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Le battaglie più sanguinose della storia
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E-book922 pagine13 ore

Le battaglie più sanguinose della storia

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Info su questo ebook

Dall’antichità alla Seconda Guerra Mondiale, gli scontri più cruenti che l’umanità abbia mai conosciuto

Le battaglie, il momento culminante di ogni guerra. Lo scontro decisivo che decreta la sorte di un conflitto, quasi un giudizio inappellabile che i contendenti sono tenuti a rispettare nelle successive trattative per arrivare a una pace. Il mondo occidentale considera da sempre la battaglia come la concentrazione della massima violenza, limitata nello spazio più ristretto e nel minor tempo possibile. La guerra, infatti, provoca lutti e sofferenze, almeno all’inizio, il combattimento campale non era altro che un tentativo di ritualizzarla. Gli episodi bellici esaminati in questa rassegna rappresentano gli scontri più cruenti della storia: sfide tra eserciti anche sterminati che hanno lasciato sul campo decine, talvolta centinaia di migliaia di caduti. E nonostante ciò, non sempre si è trattato di carneficine risolutive di un conflitto. Spesso volute e provocate da comandanti ambiziosi e spregiudicati, queste sanguinose e cruciali giornate hanno avuto come veri protagonisti i soldati, di cui il volume evidenzia il punto di vista.

Una rassegna degli scontri cruenti che hanno cambiato il corso della storia al prezzo di migliaia di vite umane

Alcune delle battaglie trattate:
La battaglia di Platea (479 a.C.)
La battaglia di Gaugamela (331 a.C.)
La battaglia di Canne (216 a.C.)
Gli assedi di Bukhara, Samarcanda e Urgench (1218 - 1221)
La Battaglia di Nicopoli (1396)
La battaglia di Ankara (1402)
La battaglia di Towton (1461)
La battaglia di Tenochtitlán (1521)
L’Assedio di Magdeburgo (1631)
La battaglia di Kunersdorf (1759)
La battaglia della Moscova o di Borodino (1812)
La battaglia di Gettysburg (1863)
La battaglia di Gravelotte st Privat (1870)
La battaglia di Verdun e della Somme (1916)
L’Assedio di Leningrado (1941-1943)
La battaglia di Stalingrado (1943)
La battaglia di Okinawa (1945)
Alberto Peruffo
è nato a Seregno nel 1968 e si è laureato all’Università degli Studi di Milano. Ha cooperato con la Sovrintendenza archeologica di Milano. Collabora con alcune riviste di storia e insegna. Ha pubblicato diversi saggi storici, tra cui: I corsari del Kaiser; La battaglia di Carcano; La supremazia di Roma, battaglie dei Cimbri e dei Teutoni; Le guerre dei popoli del mare; La guerra civile longobarda e la battaglia di Cornate e L’età dell’oro dei cacciatori. Le battaglie più sanguinose della storia è il primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2018
ISBN9788822726834
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    Anteprima del libro

    Le battaglie più sanguinose della storia - Alberto Peruffo

    La battaglia di Platea (20 agosto 479 a.C.)

    Eschilo, figlio di Euforione, ateniese,

    morto a Gela fertile di grano, questo monumento ricopre;

    il bosco di Maratona potrebbe raccontare il suo glorioso valore

    e il Medo dai lunghi capelli che ne ha fatto conoscenza.

    (Epitaffio sulla tomba del grande drammaturgo Eschilo)

    Scontro di civiltà

    Da sempre, nella vulgata comune, si considerano Europa e Asia come due mondi culturalmente separati spesso antagonisti tra loro. Lingua, tradizioni, religioni e anche modi di fare la guerra diversi: persino i costumi si percepiscono dissimili con un Oriente frivolo e un Occidente austero. Questa dicotomia presente nell’immaginario collettivo ha una data di nascita ben precisa e risale alle guerre combattute tra l’impero persiano e le libere città-Stato greche all’inizio del v secolo a.C. Fu quello il momento in cui questi due mondi vennero a scontrarsi in modo decisivo, creando una mitologia e un archetipo che si sarebbero tramandati per secoli nelle culture eurasiatiche.

    All’inizio del v secolo a.C. tutte le numerose città greche dell’Asia minore erano sotto il controllo persiano e rispondevano al satrapo della città di Sardi, mentre al momento dell’invasione di Serse nel 480 a.C. molte città greche, come Tebe, aderirono all’impero persiano senza resistenze, anzi si allearono con i persiani stessi nella guerra contro il resto dei greci che ancora resistevano alla marea asiatica.

    Per quale motivo le città-Stato greche non si adeguarono alle richieste del Re dei Re persiano quando venne a chiedergli «terra e acqua», cioè l’atto formale di sottomissione? In definitiva non si trattava altro che di riconoscere un potere superiore centralizzato che non avrebbe cambiato molto la vita delle persone comuni. Anzi, ci sarebbero stati anche dei vantaggi, come quello di far parte di una rete economica estremamente vasta come l’Asia e l’Egitto. Inoltre, le continue piccole guerre a cui erano abituati i cittadini greci, che ogni estate imbracciavano le armi contro le città limitrofe dei propri dirimpettai, quasi una continua guerra civile senza soluzione di continuità, sarebbero cessate.

    A questa domanda già risposero le città greche di Mileto, Focea, Efeso e le isole di Samo che si ribellarono al giogo persiano nel 499 a.C., insurrezione da cui ebbero inizio le guerre persiane.

    In quel periodo le città greche dell’Asia minore erano governate da regimi tirannici, dittature personali che eseguivano i voleri del satrapo di Sardi che, per interposta persona, governava quelle regioni per il Gran Re di Persia Dario i. Le città greche della zona erano radunate sotto una lega detta ionica, dal nome delle popolazioni greche che avevano colonizzato quelle aree già al tempo dei micenei, di cui facevano parte le dodecàpoli, le dodici città sulla costa dell’Asia minore. La lega ionica raggruppava le città più ricche e sviluppate del mondo greco che, grazie alla loro posizione, controllavano i commerci tra Europa e Asia, oltre a possedere un entroterra particolarmente fertile. La città di Mileto, in particolare, dominava i commerci navali dell’Egeo e la sua opulenza era famosa nel mondo di allora. Non solo era ricca di beni materiali ma possedeva alcune delle più brillanti menti dell’epoca, sia in campo scientifico, con lo studio dell’astronomia, della cartografia, materie necessarie alla navigazione, sia nella filosofia facendo nascere una vera scuola filosofica con personaggi ancor oggi studiati e apprezzati come Anassimene, Talete e il suo discepolo Anassimandro (615-540 a.C.). Quest’ultimo soprattutto diverrà una pietra miliare nei successivi studi filosofici dei greci: a lui si deve la considerazione che la luce notturna della luna era solo il riflesso del sole, introducendo anche lo gnomone per la navigazione, dal quale si potevano stabilire l’ora e la stagione esatte, calcolando le coordinate come la latitudine di un luogo, cosa indispensabile per i navigatori milesi.

    Dal punto di vista politico, però, le cose non andavano altrettanto bene per le dodecàpoli, visto che i governanti delle città, da tempo, non erano più indipendenti politicamente. I tiranni delle città della lega ionica si trovavano infatti sotto la tutela persiana già dall’epoca di Ciro il Grande che estese la sua area d’influenza fino alle coste dell’Egeo a metà del vi secolo a.C., dopo aver sconfitto i Lidi di re Creso.

    Questa sudditanza delle città della lega ionica ebbe fine con il tiranno di Mileto Aristagora che da suddito fedele dei voleri persiani volle rendersi indipendente proclamando l’isonomia, cioè l’uguaglianza di tutti i cittadini liberi di Mileto davanti alla legge, concetto democratico anche se proclamato da un dittatore assoluto quale era Aristagora. L’esempio di Mileto venne presto seguito dalle altre città greche della lega ionica che elessero a loro condottiero, nella lotta contro il dominio persiano, lo stesso Aristagora.

    Come colonie fondate dalle città della Grecia continentale le città ribelli chiesero l’appoggio delle libere città greche. Ad accogliere l’appello furono solo Atene ed Eretria, le quali inviarono un piccolo esercito composto di 20 triremi ateniesi e da 5 triremi eretriesi, complete di opliti. Difficile capire fino a che punto queste due città fossero consapevoli del pericolo a cui si esponevano. Certo tutti conoscevano la grandezza dell’impero persiano, tanto che la maggior parte dei greci non s’immischiò nella questione, consci di quanto sarebbe stata terribile la probabile rappresaglia della più grande compagine statale mai vista fino ad allora. A spingere a questa scelta gli ateniesi, oltre a una certa dose d’irresponsabilità, era l’odio per tutti gli stranieri, in particolare i barbari, cioè i non greci, odio che era condiviso naturalmente da tutto il resto dell’Ellade che vedeva gli asiatici come qualcosa di culturalmente alieno al proprio modo di vedere. Atene aveva, però, un motivo in più essendo in quel periodo concentrata a sviluppare i propri commerci marittimi con le città asiatiche. Liberarle dal giogo persiano avrebbe permesso un maggiore sviluppo delle relazioni con le importanti e ricche città della dodecàpoli, tra cui in particolare Mileto. Altro motivo che portò all’intervento di Atene ed Eretria era la comunanza di sangue con le città dell’Egeo orientale essendo, esse, della stirpe degli ioni, stessa popolazione della maggioranza delle città-Stato della lega ionica, come le città di Mileto (capofila della lega stessa), Efeso, Samo, Focea e Smirne. Questa comunanza di stirpe era molto sentita nel mondo ellenico che prevedeva la tutela e la difesa delle comunità poste al di fuori della Grecia continentale minacciate da pericoli esterni. Ciò innervava il rapporto tra le colonie e i loro territori di origine, con questi ultimi che si sentivano obbligati a intervenire in difesa dei loro fratelli, considerati una propria emanazione. Allo stesso modo gli ateniesi si sentivano in dovere di soccorrere la lega ionica: per loro era un dovere morale, per l’onore della città e della koinè degli Ioni.

    Sotto la guida di Aristagora l’esercito alleato della lega ionica conseguì una prima vittoria navale contro una flotta fenicia che tentava di entrare nell’Egeo. Nel 498 a.C. l’offensiva greca si sviluppò contro la capitale della satrapia Sardi, costringendo Artaferne a rifugiarsi nell’acropoli cittadina, mentre il resto dell’antica capitale dei Lidi veniva saccheggiato e dato alle fiamme, cosa che neppure i persiani di Ciro avevano fatto al momento della loro conquista.

    Le sorti di Sardi mossero all’azione il Gran Re Dario, il quale, radunato l’esercito, marciò rapidamente lungo la Strada Reale che collegava Susa alla Lidia. La preponderanza numerica dell’esercito persiano congiunto all’aiuto dei Lidi e dei Cari, che combattevano con la tattica oplitica tipica dei greci, prevarranno velocemente sulla lega ionica, sconfiggendoli in una battaglia davanti la città di Efeso, cosa che consigliò agli ateniesi di uscire dalla lotta in appoggio agli Ioni. Questa defezione getterà le città greche ribelli nello sconforto preparando il successivo disastro di Mileto. Nel 494 a.C. l’esercito di Dario conquistò la città di Aristagora saccheggiandola, catturandone i ricchi abitanti che vennero venduti come schiavi per le vaste contrade dell’impero persiano. La distruzione di Mileto voleva essere un esempio per le città ribelli che, infatti, si arresero velocemente e consegnarono i capi della rivolta a Dario.

    La distruzione di una città così importante e prestigiosa per tutto il mondo greco come Mileto e il crudele destino riservato ai suoi cittadini fu un vero trauma, che portò le pòleis greche a riunirsi in una alleanza panellenica, la Simmachia Peloponnesiaca a cui aderirà, nel 491 a.C., anche Atene.

    Dario dal canto suo non intese fermarsi. L’ingerenza di Atene era un facile pretesto per occupare anche quella parte di mondo che mancava alla collezione di contrade fagocitate dall’ingordigia persiana. Risparmiare Atene sarebbe poi stata un’onta per il Gran Re che al contrario era obbligato a punire un affronto così grave da parte di una misera cittadina abitata da facinorosi che avevano osato sfidare l’impero.

    Per la verità non era la prima volta che i persiani invadevano la parte occidentale dei Dardanelli. Già tra il 513 e il 512 a.C. il re Dario i era penetrato in quella che allora si chiamava la Scizia, cioè le steppe della Russia meridionale e dell’Ucraina, abitate allora dagli Sciti, indomite popolazioni prive di una entità statuale centralizzata ma federate in tribù nomadi di stirpe indo-iranica che avevano nell’allevamento dei cavalli il loro fulcro vitale. Dario si mosse dai confini della Tracia verso oriente, attraversando il Danubio e avanzando verso le steppe. Questa spedizione, come le successive invasioni della Russia, si tradusse in un disastro per i persiani, visto che gli agili Sciti rifiutarono lo scontro aperto, ritirandosi, invece, nel profondo della steppa facendo terra bruciata nella loro marcia verso est, lasciando al nemico un territorio devastato da cui si sarebbero dovuti presto ritirare molestati dagli arcieri a cavallo sciti.

    Sempre Dario vorrà punire gli ateniesi del loro sostegno alla Ionia con una spedizione navale che tenterà di occupare l’Attica al comando del satrapo Artaferne, venendo sconfitta a Maratona dalle truppe ateniesi e plateesi al comando di Milziade. Maratona era stata la prima grande battaglia che aveva messo in luce la superiorità della tattica oplitica sulle più numerose ma meno corazzate, armate persiane.

    Per Dario questo fu uno smacco terribile, tanto è vero che si preparò per una nuova invasione in grande stile, mentre, nell’attesa della rivincita, tutti i giorni un servo gli sussurrava: «O padrone ricordati degli ateniesi». Tale proposito, ossessivamente ripetuto, venne però ostacolato da una rivolta in Egitto e, infine, dalla morte del re nel 486 a.C. dopo un regno di trentasei anni.

    La campagna del 480 a.C.

    La seconda guerra persiana che porterà alla battaglia di Platea sarà guidata dal figlio di Dario, Serse i, che, non volendo compiere gli errori di superficialità del padre, organizzò la più grande spedizione militare mai vista fino ad allora. Serse era conscio della superiorità tattica greca per cui decise d’impiegare tutte le risorse del suo vasto impero per allestire un’imponente spedizione terrestre affiancata da un’altrettanto grandiosa flotta navale adibita a supporto dell’esercito e alle operazioni anfibie sulle coste nemiche.

    Fu lui stesso a porsi alla guida dell’armata che invase l’Ellade, cui va l’indiscusso primato di essere stata la prima a realizzare una grande opera ingegneristica come il ponte sull’Ellesponto, teso a collegare Asia ed Europa sullo stretto dei Dardanelli. Si trattava di un ponte di barche fenice ed egiziane disposte in obliquo in modo da assecondare la corrente marina, realizzando una struttura di una lunghezza di circa milleduecento metri che permise all’esercito persiano di passare marciando sul continente. Erodoto racconta come un primo tentativo venne vanificato dalla furia del mare, alimentando così la furia di Serse che se la prese con i costruttori condannandoli alla decapitazione, mentre al mare, colpevole d’intralciare i piani del Gran Re, fu applicata la pena più lieve della flagellazione. Vera o falsa che fosse questa storia l’armata imperiale attraversò indenne e velocemente lo stretto di mare. Il numero di quanti usufruirono di questo passaggio è, ancora oggi, controverso. Secondo Erodoto si trattò di un milione e ottocentomila uomini con cavalli e masserizie varie; storici più prudenti propendono per un massimo di 200/250.000 uomini: in ogni caso si trattava di un esercito immenso ed eterogeneo, affiancato da una altrettanto imponente flotta.

    Tutta la seconda guerra persiana sarà costellata da battaglie tra le più sanguinose di tutta l’Antichità.

    All’arrivo della valanga persiana i greci furono colti da sgomento non riuscendo a trovare un accordo comune tra le varie pòleis: alcune città-stato consideravano la partita persa in partenza, sperando solo di trovare una posizione all’interno dello sterminato impero persiano. Questo era il caso delle città più esposte all’invasione, collocate sul cammino inesorabile di Serse verso la sua principale nemica Atene. Tra queste, molte erano in Tessaglia e Beozia, tra cui Tebe, che fu tra le prime ad aderire, più o meno convintamente, al progetto imperiale dei persiani.

    A voler difendere a ogni costo la libertà della patria furono invece Sparta e Atene che, al congresso panellenico di Corinto, presero la decisione di opporsi all’invasore. Atene, in particolare, galvanizzata dalla grande e inaspettata vittoria di dieci anni prima a Maratona, era decisa a resistere a ogni costo, anche perché era l’obiettivo principale della vendetta di Serse. Più restii gli spartani che, desiderosi di risparmiare il loro prezioso esercito, contavano di difendersi sull’istmo di Corinto. Per questo l’impegno iniziale degli spartani fu limitato all’impiego dei loro famosi trecento opliti. Il comando dell’intera armata formata da 7000 opliti provenienti dalla Beozia e dal Peloponneso fu affidato al re spartano Leonida che tentò di bloccare i persiani al passo delle Termopili.

    Lo scopo di Leonida era quello di inficiare l’enorme superiorità numerica del nemico costringendolo a combattere in un ambiente angusto dove la tattica oplitica sarebbe stata favorita dall’impegno esclusivo su una unica fronte, che al contrario avrebbe precluso ogni possibilità di manovra all’avversario. Si sperava inoltre che, bloccando per molti giorni i persiani su posizioni distanti dalle loro basi di rifornimento, questi finissero per cedere e rinunciare all’invasione per mancanza di vettovaglie.

    L’epico scontro delle Termopili durerà tre lunghi giorni fino a che, grazie alla soffiata di un traditore greco, i persiani riusciranno a circondare i difensori, annientandoli completamente insieme con il loro coraggioso re Leonida, vera anima del sacrificio spartano in una situazione ormai senza speranza. Le Termopili diverranno un topos nel mondo occidentale, un archetipo del sacrificio e del combattimento dei pochi contro i tanti fino all’ultimo uomo. Veniva così esaltata l’idea di sacrificarsi senza alcun interesse per se stessi e la vittoria ma solo per l’estetica della bella morte in battaglia e dell’essere ricordati come eroi.

    Malgrado l’annientamento totale della compagine spartana e dei loro alleati tespiesi (unici opliti provenienti dalla Tessaglia), le perdite per i greci erano state contenute, contrariamente a quelle dei persiani: Erodoto attribuisce agli invasori 20.000 caduti, tra i quali la guardia d’élite detta degli immortali.

    Contemporaneo alle Termopili fu lo scontro navale di capo Artemisio dove la flotta ateniese e quella dei suoi alleati tentò d’impedire il passaggio alle navi persiane a nord dell’isola di Eubea. Anche in questo caso lo scontro non fu del tutto favorevole per gli alleati greci che si ritirarono a sud quando vennero a conoscenza del destino di Leonida e che l’armata di Serse era in veloce marcia su Atene.

    Per la città dell’Attica non ci sarà più nulla da fare: verrà evacuata e abbandonata ai persiani che la incendiarono e saccheggiarono vendicando finalmente il destino di Sardi di vent’anni prima.

    Lo scontro decisivo avverrà a meno di un mese di distanza, il 23 settembre 480 a.C., quando le flotte alleate guidate da Temistocle sconfiggeranno in una sanguinosa battaglia navale l’imponente flotta persiana davanti all’isola di Salamina, nello stretto specchio di mare che divide l’isola stessa con l’Attica. Le veloci triremi greche tesero un’imboscata alla baldanzosa flotta di Serse che venne colta di sprovvista sul suo fianco sinistro e colpita dai rostri bronzei delle sottili navi greche prima di essere arrembata dagli epibati, gli opliti di marina, adatti a combattere sulle navi e nelle operazioni anfibie.

    La vittoria greca non risolse però la guerra. Se la flotta persiana giaceva, in gran parte, sul fondo del mare non così era per l’immenso esercito di terra che aveva assistito alla battaglia dalle coste dell’Attica insieme al suo sbigottito re.

    Malgrado la pesante sconfitta Serse era ben lungi dal darsi per vinto. Decise comunque di tornare verso la sua capitale Persepoli lasciando l’esercito persiano al completo in terra greca con l’intenzione di domare l’Ellade, cercando di blandire gli ateniesi per staccarli dall’alleanza delle città del Peloponneso, in particolare la pòlis di Sparta da sempre rivale di Atene. Serse affidò questo arduo compito a uno dei suoi migliori comandanti, nonché parente del sovrano stesso, Mardonio.

    Gli opposti comandanti

    Mardonio

    In persiano Marduniya (dal significato quello mite), era un veterano di tante guerre, prima sotto il comando di Dario e poi di Serse. Appartenente all’alta nobiltà persiana era figlio di un certo Gobria, uno dei fedelissimi di re Dario, tanto da averne sposato una sorella. Parentela che divenne sempre più stretta quando Mardonio sposò egli stesso la figlia di Dario.

    Grazie a queste aderenze, Mardonio ricoprì importanti incarichi militari rivolti contro la Grecia. Ancor prima della battaglia di Maratona, nel 492 a.C. Mardonio guidò una spedizione in Tracia e Macedonia al fine di controllare le coste settentrionali dell’Egeo. A farne le spese non furono solo i traci ma anche le città greche di quella zona. Un suo grande successo fu la sottomissione degli abitanti dell’isola di Taso, arresisi senza combattere. Purtroppo per Mardonio il fato infliggerà un duro colpo ai persiani quando la loro flotta venne annientata da una tremenda tempesta mentre era intenta a doppiare il monte Athos. Secondo Erodoto, che riporta un’informazione di seconda mano, furono 300 i vascelli colati a picco con la perdita di ben 20.000 uomini. Così narra lo storico: «Ed essendo questo mare intorno all’Athos molto infestato da belve [pescecani?], alcuni perirono preda delle belve, altri sbattuti contro le rocce; alcuni morirono perché non sapevano nuotare, altri per il freddo»¹.

    Pur senza flotta Mardonio riuscì comunque, con l’esercito di terra, a sottomettere la tribù tracia dei Brigi i quali nel corso del conflitto feriranno lo stesso comandante persiano. Rientrato in Asia non parteciperà alla campagna militare che porterà alla sconfitta persiana di Maratona: forse venne giudicato da Dario come un generale sfortunato.

    A differenza di questi, il nuovo sovrano Serse ebbe un’alta considerazione di Mardonio, tanto da seguirne i consigli in ambito militare, così come accadde quando il generale esortò il tiepido Re dei Re a conquistare, una volta per tutte, la Grecia. Proprio in quella circostanza Mardonio espresse la sua opinione sul modo di fare la guerra dei greci che ci viene riportato da Erodoto:

    Eppure mi si dice che tra gli Elleni esiste l’uso della guerra. Ma per la loro stupidaggine e inettitudine la conducono nella maniera più balorda. Si dichiarano la guerra, e poi si scelgono il terreno migliore e più in pianura per scendervi a combattere: sicché, anche vincendo, ne riportano gravi conseguenze; per non dire dei vinti che restano distrutti².

    Il discorso riportato dallo storico greco ai suoi lettori ateniesi vuole certo essere un artificio letterario atto a esaltare il valore e l’intelligenza dei greci che, con il senno del poi, conoscevano l’esito del confronto; nello stesso tempo indica anche il pregiudizio persiano sulla rozzezza dei greci, avulsi da ogni artificio tattico che li potesse in qualche modo avvantaggiare sul campo di battaglia.

    Dietro le insistenze di Mardonio per intraprendere la spedizione contro i greci, molti storici vedono l’ambizione del generale persiano, desideroso di diventare satrapo della nuova Grecia.

    Durante la seconda guerra persiana Mardonio incitò sempre il suo re all’azione senza preoccuparsi troppo delle conseguenze, allineandosi all’opinione della maggioranza che voleva attaccare le triremi greche a Salamina. Dopo questa battaglia lo stesso Mardonio chiederà a Serse di rimanere sul suolo greco in cerca di una rivincita, cosa che perseguirà con un certo acume strategico e politico, finendo i suoi giorni combattendo eroicamente a Platea, riportando ai posteri l’immagine di un uomo nobile e coraggioso per quanto presuntuoso.

    Pausania

    Gli spartani erano riconosciuti come i migliori guerrieri della loro epoca: per questo fu quasi una decisione obbligata dare a loro il comando delle forze elleniche che si difendevano dall’invasione, sorvolando, almeno temporaneamente, sulle irriducibili divisioni e avversioni tra le varie città-Stato greche. Il comportamento degli spartani e del loro re Leonida alle Termopili era poi stato esemplare tanto da impressionare la rivale Atene. Quest’ultima sarà fondamentale nell’accettare il comando unificato degli spartani per le truppe di terra mentre si riservava il comando sulla flotta che, condotta mirabilmente da Temistocle, si era guadagnata gli allori a Salamina.

    A guidare le forze greche in un momento così decisivo e delicato quale fu la campagna militare del 479 a.C. venne chiamato Pausania, il nipote dell’eroe delle Termopili che, sebbene di stirpe reale, non era uno dei due re che si spartivano la diarchia spartana ma solo il reggente del figlio di Leonida, Plistarco, legittimo successore al regno, sebbene ancora bambino. L’altro sovrano spartano, Leotichide, del lignaggio degli Euripontidi, era impegnato in prima persona in Asia al comando delle truppe anfibie alleate, successivamente vincitrici nell’altra fondamentale battaglia di capo Micale che decretò la definitiva sconfitta persiana.

    Pausania era figlio del fratello minore di Leonida, Cleombroto della stirpe degli Agiadi discendente nientemeno che da Eracle. Lo stesso Cleombroto era stato per breve tempo reggente del figlio di Leonida, per morire pochi mesi dopo lo scontro delle Termopili mentre tornava con i suoi uomini dalla zona dell’istmo da lui fortificata in funzione antipersiana, passando così il testimone di reggente al figlio.

    Pausania condusse l’armata greca alla vittoria di Platea, vendicando così suo zio. Nei momenti di maggior crisi della battaglia riuscì a mantenere il sangue freddo, lasciando agli opliti la possibilità di far valere la loro tattica vincente, vero elemento decisivo della giornata campale. D’altra parte, nel mondo greco, il comandante in capo aveva l’unica funzione di guidare in prima linea i propri soldati, al più sceglieva il terreno e il momento dello scontro lasciando poi che il corso degli eventi si compisse come gli dèi e il fato avevano stabilito. Lontana, dalla mentalità del comandante greco, la possibilità di svolgere manovre complesse per aggirare l’avversario: l’unica strategia era la carica contro il nemico seguito dallo scontro corpo a corpo.

    Il successo di Platea porterà una grande notorietà a Pausania tanto che l’anno dopo andrà a sostituire re Leotichide al comando della flotta panellenica, con cui riuscirà a liberare numerose colonie greche della costa anatolica, fino a strappare al nemico l’isola di Cipro.

    Proprio questi successi saranno l’inizio della fine per il reggente spartano. Il grande potere acquisito a spese dei persiani gli aveva fatto dimenticare i precetti patrii, portando Pausania ad arricchirsi e condurre una condotta simile a un satrapo persiano piuttosto che a quella di un generale di Sparta. Presto verrà accusato di imbrogli a discapito di privati cittadini. Richiamato in patria verrà velocemente processato e assolto dalle accuse più gravi ma ormai il danno politico era fatto, visto che gli ateniesi si rifiutarono di accogliere un nuovo comandante lacedemone per la flotta alleata, preferendo per tale ruolo lo stratega ateniese Cimone. Si sanciva così il primato della città di Atene oltre a una rottura tra le due pòleis sempre più profonda, che alla fine porterà alla guerra.

    Pausania, caduto in disgrazia, non volle rassegnarsi a un ruolo da comprimario e preferì perseguire la guerra contro la Persia sebbene nel ruolo di privato cittadino. Tornerà così nell’Ellesponto dove conquisterà l’importante città di Bisanzio, località subito occupata da Cimone con cui Pausania si era messo in urto. Era il 471 a.C. quando cercò d’installarsi nella Troade a dispetto dei voleri di Sparta.

    Nuove accuse mosse dagli alleati greci costrinsero l’ex reggente a rimpatriare per essere sottoposto a un nuovo processo per tradimento. Scagionato una prima volta, successive indagini portarono alla scoperta di un carteggio con l’acerrimo nemico, il Gran Re di Persia. Condannato a morte, Pausania cercò di sfuggire rifugiandosi nel tempio di Atena che, come tutti i luoghi sacri, era inviolabile. Gli spartani, a questo punto, aggirarono le prescrizioni religiose e murarono vivo all’interno del tempio il malcapitato trionfatore di Platea, portandolo a una lenta morte di fame e sete nell’anno 468 a.C.

    Stessa sorte toccò a molti eroi delle guerre persiane, da Milziade a Temistocle, tutti condannati dalla loro patria, forse per paura di una esagerata popolarità che avrebbe potuto indurli a una scalata al potere tirannico, spauracchio di tutte le città greche, democratiche e oligarchiche. Oggi la storiografia moderna ha rivalutato le accuse mosse contro Pausania sulla scorta di quanto riportato dallo storico Tucidide, il quale era convinto che si sia trattato di un complotto ordito contro un personaggio scomodo a molti.

    Va notato che i successivi agiadi manterranno un ricordo positivo di Pausania, considerato, a ragione, come il salvatore dell’Ellade a Platea e vendicatore del valoroso Leonida.

    Gli opposti eserciti

    Persiani

    Medi e persiani erano popoli di origine indoeuropea che a cavallo del 1000 a.C. erano giunti dalle steppe dell’Asia centrale nell’attuale Iran. Il significato stesso della parola Iran, «terra degli ariani», si deve alla loro migrazione. Erano strettamente imparentati con gli Sciti e i Sarmati con cui condividevano lo stesso dialetto iranico, oltre a essere lontani cugini dei loro acerrimi nemici greci.

    Cavalieri provetti come tutti i popoli provenienti dalle steppe, troveranno nell’Iran meridionale un’area particolarmente adatta per l’allevamento dei cavalli, stabilendosi permanentemente tra i monti Zagros e i deserti della Gedrosia. Qui costruiranno la città di Pasargarde e, successivamente, Persepoli. Sarà proprio grazie all’uso massiccio della cavalleria che Ciro il Grande riuscirà a sottomettere antiche e combattive civiltà come gli assiro-babilonesi fondando l’impero achemenide.

    I nobili persiani e medi erano reclutati nella cavalleria, l’arma tenuta più in considerazione. La guardia dei 10.000 immortali ricopriva un ruolo di assoluto prestigio nell’armata anche se era composta esclusivamente da fanteria. Gli immortali erano così chiamati perché le perdite erano immediatamente rimpiazzate da altrettanti soldati, mantenendo così inalterato il numero dell’unità. Lo spirito di corpo era molto alto, venendo accettati solo cittadini di stirpe persiana o meda che erano chiamati «compagni», Anusiya nella loro lingua.

    L’esercito imperiale era poi diviso nelle varie etnie che erano inquadrate e combattevano secondo la propria tradizione. Erodoto cita ben 47 etnie diverse impegnate nell’invasione della Grecia; arabi, egiziani, indiani e, persino, etiopi, tutti al comando di ufficiali di stirpe iranica, persiani, medi e forse ircani. Questo rendeva l’esercito imperiale molto eterogeneo e difficile da gestire se consideriamo che gli uomini che ne facevano parte provenivano da luoghi con tradizioni e culture completamente diverse. Se per persiani e medi si trattava d’ingrandire l’impero achemenide, con la possibilità per ognuno di loro di ottenere gloria e prestigio, oltre che incarichi di comando, per i combattenti loro sottoposti era difficile trovare un morale altrettanto ispirato. Spesso si trattava di uomini provenienti da nazioni sottomesse malvolentieri ai persiani, come per gli egizi; nella migliore delle ipotesi erano soldati alla ricerca di bottino e di un facile arricchimento personale, quando non costretti a servire lontano dalla patria con la forza. Per le città greche, come Tebe, alla base della scelta di servire nell’armata persiana c’era la normale rivalità con le altre pòleis, una costante in tutta la storia greca.

    L’armata achemenide che si presentò a Platea non aveva più le dimensioni di quella giunta l’anno prima in Europa: rimaneva però smisurata, tale da non conoscerne le reali proporzioni. Per Erodoto si trattava di circa 300.000 imperiali a cui si aggiungevano 50.000 alleati greci; per gli storici moderni la cifra andrebbe ridimensionata a 120.000 persiani e alleati, in maggioranza fanteria, con gli opliti greci che si avvicinavano al numero indicato da Erodoto.

    Un punto di forza dell’esercito persiano era l’organizzazione e la logistica che permetteva lunghe campagne militari in terre lontane, cosa indispensabile per un impero tanto vasto. In questo erano aiutati dall’uso della cavalleria e di trasporti ippotrainati che viaggiavano sull’importante rete stradale realizzata sin dai tempi di Ciro, grazie alle maestranze specializzate reclutate tra le popolazioni più sviluppate tecnologicamente come gli egizi o gli assiri, quest’ultimi inoltre maestri nell’arte degli assedi.

    Al pari della provenienza dei soldati, anche l’armamento era eterogeneo: si andava dagli arabi che combattevano seminudi ai greci che lottavano, seguendo la tattica oplitica, corazzati di tutto punto. A loro si aggiungevano i coloratissimi mercenari frigi del nord dell’Asia minore, protetti da elmo e un’armatura in cuoio con rinforzi metallici a coprire attillati vestiti in lana dai colori variegati, dotati poi di un leggero scudo a forma di mezzaluna che gli facilitava un combattimento ravvicinato contro la cavalleria avversaria che contrastavano con la tipica ascia bipenne.

    Persiani e medi erano dotati di un equipaggiamento leggero, privo di armature o protezioni per il corpo essendo essenzialmente arcieri. Anche la loro fanteria di linea era armata di una corta lancia e di uno scudo leggero; indossava un copricapo in feltro o un turbante o, ancora, un ampio cappuccio che poteva nascondere il viso; i porta insegne erano dotati di un tradizionale copricapo in pelle di lupo. Gli immortali erano tutti equipaggiati con arco e frecce conservate in una faretra e di una lancia. Le loro vesti erano ampie e colorate. Una corta spada, atta a colpire di punta, era solitamente appannaggio degli ufficiali che potevano indossare un giubbotto imbottito come protezione. Alcuni cavalieri persiani potevano, occasionalmente, essere equipaggiati con armature di lino pressato con l’aggiunta di spalline metalliche. Elaborati e decorati elmi in bronzo, in stile frigio, erano utilizzati da questi cavalieri armati di giavellotti, le cui cavalcature erano agili e robuste. Gli armati delle altre nazioni seguivano il loro aspetto tradizionale come i cavalieri sciti, prevalentemente arcieri a cavallo a quel tempo privi di ogni protezione difensiva.

    Tra i persiani più pesantemente equipaggiati vi erano gli sparabara che con i loro ampi scudi di vimini avevano il compito di proteggere il tiro dei propri arcieri, soldati che usavano anche una corazza di lino pressato. Questi uomini facevano parte di una classe sociale di agricoltori addestrati, fin da piccoli, all’uso delle armi.

    Per i persiani il numero era forza: con esso cercavano di scoraggiare eventuali reazioni dell’avversario mentre la tattica era affidata alla manovra che prevedeva l’avvolgimento della fronte avversaria utilizzando principalmente le armi da getto con combattimenti che si dovevano svolgere in maniera fluida e, il più delle volte, a distanza, con la cavalleria intenta a bersagliare con armi da getto il nemico per poi approfittare di ogni cedimento e quindi incalzarlo e annientarlo definitivamente.

    Merito di Mardonio fu certo quello di mantenere unite le variegate compagini della sua armata, dove le incomprensioni linguistiche sottolineavano la distanza tra popoli di tradizioni e cultura spesso agli antipodi.

    Greci

    Tra l’viii e il vii secolo a.C. i greci svilupparono un modo peculiare di fare la guerra che prevedeva lo scontro di formazioni di fanteria in ordine chiuso in cui i guerrieri si riparavano dietro un ampio e pesante scudo rotondo a doppia impugnatura in legno foderato di cuoio, a volte rivestito di una sottile lamina di bronzo, detto hôplon, da cui il termine oplita. Lo scudo era l’elemento cardine di questo modo di combattere poiché, più che difendere il singolo soldato, era al servizio di tutta la formazione dato che veniva appoggiato sulla spalla sinistra del soldato in modo da difendere anche il lato destro del guerriero al fianco. Era nata così la falange (rullo) in cui l’allineamento degli scudi parzialmente sovrapposti rendeva queste linee di fanteria serrate tra loro, impenetrabili all’azione nemica. Gli opliti si allineavano su otto file compatte con i guerrieri migliori e più esperti nelle prime e ultime linee, i meno esperti al centro dello schieramento con il compito di spingere i compagni davanti a loro nel momento del cozzo. L’arma principale era una lunga lancia che veniva impiegata sottomano in resta, cercando di rompere gli scudi avversari, o dall’alto verso il basso sopra la spalla, cercando di colpire la parte superiore del nemico non protetta dallo scudo. La lancia, una volta rotta, poteva ancora essere usata sia dalla punta che dalla parte opposta, anch’essa dotata di una piccola punta detta «ammazza lucertole». Nello scontro corpo a corpo che seguiva era utile anche una corta spada detta xiphos che permetteva di colpire l’avversario a distanza ravvicinata, diversamente da una spada lunga che sarebbe stata totalmente inefficace da brandire in una mischia stretta dove l’oplita era schiacciato da una parte dal nemico e, alle spalle, dai propri compagni che lo spingevano sempre più avanti. L’intento era aprire una breccia nello schieramento avversario dove, a quel punto, si sarebbe potuto agevolmente colpire ai fianchi l’impacciato nemico con la corta spada.

    Questo modo di combattere era molto schematico e ritualizzato. Non servivano doti particolari o un addestramento specifico: bastava marciare in formazione verso il nemico con coraggio. Ogni oplita sapeva quale fosse il suo posto nella falange, vicino a parenti e amici, in una prassi che si ripeteva ogni estate in ogni campagna militare.

    Il combattimento oplitico aveva il merito di risolvere in breve tempo e in modo risolutivo le contese con perdite umane abbastanza contenute visto che non si prefiggeva l’annientamento dell’avversario ma solo la sua sconfitta sancita dalla realizzazione di un trofeo sul campo di battaglia costituito dalle armi strappate ai caduti nemici. Un altro vantaggio riguardava l’esclusione dei civili dai patimenti della guerra, visto che tutto si risolveva su un ristretto campo di battaglia, spesso scelto tra i due contendenti. Erano privilegiati i terreni pianeggianti e liberi da ostacoli dove gli opliti potevano scontrarsi liberamente. Il desiderio di risparmiare sofferenze ai civili e risolvere la contesa in modo rapido e codificato era possibile all’interno dello stesso popolo che si riconosceva nella stessa cultura ellenica, pur nelle particolarità cittadine e nelle differenze di stirpi tra ioni, dori, eoli e achei.

    La guerra nel mondo greco di allora non era per tutti. Partecipare allo scontro oplitico era costoso: solo chi poteva permettersi di comprare una panoplia adeguata poteva far parte di una formazione militare dove tutti dovevano avere lo stesso equipaggiamento costituito da una corazza anatomica a protezione del busto detta thorax che poteva essere in bronzo o, più leggera, in lino pressato, mentre l’elmo era chiuso, normalmente di fattura corinzia, realizzato in bronzo o, più raramente, in ferro, spesso con decorazioni; si aggiungevano inoltre schinieri di bronzo a protezione delle gambe. L’elmo chiuso non permetteva di farsi una idea precisa del campo di battaglia, essendo la visuale e l’udito ridotti; ma questo era ininfluente in questo tipo di tattica che privilegiava la protezione al capo, dato che non vi era necessità di sapere quello che succedeva ai lati e l’andamento della battaglia veniva comunicato con la pressione dei corpi che spingevano in una data direzione: se la pressione alle spalle diminuiva significava che si era verificato uno scollamento e la propria formazione si stava disgregando. Lo scudo era decorato con motivi araldici personali o della famiglia del soldato, spesso animali totemici come la civetta, simbolo di Atena, o motivi geometrici come la svastica legata al dio Apollo. L’uso delle lettere con l’iniziale della propria città-Stato, come il lambda per i lacedemoni, si sarebbe diffuso solo a partire dalla seconda metà del v secolo a.C.

    Il costo della panoplia poteva essere affrontato dai nobili, dai numerosi proprietari terrieri, dai mercanti e da artigiani, tutte persone con pieni diritti politici all’interno della loro pòlis. La cavalleria come anche le classi più povere erano escluse dalla guerra oplitica: solo il confronto con le variegate formazioni persiane porterà all’utilizzo di fanteria leggera, i peltasti, dotati di giavellotti e di un leggero scudo. Questi faranno la loro prima apparizione nella battaglia di Platea, dove gli spartani utilizzeranno in questo ruolo la classe servile degli iloti.

    Se la guerra oplitica non necessitava di particolare addestramento richiedeva però un considerevole coraggio dato che lo scontro avveniva in maniera diretta senza alcuna preparazione, come il tiro di giavellotti o di frecce, sottoponendo gli uomini a un repentino scontro corpo a corpo. Questi uomini erano persone comuni con interessi personali tra i più variegati, anche se accomunati da un forte spirito di appartenenza alla propria patria: solo una piccola parte di loro era composta da soldati professionisti. Le varie pòleis erano dotate infatti di un piccolo reparto, di solito 300 uomini, appartenenti a una guardia scelta in servizio permanente. Un caso a parte era la città di Sparta dove i lacedemoni, discendenti dalle popolazioni doriche che conquistarono il Peloponneso nell’xi secolo a.C., erano soldati professionisti, senza altra occupazione che la guerra. Fin da piccoli i giovani spartiati erano sottoposti a una rigida educazione marziale detta agogè, dove venivano educati all’uso delle armi e, soprattutto, alla disciplina. A occuparsi dell’economia interna erano gli iloti, gli achei sottomessi dai dori, residenti in particolare nella Messenia, regione a ovest del Peloponneso: gli unici a guadagnarci da un’eventuale invasione persiana. Fu proprio nelle guerre sostenute per sottomettere la Messenia, nel vii secolo prima della nostra era, che gli spartani ottennero la loro fama di guerrieri invincibili, confermando la loro egemonia sul Peloponneso nella seconda metà del vi secolo con la vittoria sulla città dorica di Argo, adottando da questi nemici la caratteristica pettinatura a trecce. Gli iloti avevano anche il compito di assistere i soldati spartani impegnati nella campagna militare: a Platea ogni oplita spartiata era servito da sette attendenti iloti. Senza diritti politici erano i perieci, classe di semiliberi che si occupava dell’artigianato e dei commerci. Gli spartiati praticavano una endogamia spinta a preservare la loro stirpe e, nel contempo, aumentare lo spirito di corpo di tutta la popolazione spartiata impegnata in una costante mobilitazione di massa dove ogni uomo era un guerriero sottomesso alle dure leggi del mitico legislatore Licurgo che regolavano da secoli la vita dei lacedemoni. L’endogamia sarà, alla fine, un problema che causerà un vistoso calo demografico al limite dell’estinzione degli spartiati che nel iii secolo arriveranno a contare solo 700 cittadini.

    A Platea, la città di Sparta impiegherà comunque il contingente più numeroso, ben 10.000 uomini dei quali 5000 spartiati e 5000 perieci, seguiti dalle altre città alleate: Atene con 8000 opliti comandati da Aristide, Corinto con 5000 opliti, Megara con 3000, Sicione con 3000, Tegea 1500, Trezene 1.000, Fliunte 1.000, Epidauro 800, Leucade e Anattorio 800, Orcomeno 600, Eretria e Styra 600, Platea stessa con 600 opliti, Ambracia 500, Egina 500, Calcide 400, Micene e Tirinto 400, Ermione 300, Potidea 300, Cefalonia 200 infine Leprea forte di 200 uomini. Questo secondo il calcolo fatto da Erodoto nel suo libro (Storie, ix, 28-29), per un totale di 38.700 opliti, a cui si aggiungevano un elevato numero di soldati o servitori armati alla leggera, 69.500 uomini secondo Erodoto, la maggior parte iloti. Tra questi uomini armati alla leggera figuravano 800 arcieri ateniesi, unici preziosi arcieri presenti nello schieramento greco. In totale si trattava di circa 110.000 uomini. Questa cifra viene ritenuta attendibile per quanto riguarda gli opliti, meno per il numero delle truppe ausiliarie il cui contributo alla battaglia rimane comunque molto scarso.

    Tutti i greci impiegati a Platea avevano comunque bene in mente che combattevano per la sopravvivenza delle loro libertà politiche che affidarono alla loro tattica oplitica ben riassunta nelle parole del poeta spartano Tirteo:

    Resista ognuno ben piantato sulle gambe al suolo,

    mordendosi le labbra con i denti,

    nascondendo le cosce, gli stinchi, il petto e gli omeri

    entro la pancia d’uno scudo immenso;

    l’asta possente stringa nella destra e l’agiti,

    muova tremendo sul capo il cimiero³.

    Questo modo particolare di combattere darà un’impronta indelebile alla tradizione dell’arte della guerra nel mondo occidentale, influenzandone gli eserciti fino ai giorni nostri e sarà essenziale per la vittoria contro i persiani in tutte le guerre combattute contro di essi.

    Le opposte strategie

    Mentre Mardonio era intento a svernare con il suo esercito in Tessaglia e nel nord della Grecia, gli alleati discutevano animatamente sulla strategia da adottare per l’inizio della campagna dell’anno successivo. I peloponnesiaci erano determinati a resistere sul vallo fortificato costruito sull’istmo di Corinto: la mancanza di una flotta da parte persiana impediva a quest’ultimi di intraprendere operazioni anfibie sulla costa del Peloponneso, costringendoli a passare dall’istmo che ne avrebbe vanificato la superiorità numerica, riproponendo una situazione simile a quanto avvenne alle Termopili; questa volta però senza la possibilità di aggirare gli opliti e prenderli alle spalle. Da qui si capisce la riluttanza spartana di arrischiare una battaglia nel nord della Grecia per difendere l’Attica e Atene, da poco rioccupata dai suoi cittadini. Per risolvere l’impasse i greci decisero di puntare sulla flotta alla ricerca di una nuova vittoria navale inviando le navi alleate, al comando di Leotichida, alla caccia del naviglio nemico superstite dalla disfatta dell’anno precedente.

    Mardonio ormai si considerava il satrapo della Grecia occupata ma difficilmente avrebbe potuto mantenere il suo numeroso ed eterogeneo esercito nella zona d’impiego, un eventuale congedo delle sue forze avrebbe portato all’offensiva degli alleati greci, provocando forse la sollevazione delle città greche a lui fedeli. Consapevole che l’istmo era inattaccabile cercò di dividere la coalizione nemica intavolando trattative con gli ateniesi. Tramite il re di Macedonia Alessandro i il persiano cercò di blandire gli ateniesi con una proposta di pace vantaggiosa e offerte di territori. Gli ateniesi furono però corretti invitando alle trattative anche i loro alleati spartani e, alla fine, declinarono le offerte. Questo comportamento leale colpì gli spartani che li rese propensi a una strategia meno egoista, facendoli valutare il problema dell’Attica.

    Problema che si riproponeva in termini drammatici perché Mardonio, per far pressioni sugli ateniesi impegnati nelle vuote trattative con Alessandro, aveva deciso di tornare a invadere la regione e occupare di nuovo Atene. Lungo la sua marcia verso sud venne anche consigliato dai tebani di comprare l’amicizia degli ateniesi corrompendone i personaggi più illustri in modo da staccare la città greca dalla coalizione antipersiana. Mardonio non ascoltò il suggerimento e nel giugno del 479 a.C. le armate persiane tornarono a occupare una Atene di nuovo deserta, abbandonata dai suoi abitanti che si erano di nuovo rifugiati presso Salamina, difesa da uno stretto di mare invalicabile al nemico.

    A questo punto emissari di Atene e delle città di Megara e Platea si presentarono a Sparta chiedendo un immediato intervento contro i persiani in Beozia. Tanto per cambiare gli spartani si trovarono intenti a onorare una loro festività che li portava a evitare ogni attività bellica, come già accaduto quando gli ateniesi chiesero aiuto prima della battaglia di Maratona e prima delle Termopili, occasione in cui impiegarono solo un loro piccolo contingente. Questa volta però gli emissari ateniesi, dopo aver rimproverato gli alleati di aver lasciato invadere l’Attica dai barbari, minacciarono di accettare le proposte fatte da Mardonio di cui gli spartani erano ben al corrente.

    A queste minacce gli efori (i sorveglianti), la più alta magistratura di Sparta, presero tempo posticipando la loro decisione di qualche giorno. Per alcuni spartani il completamento del muro sull’istmo rendeva ininfluente l’alleanza con Atene, la possibilità però che la flotta ateniese potesse passare dalla parte dei barbari portò presto alla decisione di affrontare il nemico sul suolo di Beozia abbandonando la relativa sicurezza del Peloponneso.

    In questo caso una sconfitta avrebbe potuto rappresentare la perdita del Peloponneso e, con esso, le basi della flotta navale che tanto successo stava ottenendo sui mari, compromettendo l’esito di tutta la guerra che fino a quel momento era stata favorevole agli elleni. Venne così affidato il comando a Pausania che, radunate le truppe alleate, si mise in marcia per affrontare il nemico in una battaglia decisiva.

    Alla notizia della mobilitazione degli alleati, Mardonio interruppe la devastazione dell’Attica per ritirarsi verso la Beozia, non prima di aver completato la distruzione di Atene. Mardonio aveva ora la possibilità di scegliere il terreno più favorevole per affrontare la battaglia che, nelle sue intenzioni, doveva essere di logoramento, in modo da estenuare le truppe nemiche, più consono così alla maniera di fare la guerra dei persiani.

    Mardonio costruì un campo fortificato sulla sponda nord del fiume Asopo nei pressi di Platea, il cui abitato si trovava sulla sponda meridionale del fiume, separato da un’ampia pianura, dove i persiani pensavano di sfruttare al meglio l’azione della loro cavalleria. Su quella posizione si radunarono anche i greci che parteggiavano per i persiani, tra essi 1000 opliti focesi guidati dal loro generale Armocida. Questi furono, per finta, attaccati dalla cavalleria persiana che li volle mettere alla prova. Così narra l’episodio Erodoto:

    Allora il generale Armocida incitò con queste parole: «Focesi, è chiaro che questa gente vuol darci apertamente morte, perché i tessali, suppongo ci hanno calunniati. Ora bisogna che esa e difendendoci, anziché, inerti, lasciarci, con nostra infamia, uccidere. Si renda conto ogni aggressore che hanno tramato la morte di Elleni, non essendo che barbari»⁴.

    La cavalleria persiana, vedendo questi opliti in formazione serrata, si ritirò chiudendo l’incidente.

    L’armata greca, arrivando nei pressi di Platea, decise di accamparsi su una posizione sopraelevata sulle pendici del monte Citerone, con lo schieramento che raggiungeva il piccolo abitato di Isie, zona dalla quale potevano dominare i movimenti del nemico.

    Mardonio, lungi dal voler rischiare un attacco diretto contro gli avamposti nemici, mantenne una posizione attendista cercando ancora di dividere i greci con trame infruttuose che infine lo costrinsero a prendere l’iniziativa. L’obiettivo era quello di attirare i greci verso la pianura dove la sua cavalleria meglio avrebbe potuto manovrare. Con questa idea Mardonio volle lanciare la sua cavalleria in finte cariche verso le linee greche schierate alle pendici del monte; successivamente, con finte ritirate, volle tentare di farsi inseguire dagli opliti avversari verso la pianura. Con questa mossa persiana iniziò, nel caldo agosto del 479 a.C., la battaglia decisiva per le sorti della Grecia e dell’Occidente.

    La battaglia

    Tutta la cavalleria persiana fu lanciata all’assalto della falange greca. Al comando del persiano Mastisio, i cavalieri, una volta giunti presso il nemico, scagliarono i loro dardi per poi ritirarsi cercando di farsi inseguire. Questa manovra venne ripetuta squadrone dopo squadrone, susseguendosi l’un l’altro, ingiuriando i greci che erano chiamati femmine, senza che quest’ultimi, fermi nelle loro posizioni, potessero reagire. A soffrire di più di questi attacchi furono i megaresi che chiesero a Pausania d’intervenire in loro soccorso. A questa richiesta rispose una compagnia scelta di 300 opliti ateniesi che portò con sé gli arcieri per rispondere al tiro nemico. Il duello con armi da lancio durò a lungo fino a quando il cavallo di Mastisio venne colpito da una freccia. Il cavaliere disarcionato venne presto raggiunto dagli opliti ateniesi che cercarono di ucciderlo mentre questi si difendeva grazie anche a una corazza a squame d’oro posta sotto le vesti che respingeva i colpi delle lance nemiche. Accortosi della protezione, un soldato ateniese colpì Mastisio in un occhio uccidendolo. I cavalieri persiani, visto il loro comandante caduto, vollero tentare di riprendersi il corpo, accendendo una feroce mischia intorno al cadavere. In un primo momento gli ateniesi si trovarono in svantaggio numerico fino a quando non vennero soccorsi dal grosso dell’esercito greco che riuscì a strappare le spoglie del generale persiano ai suoi cavalieri che, avendo subito gravi perdite, si ritireranno sconfitti a nord del fiume Asopo presso Mardonio.

    Il morale dei greci si giovò di questa prima vittoria, tanto che decisero di scendere verso la pianura per portarsi davanti alla città di Platea, in una zona più facile per l’approvvigionamento delle truppe, oltre che più ricca d’acqua grazie allo stesso fiume Asopo e alla fonte d’acqua detta Gargafia che poteva dissetare l’armata greca, al contrario della posizione elevata, ottima dal punto di vista strategico ma priva di rifornimenti idrici.

    Nel corso del riposizionamento vi furono alcuni attriti tra gli alleati per chi dovesse occupare l’ala sinistra dello schieramento, considerata una posizione di maggior prestigio rispetto al centro. L’ala destra era affare degli spartani: nella guerra oplitica essa rappresentava la collocazione riservata alle truppe migliori e ai comandanti, visto che da quel punto si cercava di sopravanzare l’ala dello schieramento oplitico avversario. Dopo la discussione sulle rispettive glorie passate si decise che sarebbero stati gli ateniesi a occupare l’ala sinistra, mentre il resto dei greci avrebbe occupato il centro.

    Mardonio era alla fine riuscito a portare il nemico dove voleva, in pianura, ma, anche ora, era riluttante ad attaccare le falangi greche rimanendo con la sua armata sull’altra sponda dell’Asopo in quel periodo in secca per la stagione calda. Per otto lunghi giorni le forze nemiche si fronteggiarono senza intraprendere offensive, salvo alcune azioni di disturbo della cavalleria, soprattutto tebana che dalla sponda nord del fiume provocava gli ateniesi con i giavellotti senza però venire a un contatto diretto.

    L’ottavo giorno Mardonio inviò un contingente della sua cavalleria alle spalle dei greci, verso il passo di Driocefale che collegava l’armata greca alla base dei rifornimenti. Qui i persiani intercettarono un convoglio di approvvigionamenti composto da 500 bestie da soma che furono uccise insieme agli uomini di scorta.

    Nel campo di Mardonio intanto si discuteva su come risolvere la situazione di stallo. Il comandante persiano Artabazo era favorevole a seguire il consiglio dei tebani di ritirarsi verso la città di Tebe, ricca di rifornimenti e, da lì, proseguire una guerra d’attrito, cercando di dividere la compagine greca sfruttando le loro incomprensioni. Mardonio era invece desideroso di risolvere la partita una volta per tutte, decidendo così di continuare le incursioni alle spalle dei greci con l’intento d’interrompere ogni collegamento con le loro basi di approvvigionamento, cosa che avvenne per altri due giorni. Il terzo giorno, Mardonio decise di aumentare la pressione della sua cavalleria con un attacco generalizzato. I greci vennero bersagliati dalle armi da lancio nemiche senza avere la possibilità di agguantare i veloci cavalieri nemici i quali riuscirono a raggiungere la fonte Gargafia ostruendola, in modo tale da renderla inservibile.

    Questa situazione rendeva l’approvvigionamento d’acqua precario visto che anche il fiume Asopo era inutilizzabile a causa degli arcieri a cavallo che colpivano chiunque si avvicinava alle sue sponde.

    A questo punto le truppe di Pausania si trovarono a corto d’acqua e di cibo. Decisero così che l’unica soluzione era quella di ritirarsi sulle più sicure posizioni a sud, in direzione di Platea. Per evitare le molestie della cavalleria nemica si decise di compiere questo difficile movimento con l’oscurità. Ora, la ritirata davanti al nemico di notte è certo una delle manovre più pericolose: i greci vollero, però, complicare di molto le cose.

    I primi a creare problemi furono gli spartani. Amonfareto, al comando di un reparto di lacedemoni, si rifiutò di ritirarsi di fronte al nemico, considerando preferibile per uno spartano la morte piuttosto che una simile onta. Pausania cercò di convincerlo, tenendo, però, in questo modo, bloccato tutto l’esercito spartano sulle posizioni di partenza. Non solo. Gli stessi ateniesi, non fidandosi del tutto degli spartani, rimandarono la loro partenza, aumentando ancor di più la confusione nelle schiere alleate. La discussione tra Amonfareto e Pausania si protrasse fino all’alba che sorprese i due comandanti spartani intenti a lanciarsi reciproche accuse e ingiurie. Alla fine Pausania decise di compiere la progettata ritirata e abbandonare Amonfareto e i suoi nella convinzione che questi seguissero in un secondo tempo, cosa che in effetti avvenne dando modo allo spartano di distinguersi nel corso della successiva battaglia a difesa della retroguardia lacedemone.

    Oltre a questi problemi anche il ridispiegamento dell’armata greca avvenne in modo confuso, con gli spartani che si troveranno isolati sulle pendici del monte Citerone, mentre gli ateniesi si ritireranno direttamente su Platea, con il resto degli alleati più indietro, all’ingresso del passo di Driocefale.

    Allo spuntar dell’alba, Mardonio venne a sapere che i greci avevano abbandonato le loro posizioni e che la ritirata degli opliti nemici era in pieno svolgimento. Il generale si rese conto che il fronte avversario non era più compatto ma che la loro ritirata offriva la possibilità di colpire l’avversario alle spalle in un momento delicato.

    A questo punto i persiani lanciarono l’attacco con tutte le loro forze contro un nemico che credevano in rotta. Facilmente attraversato l’Asopo il grosso dell’esercito persiano, guidato personalmente da Mardonio, si gettò contro la compagine degli spartani e dei loro alleati tegeati che si trovavano bene in vista sulle pendici della montagna. Pausania si trovò così ad affrontare una gran massa di nemici con a disposizione solo una parte del suo esercito. Trovandosi in difficoltà inviò agli ateniesi un araldo per chiedere soccorso, senonché anche gli ateniesi si trovavano duramente impegnati, davanti a Platea, contro i greci alleati dei persiani, affrontando in particolare la falange tebana.

    La fanteria persiana, una volta piantati a terra i loro grandi scudi di vimini, bersagliava ininterrottamente di frecce la falange degli spartani e dei tegeati fermi sulle loro posizioni. A complicare le cose fu l’immobilismo di Pausania che, sotto le frecce, interrogava i vaticini dei sacrifici che risultavano sfavorevoli a un eventuale attacco. Anche se gli dèi non erano propizi, a un certo punto i tegeati decisero di avanzare verso i barbari. Forse questa mossa soddisfò i Numi che finalmente diedero esito favorevole a un sacrificio, permettendo anche ai devoti spartani di lanciare la loro offensiva che si abbatté come un maglio sulle linee avversarie. I persiani, lasciati gli archi, si prepararono allo scontro ravvicinato che così descrive Erodoto:

    Ci fu dapprima un combattimento presso l’argine degli scudi. Esso fu rovesciato, e allora la battaglia si fece ormai accanita proprio presso il santuario di Demetra; e durò a lungo, finché si venne a un corpo a corpo; perché i barbari afferravano e spezzavano le lance degli opliti.

    Giacché i persiani non erano, per coraggio e robustezza, inferiori. Ma essendo armati alla leggera, e sprovvisti inoltre di scienza militare, e impari agli avversari per abilità, assalivano gli spartiati avventandosi fuori delle linee a uno a uno o a dieci a dieci o formando gruppi più o meno numerosi, e venivano distrutti⁵.

    In questo frangente si distinse l’unico sopravvissuto spartano delle Termopili, Aristodemo, che, in quell’occasione, era stato rimandato in patria per un’infezione agli occhi che gli impediva di combattere. Questo bastò per essere accusato di codardia e bandito per un anno da Sparta. Volendo rimediare a quest’onta Aristodemo cercò, riuscendoci, una morte eroica in battaglia uscendo da solo dalle proprie schiere, infrangendo però, in questo modo, la rigida disciplina di gruppo della falange.

    Lo scontro si svolgeva ormai a distanza ravvicinata con i greci che combattevano con le loro corte spade e i persiani che venivano incitati dal loro comandante Mardonio che, su un cavallo bianco, era circondato da una guardia di 1000 persiani scelti che combattevano ferocemente. A questo punto accadde il fatto risolutivo della battaglia che vide Mardonio colpito a morte al capo da una pietra lanciata da un oplita spartano. Alla vista del loro comandante ucciso i persiani si disanimarono, perdendo presto coesione per poi ritirarsi verso il loro accampamento fortificato.

    Sul fianco sinistro greco i beoti continueranno a battersi a lungo contro gli ateniesi, unici tra i greci alleati dei persiani a impegnarsi seriamente in questa battaglia, tanto che i soli tebani ebbero 300 caduti tra i loro opliti prima di abbandonare anch’essi il campo di battaglia, fuggendo verso la città di Tebe. La morte di Mardonio aveva portato i persiani a fuggire seguiti da tutti i loro numerosi alleati, molti dei quali non avevano ancora combattuto, inseguiti da vicino dai greci. In quell’occasione gli opliti del centro dello schieramento greco, megaresi e focesi, lanciatisi in modo scoordinato all’inseguimento del nemico in fuga, vennero controcaricati dalla cavalleria tebana che li colse completamente impreparati, cosicché i tebani misero rapidamente in fuga gli opliti nemici uccidendone ben 600.

    La battaglia non si era però ancora conclusa. I persiani si erano asserragliati nel loro campo fortificato difendendosi dagli spartani che, in numero inferiore, non erano abituati ad assalire le palizzate nemiche in una guerra d’assedio. Solo l’arrivo degli ateniesi, seguiti dagli altri alleati, permetterà ai greci di abbattere le palizzate di legno che difendevano il campo avversario. Caduto il muro, gli opliti alleati sciamarono nell’accampamento nemico massacrando chiunque incontrassero. Intrappolati dal muro della loro stessa fortificazione i persiani non riuscirono più ad articolare una difesa organica venendo sterminati facilmente. In tutte le battaglie più sanguinose della storia è proprio questo il momento in cui si registrano le perdite maggiori, quando, perso ogni desiderio di combattere, si pensa solo a se stessi e a salvarsi la vita, senza tentare più una resistenza condivisa con altri soldati ormai in balìa del panico e facili prede dei vincitori assetati di sangue. Solo 3000 di questi persiani e dei loro alleati coinvolti in questa situazione vennero lasciati vivi. Al massacro sfuggì anche Artabazo con 40.000 uomini, dirigendosi verso nord, in Tessaglia.

    Conseguenze

    Platea fu certo la prima delle grandi carneficine della storia dove il numero dei caduti era sicuramente inusuale per le battaglie di quel periodo: questo a causa della durata della battaglia che si protrasse per giorni e, poi, per il numero dei partecipanti. Lo schieramento più numeroso, quello persiano, era uscito sconfitto, subendo il conseguente massacro da parte degli elleni vincitori.

    Per i greci il numero dei caduti varia a seconda delle fonti. Plutarco dà un valore di 1360 uomini, mentre altri storici dell’Antichità valutano una cifra indicativa di circa 10.000 uomini. In ogni caso le perdite maggiori toccarono alle forze persiane il cui numero di caduti varia dai 257.000 indicati in modo esagerato da Erodoto ai 100.000 secondo Diodoro Siculo, anche se probabilmente i caduti tra persiani e i loro alleati non dovette superare i 30.000, partendo da un esercito di circa 120.000 uomini e considerati i superstiti portati in salvo da Artabazo con la maggioranza dei greci loro alleati che, in gran parte, si ritirarono senza prendere parte ai combattimenti.

    La vittoria fu certo grande e, con quella di capo Micale, pose ufficialmente fine alla seconda guerra persiana. La guerra invero proseguì a lungo nella Grecia settentrionale, nel Chersoneso e in altri luoghi ma, questa volta, i persiani erano sempre sulla difensiva, tanto che persero, o rischiarono di perdere, alcuni loro territori, come Cipro e l’Egitto, quest’ultimo aiutato nella rivolta dagli ateniesi.

    I persiani, consci della superiorità militare dei greci, non tenteranno più di mettere piede in Grecia, accontentandosi d’influire nelle decisioni politiche delle città-Stato greche utilizzando il loro oro per mantenerle il più possibile divise e in guerra tra loro.

    Queste vittorie segneranno invece tutta la successiva storia greca. Gli ateniesi crearono la lega di Delo che radunava le principali città ioniche in funzione antipersiana, pericolo ormai inesistente, il cui spauracchio favoriva gli interessi di Atene in un classico opportunismo politico presente in tutti i tempi. Le divisioni che la talassocrazia ateniese genererà porteranno a future guerre all’interno del mondo greco e degli ex alleati, non meno sanguinose di quelle persiane.

    1 Storie, vi, 44.

    2 Ivi, vii, 9.

    3 Tirteo, Canti di guerra, frammenti, 8.21-26.

    4 Ivi, ix, 17.

    5 Ivi, ix, 62.

    La battaglia di Gaugamela (1° ottobre 331 a.C.)

    Io non ho paura di un esercito di leoni, se sono condotti da una pecora. Io temo un esercito di pecore, se sono condotte da un leone.

    Alessandro Magno

    Alessandro alla conquista dell’Oriente

    La continua e sterile lotta tra le città-Stato greche portò a una debolezza generalizzata degli elleni dove nessuno riusciva a ottenere la supremazia. Di questa debolezza pensò bene di approfittare Filippo ii di Macedonia, sovrano di un popolo di montanari balcanici di lingua e stirpe greca. I macedoni non avevano la cultura né le raffinate istituzioni politiche che caratterizzavano le complicate città elleniche, rimanendo affezionati all’antica istituzione monarchica sostenuta dall’atavica nobiltà terriera.

    Malgrado venissero considerati dai greci come dei semibarbari, i macedoni avevano studiato le innovazioni tattiche del tebano Epaminonda, vincitore degli spartani a Leuttra nel 371 a.C., sviluppando una nuova formazione di falange dotata di sarisse più lunghe del solito, tanto da essere tenute con due mani. Filippo ii si trovava in ostaggio a Tebe tra il 368 e il 365 a.C. dove apprenderà le nuove tecniche militari. Successivamente, porrà le basi per un rinnovamento del suo esercito. Lo rese uno strumento eccezionale con cui riuscirà a piegare, una volta per tutte, le riottose città greche coalizzate a Cheronea nel 338 a.C. Permise così ai macedoni di essere riconosciuti come la potenza egemone in Grecia, ereditandone anche, per simbiosi, il desiderio di vendetta sull’impero achemenide che risaliva alle guerre persiane. Per Filippo attaccare i persiani era anche una legittimazione davanti al mondo ellenico che mal sopportava un autocrate, per giunta anche straniero. Per questo il re macedone creerà la lega di Corinto in

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