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Code Black. Circondato
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E-book416 pagine5 ore

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Info su questo ebook

La vera storia dell’assedio che ha cambiato la guerra in Afghanistan

Intrappolato in un avamposto isolato ai margini del deserto nel distretto di Helmand, a sud dell’Afghanistan, uno sparuto drappello di soldati britannici e afghani sta coraggiosamente resistendo contro centinaia di combattenti talebani.
Il capitano Mark Evans, un giovane ufficiale britannico, è stato inviato a prendere il comando delle truppe afghane in quell’angolo di mondo che sembra dimenticato da Dio. In condizioni di assedio brutali, a corto di cibo e munizioni, sperimenta, insieme ai suoi uomini, l’orrore del combattimento. Mentre le vittime continuano a crescere di numero e i talebani hanno circondato le truppe britanniche, Evans si trova a fronteggiare una situazione ai limiti di ogni immaginazione. Tornato a casa, è ossessionato dai ricordi dell’Afghanistan. Non riesce a recuperare serenità, la vita prima del conflitto è perduta, e comincia a sbandare. Una storia avvincente di sopravvivenza e terrore, e sulle cicatrici indelebili che la guerra lascia dietro di sé.

Mark Evans, capitano delle Coldstream Guards dell’esercito inglese, fu a capo di una delle operazioni militari più incredibili del conflitto in Afghanistan. Questa è la sua storia.

Un racconto viscerale, sincero, profondo e autentico dalle parole di chi è stato all’inferno ed è riuscito a tornare.

Un grande successo in Inghilterra
Mark Evans
Capitano delle Coldstream Guards dell’esercito inglese, rimase soltanto sei mesi nel 2008 in Afghanistan, ma gli sono sembrati eterni. Al suo ritorno gli è stato diagnosticato un disturbo post traumatico da stress. A capo di una delle operazioni militari più incredibili del conflitto, è rimasto segnato da quella esperienza e ha voluto raccontare nei dettagli la sua storia.Andrew Sharples
è un giornalista inglese famoso per i suoi reportage di guerra.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2015
ISBN9788854187764
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    Anteprima del libro

    Code Black. Circondato - Mark Evans

    361

    Titolo originale: Code Black

    Copyright © Mark Evans and Andrew Sharples 2015

    Maps © Rodney Paull

    First published in the English language by Hodder & Stoughton Limited

    Traduzione dall’inglese di Daniele Ballarini

    Prima edizione ebook: novembre 2015

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8776-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Realizzazione: Luca Morandi

    Foto: © Contrasto

    Mark Evans

    con Andrew Sharples

    Code Black

    Circondato

    La vera storia dell’assedio che ha cambiato la guerra in Afghanistan

    Ai miei nonni e ai miei genitori, a mio fratello e a Saethryd, che sono una parte così tanto importante della mia vita.

    A Rory, Wilf e Nina, che saranno una parte meravigliosa del mio futuro.

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    Prologo

    Quando toccò a me andare in guerra in Afghanistan, sembrava che avessimo già perso. L’opinione pubblica britannica, stanca dopo gli anni di combattimento in Iraq, si dichiarava ormai contraria a qualsiasi operazione militare all’estero.

    I quotidiani dipingevano un quadro a tinte fosche: Le morti in Afghanistan superano in percentuale quelle in Vietnam, strillava un titolo; L’Afghanistan cade in mano ai talebani, deplorava un altro.

    Dal 2006, anno in cui le truppe britanniche erano arrivate nella provincia di Helmand, il numero di vittime era cresciuto continuamente. La dichiarazione di John Reid, il ministro della Difesa, secondo cui «se tutto va bene, ce ne andremo nell’arco di tre anni, e senza sparare un colpo», pareva ormai tragicamente ingenua.

    Poi, alla fine dell’estate 2008, a metà del mio turno afghano, un lampo di luce rischiarò le tenebre. Con un’azione audace, che coinvolse quattromila soldati, la

    XVI

    brigata d’assalto aerea riuscì a penetrare in un territorio controllato dai talebani per trasportare un’enorme turbina, destinata a essere utilizzata in una diga che avrebbe fornito elettricità a quasi due milioni di persone.

    La stampa si entusiasmò per l’impresa e annunciò che, dopotutto, era possibile fare progressi nell’Helmand, elogiando i soldati e definendoli eroi. Eppure, non tutti i dettagli dell’impresa finirono sui giornali. Per esempio, nessuno riferì che gli strateghi dell’eser­cito britannico avevano contemplato di perdere fino a trecento soldati per far transitare la turbina su alcuni dei campi più minati di tutto il Paese. Si scoprì che esisteva un percorso più sicuro solo pochi giorni prima dell’operazione, quando un soldato semplice domandò casualmente a un contadino locale se conoscesse un’altra strada per giungere alla diga.

    E i giornali non diedero nemmeno notizia del fatto che l’operazione era quasi stata annullata, perché si era rotta la gru che doveva sollevare la turbina da duecentoventi tonnellate e posarla su un rimorchio. A salvare la missione fu il fratello di un comandante della polizia locale, che si offrì di prestare la sua gru, servizio per il quale fece pagare al nostro esercito parecchie migliaia di dollari.

    Sono questi i particolari di cui si compone qualunque operazione bellica su larga scala, e che fanno in modo che la guerra non diventi una farsa. Alla fine, questi inconvenienti vennero superati, e si completò la missione, ma la lezione è stata chiara: quando si tratta dell’Afghanistan, ciò che si legge sulla stampa non è quasi mai tutta la storia.

    La guerra reale che si combatté nell’Helmand durante quell’esta­te non giunse sotto i riflettori dei media. La verità è molto più dura e le cose non sono finite affatto bene. Non c’è stata nessuna grande vittoria, nessun ritorno a casa in trionfo. I soldati che furono coinvolti nei combattimenti sono gli unici a sapere ciò che accadde davvero.

    Io ero uno di loro.

    Capitolo 1

    Ero finalmente in volo, l’ultima tappa del mio lungo viaggio verso la guerra. In quanto giovane ufficiale di fanteria, mi avevano assegnato nell’Helmand per addestrare l’esercito nazionale afghano e affiancarlo nei combattimenti.

    Il Chinook sferragliava a trenta metri di altezza, e io mi sporgevo per scrutare dallo sportello di carico aperto il paesaggio che scorreva sotto di noi. Il deserto si stendeva come un tappeto arancione, scialbo e inanimato, mentre il pilota s’inclinava su rocce granitiche con manovre acrobatiche, che facevano scorrere l’adrenalina e venire la nausea in pari misura. Lo definivano «volare sotto il radar», appunto per evitare di essere individuati dal nemico. Secondo me, il pilota lo faceva per divertirsi.

    Poco dopo il deserto finiva improvvisamente, le rocce e la sabbia cedevano il passo a un colore verdeggiante. Eravamo arrivati nella Zona Verde, la sottile fascia di terreni coltivati su entrambe le sponde del fiume Helmand, che si estendeva fin dove il sistema d’irrigazione lo consentiva. Intravedevo i fossi di fango marrone e i canali che s’incrociavano fra le coltivazioni, trasformando l’area in una sorta di scacchiera verde. Questi erano i campi di battaglia nella provincia dell’Helmand. I talebani ci aspettavano qui, da qualche parte.

    Sparse fra il verde, c’erano macchie rosa e rosse. Mi avvicinai al brizzolato maresciallo del regio reggimento scozzese che era vicino a me e chiesi: «Cosa sono?», urlando per superare il rumore dei rotori e indicando il suolo colorato.

    «Papaveri!», replicò anche lui strillando.

    Durante il mio periodo di addestramento, prima dell’assegnazione, si era parlato spesso dei papaveri. Una signora del ministero degli Esteri aveva tenuto lunghe lezioni sull’importanza di estirpare i raccolti dell’Helmand. L’idea sottesa era che l’oppio che si estraeva dai papaveri aggravasse la tossicodipendenza in Gran Bretagna e arricchisse i talebani. Ma, al contrario, un colonnello del ministero della Difesa ci disse che bisognava lasciare in pace i coltivatori di papaveri perché, se avessimo distrutto i loro raccolti, avremmo loro tolto i mezzi di sussistenza e li avremmo gettati nelle braccia dei talebani. Non si chiarì mai cosa avremmo dovuto fare se avessimo trovato un campo di papaveri.

    Onestamente, me ne infischiavo. Non solo dei papaveri, ma anche di ogni altro motivo per cui combattevamo in Afghanistan. Per me, si trattava solo di battaglia. In cinque anni di servizio, non avevo mai sparato un colpo per far male. Ero un ufficiale delle Coldstream Guards, un reggimento di fanteria, e quando mi arruolai pensavo che mi sarei ritrovato nel bel mezzo della mischia. Però la guerra era una bestia sfuggente, che mi aveva schivato in ogni occasione. Dopo l’arruolamento, avevo seguito diciotto mesi di istruzione accelerata, periodo alla fine del quale ritenevo che avrei visto l’azione dal vivo. Invece, passai un anno a marciare attorno a Buckingham Palace e alla Torre di Londra, ruolo per cui si azzuffavano quelli che tornavano dalla guerra. All’inizio ero il fiero volto pubblico dell’esercito britannico, ma alla fine mi sentivo come il manichino di un sarto, o una sagoma per le foto dei turisti. Lì non c’erano scontri a fuoco, cosa che il comandante della mia compagnia mi fece capire il giorno in cui mi convocò nel suo ufficio per rimproverarmi il fatto che «non giocavo abbastanza a tennis».

    Nell’estate 2006 mi assegnarono a Bassora, nell’Iraq meridionale. Lì credevo di trovare la guerra, ne ero certo. Ci andai vicino, comunque. Ne udivo i rimbombi, le esplosioni a poche vie di distanza; ma quando arrivai in loco i combattimenti si erano spostati altrove, lasciando tracce sulle macerie, fra i morti e i feriti. Trascorsi la maggior parte del tempo nel deserto a comandare un plotone di guardie carcerarie. Dopo quattro mesi, rimpatriai deluso e annoiato, condannato a sopportare i racconti dei colleghi che avevano visto gli scontri dal vivo.

    In seguito, partecipai a una serie di esercitazioni e addestramenti all’estero: nel deserto bollente della Namibia e nelle giungle del Brunei, l’esercito mi preparò alla guerra. Adesso, due anni dopo il mio primo turno, avrei finalmente avuto la possibilità di menare le mani.

    In Afghanistan era estate, la stagione dei combattimenti. L’inclemenza dell’inverno afghano limitava le attività belliche, ma ora le temperature stavano salendo, e i talebani avrebbero ripreso l’offensiva. Per me, i dibattiti che infuriavano sui media (sicurezza nazionale, relazioni speciali, ricostruzione, eccetera) erano insignificanti. Purché mi dessero qualcosa a cui sparare, purché mi lasciassero combattere, avrei fatto qualsiasi cosa mi avessero ordinato, e senza fare domande.

    Per il momento, le Coldstream Guards non erano state mandate in Afghanistan, sicché fui distaccato dal mio battaglione e aggregato al regio reggimento irlandese, l’unità cui era stato affidato l’addestramento dell’esercito nazionale afghano, meglio conosciuto come

    ANA

    . Il tutto rientrava nella strategia britannica di ritiro: se fossimo riusciti a preparare le forze di sicurezza autoctone al punto da renderle capaci di opporsi da sole ai talebani, noi militari avremmo potuto rimpatriare. Ero arrivato in zona per prendere il comando dell’

    OMLT

    , la squadra operativa di guida e collegamento, un drappello di soldati incaricati di addestrare e affiancare un plotone di una quarantina di afghani appartenenti a un kandak, una divisione del loro esercito più o meno equivalente al battaglione britannico, composto da quattrocento soldati.

    Ci attenevamo a un’istruzione esemplare, mostrando all’

    ANA

    le tattiche e i principi usati dal nostro esercito. Ciò che non comprendevo allora era la quantità di cose che, a mia volta, avrei appreso da loro. Dentro di me, immaginavo che mi avrebbero inviato in una base remota, dove avrei vissuto fianco a fianco con le truppe indigene, accompagnandole alla vittoria contro un nemico duro e spietato. Le mie fantasie erano dovute in gran parte alle gesta di Lawrence d’Arabia. Nelle settimane precedenti alla mia assegnazione, avevo portato con me una copia dei Sette pilastri della saggezza sperando che mi trasmettesse qualcosa di quel grand’uomo. Cercavo di leggerla ma, dopo un capitolo di inutile prosa, rinunciai e mi accinsi a guardare di nuovo il film che ne avevano tratto.

    Quando arrivai a Camp Bastion, la principale base britannica nell’Helmand, mi dissero che sarei stato schierato nella squadra operativa di supporto ai combattimenti nel paese di Gereshk, dove avrei addestrato l’artiglieria afghana. Ero deluso. Avrei preferito che mi spedissero in prima linea. In quanto ufficiale di fanteria, mi spettava un ruolo in prima linea. A Gereshk c’erano stati molti scontri prima che la guerra si spostasse più a nord, attorno a Sangin e Musa Qala. Prevedevo comunque che ci sarebbe stata un po’ d’azione: non sarebbe mancata la minaccia dei ribelli, degli ordigni esplosivi improvvisati e degli attentatori suicidi.

    Atterrammo su un terreno polveroso che era stato ripulito e appiattito, affinché diventasse una pista adatta per gli atterraggi. L’addetto al carico della

    RAF

    ci spinse delicatamente verso lo sportello posteriore, dove trascinammo i nostri zaini. Uscimmo dall’eli­cottero, tenendoci accucciati sotto i rotori che continuavano a girare, dopodiché il Chinook se ne andò, decollando verticalmente e alzando della polvere che mi colpì in faccia. A loro non piaceva rimanere fermi a lungo in quelle piccole basi, si sentivano esposti e vulnerabili. Lasciavano lì noi fantaccini, che vi saremmo rimasti a lungo.

    Mi guardai attorno per scoprire il nuovo ambiente. Un posto desolato. C’erano file di tende color sabbia e ammassi di container blu e rossi per spedizioni via mare. La parete doppia di un bastione Hesco, alto sessanta metri, correva per un paio di chilometri attorno al perimetro. C’erano postazioni di sentinelle ogni cento metri, era una fortezza. Dall’interno non si scorgeva nulla del paesaggio circostante; tutto era così grigio e funzionale che mi sembrava di essere stato catapultato alla fine del mondo.

    «Il capitano Evans?», mi rivolse la parola un uomo basso, dai capelli scuri, in tenuta da combattimento nel deserto.

    «Esatto», risposi.

    «Sono il caporale Magoo. La prendo in consegna». Aveva un forte accento irlandese e un’irrequietezza briosa che gli impediva di stare fermo anche solo per un attimo.

    «Magoo?», chiesi.

    «In effetti, sarebbe MacGowan, ma tutti mi chiamano Magoo. Se ha preso le sue cose, signore, dobbiamo muoverci. Laggiù ci aspettano i ragazzi». Indicò una serie di tre Land Rover blindate, che nell’esercito chiamavamo Snatch¹, allineate alla fine della pista per l’elicottero. Questi veicoli erano al centro di una controversia, perché la blindatura era relativamente fragile, risultando quindi vulnerabile alla sempre maggiore sofisticazione degli ordigni improvvisati del nemico. Mentre viaggiavano su questi fuoristrada, parecchi soldati erano stati uccisi dagli esplosivi, e alcuni famigliari dei deceduti avevano intentato un’azione legale contro il ministero della Difesa, accusandolo di negligenza. Ero innervosito dall’idea di dover guidare questi veicoli per tutta la provincia. Al primo di essi erano appoggiati un paio di soldati che fumavano una sigaretta.

    «Muoverci? Per dove? Non siamo già qui?»

    «Oh, no, signore. Qui siamo a

    FOB

    Price, una base provvisoria, dove bazzicano solo gli addetti alla logistica. I veri soldati sono in paese con gli afghani. Forza, venga, non è lontano. La scorterò e le presenterò il maggiore Clements. È lui che comanda qui, almeno dalla nostra parte. Il comandante afghano è il colonnello Wadood, un vero boss, ma adesso è in licenza».

    Magoo afferrò il mio zaino e lo lanciò sul sedile posteriore del primo veicolo.

    «Salga davanti con me, ci vorranno una ventina di minuti. Oh, scusi, signore…».

    «Dica».

    «Lei comanda l’autocolonna. Lo sa dove stiamo andando?».

    Ovviamente non lo sapevo, ma questo era il compito di un ufficiale. Siamo noi a dover fornire le direttive. Chiesi a Magoo una cartina e detti un’occhiata rapida alla strada per la base di Gereshk, che era la nostra destinazione. Non era difficile, ma sentivo lo stesso la tensione del momento. Magoo e gli altri soldati mi osservavano per valutare la mia prestazione.

    Domandai al caporale se avessero delle procedure operative standard per sventare le imboscate o gli ordigni improvvisati, qualora fossimo incorsi in qualche guaio durante il tragitto. Sapeva il fatto suo e mi spiegò in fretta come stavano le cose, dopodiché mi assicurai che anche gli uomini negli altri veicoli sapessero quel che stavano facendo.

    «Bene, andiamo», aggiunsi.

    Durante il tragitto, osservai il paesaggio che scorreva dal finestrino; in fondo, era la mia prima vera possibilità di osservare l’Afghanistan da terra e non vedevo l’ora di ambientarmi. Tutti gli scenari che mi avevano presentato durante l’addestramento e tutte le parole udite dai colleghi che avevano già servito lì erano vividi nella mia mente. Sapevo che la minaccia era realistica. Forse c’era­no delle mine sulla strada che percorrevamo, e qualsiasi veicolo che sorpassavamo avrebbe potuto trasformarsi in una bomba. Magoo sembrava rilassato, ma aveva già avuto un paio di settimane di permanenza in loco per adattarsi. A me stava ancora pompando l’adrenalina.

    FOB

    Price si trovava ai margini del deserto, pochi chilometri a ovest di Gereshk, la città più importante del distretto di Nahri Saraj. Uscendo dal cancello principale, passammo davanti a file di camion e autoarticolati dai colori vivaci, fermi in attesa. Aspettavano tutti di accedere alla base operativa: imprenditori afghani, civili che fornivano al nostro esercito acqua, carburante e altro materiale essenziale. Si perquisiva accuratamente ogni veicolo prima che questo potesse accedere alla base, e di solito lo si faceva attendere come minimo ventiquattro ore, affinché un eventuale attentatore suicida si innervosisse e tradisse i suoi propositi.

    Procedemmo su un ampio sentiero per qualche centinaio di metri e poi c’immettemmo su una strada massicciata, l’

    A

    1, che taglia tutto il Paese da est a ovest, dal confine col Pakistan a quello con l’Iran. Magoo spinse il piede sull’acceleratore e il tachimetro prese lentamente a salire.

    «Calma, caporale», dissi. «Ha fretta di andare da qualche parte?»

    «Fra cinque ore sono di nuovo in servizio. Stanotte mi sono alzato alle tre. Dopo che l’avrò scaricata, me ne torno in branda per schiacciare un pisolino. Come si dice, questo tempo sarebbe tutto per me!».

    «Basta che non cerchi di ucciderci!», provai a scherzare. «Allora, com’è lavorare con l’

    ANA

    «Sono bravi ragazzi. Mi piacciono, davvero. Sono come noi, alla fin fine. Hanno dei modi divertenti, e il più delle volte sembrano dei poveri stronzi, ma chi sono io per dire qualcosa?». Rideva e accennava alla sua divisa sgualcita. «Passo la maggior parte del tempo in sala operativa, quindi li vedo poco. Però il loro comandante, il colonnello, è un bastardo. Meglio non prenderlo dalla parte sbagliata».

    «Il colonnello Wadood di cui parlava?»

    «Esatto. Quando lo conoscerà, capirà cosa intendo dire. Mi sa che perfino il maggiore Clements ha un po’ paura di lui».

    Riuscivo a vedere la città, distesa sulla pianura polverosa davanti a noi, un anonimo guazzabuglio di edifici a un solo piano che nascondeva un labirinto di strette viuzze. Seguimmo la strada che curvava verso la periferia meridionale e ci fermammo davanti a una serie di Hesco, che difendevano un grande cancello metallico. Su questo campeggiavano le parole Joint District Co-Ordination Centre, meglio noto come

    JDCC

    ². Quella sarebbe stata la mia residenza per i successivi quattro mesi.

    Dalla torretta fortificata della sentinella, detta anche sangar, vicino al cancello, spuntò una faccia guardinga che ci fissava dal mirino di una mitragliatrice

    PKM

    , una delle armi in dotazione all’

    ANA

    . Altri occhi vigili scrutavano la strada dietro di noi per cogliere un eventuale segno di pericolo. Lì, gli uomini erano evidentemente pronti a respingere un attacco.

    Ci si avvicinò un soldato afghano con un

    AK-

    47 in spalla. Non appena vide Magoo, si aprì in un sorriso e fece un cenno di saluto, poi urlò al suo collega di lasciarci passare. Quando la barriera si sollevò, Magoo ricambiò il saluto: «Ciao Paddy», disse.

    «Sì, ciao Paddy», replicò l’afghano.

    «Un idiota deve avergli detto che mi chiamo Paddy», mi disse il caporale. «Ho cercato di spiegargli che non ha capito bene, e penso che sia convinto che tutti i soldati si chiamino Paddy. Comunque è un tipo amichevole».

    Entrammo nella base e parcheggiammo dietro una fila ordinata di veicoli identici al nostro. Scendendo dall’auto, notai numerosi pick-up della Toyota sparpagliati nel campo. Alcuni sfoggiavano sul cofano il tricolore afghano, rosso, nero e verde; Magoo mi informò che appartenevano all’

    ANA

    .

    L’aspetto del luogo era familiare e risultava rassicurante per chiunque avesse passato un po’ di tempo in un campo militare. Al posto di prefabbricati e case modulari, c’erano edifici tozzi in cemento grigio, allineati sui tre lati del piazzale in terriccio, che veniva usato per parate e adunate. In un angolo figurava una piscina vuota, relitto della vita precedente del campo come base dell’esercito sovietico. I russi erano rimasti in Afghanistan per più di un decennio, ma senza mai riuscire a completare la loro missione. L’Armata rossa, una temibile macchina bellica che aveva minacciato il mondo occidentale per mezzo secolo, in questo Paese era crollata e si era sfaldata. I padri dei nostri nemici avevano cacciato i sovietici, che erano rimpatriati stanchi e insanguinati, accelerando il collasso di un impero. Un secolo prima, anche l’Inghilterra, al culmine della sua strapotenza imperiale, era stata sconfitta. Stavolta, affermavano gli intelligentoni che governavano a Londra e a Washington, le cose sarebbero andate diversamente.

    Magoo mi accompagnò dall’altra parte del piazzale, verso uno degli edifici. C’era scritto con vernice fresca su un cartello: "Quartier generale batteria

    C

    3

    RHA

    ". Una volta entrati, il caporale bussò leggermente alla porta della sala operativa e la spalancò.

    «Salve, signore, c’è il capitano Evans».

    Entrai in una grande stanza quadrata. In un angolo c’era un paio di tavolini su cavalletto, su cui erano sparse delle radio e alcune mappe. Piegato su una di queste cartine c’era un caporale, che scribacchiava su un registro mentre rispondeva in rete al segnale di chiamata di una pattuglia. Una parete era coperta da un’enorme immagine satellitare di Gereshk, piena di linee e reticoli, davanti alla quale c’erano alcune panchine. Dall’altro lato, seduto dietro una scrivania di legno grezzo, c’era il comandante della batteria, un maggiore. Aveva un’espressione lievemente stupefatta, come se Magoo lo avesse disturbato per chiedergli di risolvere un problema complicato. «Ah, bene. Grazie Magoo. Lo lasci qui».

    «Perfetto», replicò Magoo, che poi si rivolse a me con un cenno: «Ci vediamo in giro, signore». Corse via lungo il corridoio, diretto alla sua branda. Mi voltai verso il maggiore, che si era alzato in piedi e mi stava tendendo la mano.

    «Salve», disse lui. «Mi chiamo Richard Mark». Era basso di statura, aveva i capelli biondi, un sorriso accattivante e un’espressione cordiale sul viso. La sua stretta di mano era decisa, il suo sguardo fermo. Colsi subito in lui la sicurezza tipica di tutti i bravi ufficiali, che induce i sottoposti a obbedire con piacere.

    Ci sedemmo, e Richard cominciò a delineare la situazione. La batteria

    C

    aveva il compito di addestrare il kandak dell’

    ANA

    di stanza a Gereshk.

    «A Gereshk l’

    ANA

    è addetta alla sicurezza», disse Richard. «Si presume che i soldati siano artiglieri; però non hanno armi pesanti, quindi è tutto lavoro di fanteria. Noi usciamo di pattuglia con loro e nel frattempo li addestriamo».

    Di solito, le unità britanniche di fanteria si dividono in plotoni di circa trenta soldati, ma quando operano nelle aree urbane, questi vengono suddivisi ulteriormente in squadre di una dozzina di uomini, dette multipli. Ciascun multiplo è al comando di un giovane ufficiale, di grado inferiore come me, oppure di un sottufficiale anziano. Per le operazioni di pattuglia insieme all’

    ANA

    , mi avevano detto che avrei avuto di norma solo otto uomini, il che avrebbe permesso agli altri di sbrigare le faccende all’interno della base o di riposarsi per tenersi in forma.

    «Il mio lavoro principale consiste nell’occuparmi del comandante», dichiarò Richard. «Il colonnello Wadood. Adesso è in licenza ma tornerà presto in servizio».

    «Il caporale Magoo me ne ha parlato», commentai. «Sembra molto impressionato».

    «Non ho mai conosciuto nessuno come lui. Qui c’è stata poca azione ultimamente, però se i talebani si azzardano a farsi vedere, sono sicuro che il colonnello gli farà un culo così».

    ¹ Si può tradurre con Aggressore. (n.d.t.)

    ² Centro congiunto di coordinamento del distretto. (n.d.t.)

    Capitolo 2

    Avevo ormai conosciuto i miei superiori e gli uomini che sarebbero stati al mio comando. Prima di incontrare i miei pari grado nell’

    ANA

    , coi quali avrei collaborato strettamente, mi serviva un interprete. Alcuni soldati britannici avevano seguito dei corsi di pashtu e dari, le due lingue principali dell’Afghanistan; ma erano perlopiù impiegati a Kabul, al servizio dei generali, o al quartier generale della brigata, a Lash. Noi ci affidavamo quindi ai servizi degli interpreti afghani, cioè ingaggiavamo dei civili. Al

    JDCC

    , questi traduttori locali avevano un alloggio separato dall’

    ANA

    . Quando avevamo bisogno di loro, bastava andare lì e chiamare chi era libero. Essi trascorrevano la maggior parte del tempo a fumare o a giocare a carte in una sorta di stanzone comune, dove c’erano diverse poltrone piuttosto logore e una televisione. L’aria era densa di fumo e mi ricordava le tristi sale riservate degli aeroporti, dove si rinchiudono i fumatori per un’ultima disperata sigaretta prima di salire in aereo.

    Questi interpreti locali erano alquanto interessanti. Molti di loro erano studenti di Kabul. In un Paese sconvolto dalla guerra, non c’erano molte occasioni per le classi istruite, per cui il rischio derivante dal lavorare in prima linea andava commisurato con la prospettiva della disoccupazione. Alcuni si impegnavano molto per la causa, volevano fortemente che il conflitto avesse un buon esito e facevano la loro parte per impedire il ritorno dei talebani, che quando erano al potere avevano spesso perseguitato gli intellettuali. I ribelli ovviamente sapevano che facevamo affidamento sugli interpreti afghani e, nei loro comunicati, ammonivano qualsiasi indigeno a non lavorare per noi. Non erano minacce a vuoto. In passato erano già stati uccisi parecchi interpreti, insieme alle loro famiglie. La cosa positiva era che la maggioranza di questi nostri aiutanti svolgevano il loro compito molto lontano da casa, e quindi erano difficilmente identificabili dai talebani e dalle loro spie. In ogni caso, essi indossavano il passamontagna o si coprivano la faccia con una sciarpa tutte le volte che uscivano dalla base.

    C’era poco cameratismo fra gli interpreti e i soldati dell’

    ANA

    . Non avevano granché in comune, a parte la nazionalità. Da una parte, i soldati con poca istruzione scolastica, oberati di lavoro e sottopagati, dall’altra parte l’élite intellettuale che guadagnava una fortuna in confronto a loro per parlare con la gente, girando al largo dal conflitto. Era visibile il rancore dei soldati afghani per questo stato di cose, però avevamo bisogno dei servizi degli interpreti, che per noi valevano ogni centesimo con cui li pagavamo.

    Al

    JDCC

    c’erano sempre a disposizione due o tre interpreti, che si alternavano in base a regolari turni. Nei mesi seguenti avrei fatto conoscenza con loro. Alcuni erano eccellenti, traducevano tutto ciò che si diceva con una tale facilità che ci si dimenticava che la conversazione era mediata da un interprete. Altri erano meno bravi, e pronunciavano parole indistinte, traducevano male o smettevano semplicemente di prestare attenzione a quel che si diceva. Altri ancora avevano la faccia tosta di scegliere un qualunque termine inglese che gli paresse giusto. In tal caso, regnava la confusione. Strinsi un buon rapporto con uno degli interpreti migliori, che si chiamava Ash. Era un ragazzo poco più che ventenne, ben sbarbato, alto poco più di un metro e sessanta. Indossava maglietta nera e jeans neri; scoprii in seguito che erano gli unici vestiti che aveva. Studiava a Kabul, e comprendeva le sfumature dell’inglese ed era anche una fonte inesauribile di notizie per quanto riguarda la cultura e la politica afghana. Cosa inusuale, parlava sia il pashtu, l’idioma della provincia di Helmand, che il dari, il linguaggio parlato dalla maggioranza dei soldati dell’

    ANA

    . Questa scioltezza trilingue lo rendeva una risorsa molto apprezzata. Dopo essermi assicurato i suoi servizi, decisi di fare la mia prima visita al capitano Wali, il comandante del plotone dell’

    ANA

    .

    La batteria

    C

    , ossia i soldati britannici, occupava un piccolo isolato nell’angolo nordoccidentale del

    JDCC

    , mentre il resto del campo era riservato agli afghani. Non c’erano steccati, nessun confine separava il nostro territorio dal loro, eppure percorrere a piedi i pochi metri che portavano dall’uno all’altro significava entrare in un mondo diverso. La nostra vita quotidiana era dettata dalle usanze del maresciallo britannico: righe dritte e superfici luccicanti, pulire tutto e già che ci siamo tagliarsi anche i capelli. Dalla parte afghana prevaleva invece la disinvoltura. Il bucato, costituito da stracci dal colore olivastro, era appeso su dei fili aggrovigliati fra le baracche dei soldati, e gli uomini sedevano attorno ai bivacchi per chiacchierare, cuocersi la cena o schiacciare un pisolino. Una volta, suggerii al maresciallo della batteria di trovare un posto da condividere con gli afghani per rafforzare lo spirito di collaborazione. La risposta fu irriferibile.

    Entrammo nell’ufficio del comandante del plotone afghano, e il capitano Wali balzò in piedi dietro la sua scrivania, sorridendo a trentadue denti. Un soldato dall’aspetto poco militaresco, avrà avuto circa trentacinque anni: era basso, grasso e apparentemente non avvezzo ai rigori della guerra. Ostentava inoltre una lunga barba nera che, abbinata alla divisa spiegazzata e al berretto storto, gli conferiva un aspetto quanto mai scompigliato.

    «Venga, entri pure!», disse Wali prendendomi la mano e stringendomela forte, prima di indicarmi la sedia su cui accomodarmi. «Allora, dovremo combattere insieme, io e lei, vero?», aggiunse subito. «Ottimo. Quest’estate ingaggeremo una guerra coi fiocchi».

    Ricambiai il sorriso. Poteva anche apparire un tipo bizzarro, però sembrava condividere la mia voglia di menare le mani. Che era il motivo per cui ero venuto lì.

    Servirono il tè alla menta, e il capitano me ne versò un bicchiere. Era forte ed estremamente dolce. Gli inglesi hanno fama di essere grandi consumatori di tè, ma gli afghani appartengono a un livello perfino superiore: per loro, questa bevanda è la base di qualsiasi incontro sociale, e rifiutarla genera costernazione. Nei mesi successivi mi sarei ritrovato in discussioni interminabili coi miei omologhi dell’

    ANA

    , ma anche se avevo fretta di andarmene, dovevo trattenermi finché il mio tè non si fosse raffreddato a sufficienza per poterlo bere.

    Decidemmo che la mattina dopo mi sarei unito a lui per un pattugliamento, così avrebbe colto l’occasione per mostrarmi la zona circostante. «Ne approfitteremo per liquidare qualche talebano, già che ci siamo», disse Wali facendomi l’occhiolino.

    Gli chiesi se avesse combattuto spesso contro i ribelli. «Naturalmente», esclamò. «Siamo nell’Helmand da un paio d’anni. I talebani sono dappertutto».

    Mi venne in mente che, sebbene fossero tecnicamente degli artiglieri, quegli uomini avevano con ogni probabilità più esperienza di scontri di fanteria di quanto non avessero i reggimenti britannici più incalliti alle battaglie.

    Il capitano mi spiegò che il kandak aveva sparato grosse scariche di artiglieria in un’unica circostanza. «A un certo punto avevamo quattro cannoni», disse. «Però ci mancava il relativo sistema di puntamento. Queste armi erano di vecchio tipo, risalenti all’era sovietica. Poi, a Kabul, qualcuno rintracciò il sistema giusto: si trovava in un museo militare! Tanto per dire quant’erano vecchie».

    «E allora cosa successe?», intervenni.

    Wali sembrava vergognarsene. «Doveva esserci qualcosa di sbagliato nei cannoni. Non sparavano dritto. Li provammo nel deserto ma non sapevamo mai di quanto mancassimo il bersaglio. Nessun soldato britannico che ci stava addestrando voleva mettersi davanti alle armi per dirci esattamente dove cadevano i proiettili».

    Sorrisi. Chi avrebbe potuto biasimarli?

    «Comunque, i comandanti di grado superiore, a Kabul, dissero che gli serviva che il nostro kandak combattesse come unità di fanteria, ed è quel che facciamo. Però un giorno mi piacerebbe avere la possibilità di usare ancora l’artiglieria pesante».

    Col passare del tempo la conversazione assunse un tono più personale. Il capitano iniziò a parlare di sé, di dove era nato e di come era l’Afghanistan prima che i talebani prendessero il potere. Malgrado la sua apparente passione per i combattimenti, in realtà era un soldato riluttante. Prima della guerra, aveva lavorato come agente di viaggio a Kandahar: passava le giornate a organizzare i viaggi dei trafficanti di oppio che facevano la spola fra Kabul e il Pakistan. «Mi manca la vita di allora»,

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