio diplomatico, offrendosi come mediatore per le controversie. D’altronde, in Grecia Pirro aveva conseguito molte delle sue vittorie in maniera incruenta, grazie al suo prestigio. E sperava che ciò si verificasse anche in Italia: contrariamente alla nomea che si è fatto sul palcoscenico della Storia, il re epirota era uno che economizzava uomini e risorse. Scrisse, infatti, al console assegnato allo scacchiere meridionale, Publio Valerio Levino:

    Penso che tu non ignori da quali personaggi io discendo e quali imprese io ho compiuto e quale esercito io conduco, e il suo valore in guerra. Ritengo dunque che, considerando tutto ciò, non aspetterai di apprendere coi fatti la nostra valentia bellica, ma che, rinunciando alle armi, ti volgerai alle trattative.²

    Ma i Romani non avevano esteso il loro dominio un secolo dopo l’altro dimostrandosi disposti al compromesso. Ne andava del loro, di prestigio, sugli altri popoli italici di cui avevano assunto il controllo dopo lunghe e feroci lotte. Il console si fece interprete della volontà del popolo e del senato, con una risposta nella quale è racchiusa tutta l’essenza della politica romana e che è impossibile non riportare in qualunque testo sull’argomento:

    Disprezzare coloro dei quali non si è sperimentato né la potenza né il valore, come se fossero insignificanti e di nessun conto, mi sembra prova di indole dissennata e incapace di distinguere ciò che è utile. Noi non siamo soliti punire i nemici con le parole, ma con le opere, e non ti costituiamo giudice delle nostre accuse ai Tarantini o ai Sanniti o agli altri nemici, e non ti prendiamo come garante di nessuna ammenda, ma con le nostre armi decideremo la contesa e prenderemo le nostre vendette come noi vogliamo. Ora che sei informato di ciò preparati a essere nostro antagonista e non già giudice.³

    Frattanto, Valerio Levino consolidava le sue posizioni nel Meridione assicurandosi l’appoggio delle città greche contrarie alla guerra, tra cui la stessa Turi e Locri, nelle quali insediò guarnigioni, e spostando senz’altro il baricentro del proprio esercito in Lucania, per separare Pirro dai possibili alleati. Da parte sua, il re aveva molti motivi per lamentarsi dei suoi committenti. Oltre a mostrarsi piuttosto refrattari alla guerra, infatti, i Tarantini non sembravano in grado di assicurargli l’appoggio di truppe italiche, che pure gli avevano prospettato in termini iperbolici in sede di ingaggio: dei 350.000 fanti e 20.000 cavalieri messapi, lucani e sanniti di cui gli ambasciatori tarantini avevano favoleggiato per stimolarlo ad accettare la sfida, non v’era traccia, almeno per il momento. I popoli italici attendevano piuttosto gli eventi, riservandosi di decidere da quale parte stare.

    Eraclea

    Sembrava proprio che la guerra avrebbe riguardato quasi esclusivamente le legioni di Roma e le falangi epirote, modestamente rinforzate da quelle dei Tarantini. In tutto, il re venne dunque a disporre, forse, di non più di 30.000 uomini. Né potevano mancare, nell’armata di un condottiero abituato a combattere secondo gli schemi ereditati da Alessandro Magno, gli elefanti, che si era preso la briga di far trasportare al di qua dell’Adriatico – senza dubbio per impressionare Italici e Romani, che mai ne avevano visti in precedenza – e di cui riuscì a trarre in salvo una ventina.

    Si prospettava una sfida interessante. I Romani avevano già combattuto contro qualcosa di somigliante alle falangi macedoni: i popoli su cui erano andati affermando la loro supremazia nel primo mezzo millennio della loro esistenza, tra monarchia e repubblica, conoscevano e adottavano il modello greco, come del resto gli stessi capitolini dei primi tempi, con qualche variante locale. Ma non avevano mai affrontato un condottiero cresciuto direttamente alla scuola del modello originale, se pur mediato dall’esperienza macedone e poi persiana. Pirro, invece, non aveva mai affrontato delle legioni, e non sapeva esattamente cosa aspettarsi. Nella notissima frase – «la disposizione di questi barbari non è barbara; ma li vedremo alla prova»⁴ – pronunciata, secondo la tradizione, nel vedere i Romani erigere un campo provvisorio, c’è tutto il suo stupore, e anche la sua curiosità, nei riguardi del nuovo nemico.

    Alla fine, infatti, era stato lui a muovere incontro al console. Temendo di perdere il controllo sulle sue truppe – che probabilmente, tra Greci e Tarantini, faticava a tenere insieme – Pirro aveva ridisceso la costa del golfo di Taranto, raggiungendo il fiume Siri (l’attuale Sinni) e accampandosi sulla sua riva settentrionale, per proteggere la colonia di Eraclea, nei pressi dell’attuale Policoro. Valerio Levino la minacciava dalla sponda opposta, con due legioni e circa 20.000 alleati. Quindi aveva forse più di 30.000 effettivi, e l’altro elemento che Pirro dovette riconoscere al nemico fu la superiorità numerica. E il sovrano era un condottiero troppo esperto per vanificare fin dall’inizio la campagna con un attacco scriteriato, tanto più che almeno una parte dei rinforzi promessi sembrava dover arrivare da un momento all’altro. Optò pertanto per l’attesa, trincerandosi in una solida posizione difensiva e mandando a presidiare i guadi del fiume una modesta forza di fanteria leggera.

    Dal canto suo, nemmeno Valerio Levino era uno sprovveduto. Resosi conto che il tempo lavorava a suo sfavore, assunse l’iniziativa per costringere l’avversario alla battaglia. Le sue unità di cavalleria, favorite

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