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Il profumo perduto della cannella
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Il profumo perduto della cannella
E-book500 pagine7 ore

Il profumo perduto della cannella

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Info su questo ebook

«Scritto splendidamente. Una storia d'amore che commuove.» Tracy Rees

1891, Alessandria. Olivia ha solo ventidue anni quando è costretta a lasciare l’Inghilterra per seguire in Egitto suo marito, Alistair Sheldon. Sposare un uomo che non ama per lei è stato un tormento, ma la sua nuova casa la conquista a poco a poco, rivelandosi fonte di un’insperata felicità: può infatti riabbracciare finalmente sua sorella Clara, e fare la conoscenza dell’affascinante capitano Edward Bertram. Quando Clara viene rapita in una delle affollatissime strade della città, Olivia si ritrova invischiata in qualcosa di più grande di lei. E la richiesta di riscatto è solo l’inizio. Se vuole scoprire che cosa è successo a sua sorella, dovrà addentrarsi nell’oscuro mondo sotterraneo di Alessandria, mettendo a rischio la sua stessa vita e il suo affetto per Edward, l’unico uomo che abbia mai amato. Ma c’è qualcuno che sembra disposto a fare qualunque cosa per non farle scoprire la verità.

Un matrimonio imposto
Un amore proibito
L'esotica bellezza dell'Egitto nasconde oscuri segreti

«Esotico e misterioso. Mi ha conquistata.»
Dinah Jefferies

«Molto evocativo e avvincente. Una lettura ricca e piena di soddisfazioni.»
Gill Paul

«Una scrittura di prima classe, personaggi meravigliosi e ambientazioni stupende.»
Tracy Buchanan
Jenny Ashcroft
vive a Brighton con il marito e i due figli. Ha vissuto molti anni in Australia e in Asia, un periodo che ha rafforzato il suo amore per le storie ambientate in luoghi esotici. Ha una laurea in storia ed è sempre stata affascinata dal passato. Il profumo perduto della cannella è il suo primo libro.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2018
ISBN9788822728463
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    Anteprima del libro

    Il profumo perduto della cannella - Jenny Ashcroft

    EN.jpg

    Indice

    PRECEDENTEMENTE

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    IL PRIMO GIORNO

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    IL SECONDO GIORNO

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    IL TERZO GIORNO

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    IL QUARTO E IL QUINTO GIORNO

    Capitolo quindici

    L’OTTAVO GIORNO

    Capitolo sedici

    IL NONO GIORNO

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    IL DECIMO GIORNO

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    L’UNDICESIMO GIORNO

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    L’ULTIMO GIORNO

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    Capitolo trentacinque

    IN SEGUITO

    Capitolo trentasei

    Capitolo trentasette

    Capitolo trentotto

    Capitolo trentanove

    Capitolo quaranta

    Capitolo quarantuno

    Epilogo

    Ringraziamenti

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    2136

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: Beneath a Burning Sky

    Copyright © 2016 Jenny Ashcroft

    The moral rights of the author has been asserted

    All rights reserved

    First published in Great Britain in 2016 by Sphere

    Traduzione dall’inglese di Jacopo Palladini e Lorena Marrocco

    Prima edizione ebook: gennaio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2846-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Jenny Ashcroft

    Il profumo perduto della cannella

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    A Matt, Molly e Jonah

    Piazza centrale di Alessandria, 30 giugno 1891

    Allungò un braccio alla ricerca di una parete, un mobile, qualsiasi cosa potesse sorreggerla, impedirle di cadere. Ma non trovò nulla, e così cadde in avanti, sulle ginocchia, atterrando dolorosamente sulle assi del pavimento piene di polvere. Si sollevò, ruotò la testa da una parte e dall’altra, disorientata dalla velocità con cui stava succedendo tutto. Si sforzò di vedere qualcosa. Ma dopo l’intensa luce del sole fuori, ora era immersa nell’oscurità e riusciva a distinguere solo ombre e punti luminosi.

    Cominciò a gridare. Una mano le coprì la bocca: forte, rude, le ricacciava i suoni in gola. C’erano degli uomini nella stanza. Tre, no, quattro. Respirava con il naso, respiri rapidi e corti. Odore di sudore, aglio, un vago sentore di hashish. Da fuori, il rumore remoto della strada: gli zoccoli dei cavalli, lo sferragliare di un tram. Gli uomini attorno a lei parlavano in arabo, assolutamente tranquilli. Sembravano così padroni di sé. Come se avessero tutto sotto controllo. Era una cosa che la terrorizzava.

    Le tolsero la mano dalla bocca.

    «Che cosa volete?». La sua voce era alta, tesa, il suo inglese era forzato e innaturale. «Voglio andare via. Lasciatemi andare». Sbatté le palpebre mentre i suoi occhi si abituavano all’oscurità. La stanza era praticamente vuota; solo una pila di casse in un angolo, un tavolo con sopra delle bottiglie di vetro in un altro. Gli uomini indossavano le tuniche bianche tipiche della gente del posto. Si erano coperti i volti con degli stracci.

    Da fuori arrivava il rumore di passi sull’acciottolato del vicolo; poi, il cigolio di un carretto, o così sembrava. Aprì la bocca, gridando di nuovo, chiedendo aiuto. L’uomo davanti a lei abbassò lo sguardo, gli occhi scuri, completamente vuoti. Sembrava annoiato. Scosse la testa, e allungò il braccio verso uno degli stracci che gli coprivano il viso. Rendendosi conto di cosa aveva intenzione di fare, lei cercò di sottrarsi inarcando la schiena. «No. No, no, no». Si dimenò per alzarsi. Qualcuno la spinse giù, un altro le ficcò in bocca un qualche tipo di tessuto sporco e intriso di sudore. Ebbe un conato di vomito, si sentiva soffocare mano a mano che la stoffa si stringeva intorno alla sua faccia.

    Respirando a fatica, con il viso pieno di lacrime, guardò la porta. Da sotto arrivavano lame di luce bianca. Rue Cherif Pasha, gremita e piena di vita, era giusto a un passo. Balzò in avanti, tentando di scappare, ma quelli le spinsero di nuovo la testa a terra. I lembi della veste si allargarono ai suoi piedi. Batté la testa. Perché mi state facendo questo? Ma la sua voce, soffocata dal panno, non era altro che un gemito.

    Pensava a sua sorella là fuori, ancora nella strada trafficata. O forse era già al ristorante Draycott? Il soldato, anche. Fadil. Lo sapeva? Sarebbe venuto? I suoi pensieri corsero a casa, i suoi cari in attesa. Specialmente lui. Lui avrebbe percepito che era nei guai? Oh Dio, no, com’era possibile che si fosse ritrovata in quella situazione? Non sarebbe dovuto succedere.

    Un uomo attraversò la stanza. Aprì una botola proprio nel centro. Subito un odore pestilenziale si levò dal buco. Sentì che la stavano trascinando in quella direzione. Scosse la testa, scalciando. Ma era tutto inutile. Nella fossa spalancata intravide una scala di pietra, una grande voragine nera pronta a inghiottirla, e si ritrasse, sconvolta, piena di un nuovo terrore. Dove siete? Una domanda, rivolta a sua sorella e a Fadil, che le rimbombava nella testa. Perché non venite?

    Il primo uomo scomparve nella botola. L’afferrò per gli stivali e tirò. Un altro le bloccò le braccia contro i fianchi, sollevandola. La trascinavano giù, mentre si contorceva e la sua pelle sfregava contro i mattoni ruvidi. Gli altri la seguirono.

    Trovatemi. La botola si richiuse sopra di lei. Per favore, vi prego. Trovatemi.

    Precedentemente

    Capitolo uno

    Ramleh, Alessandria, marzo 1891

    Olivia guardò la baia. Gocce di sudore le scendevano sulla fronte e lungo la schiena. Il costume da bagno le si appiccicava addosso. Faceva caldo, per essere marzo, la gente glielo ripeteva di continuo. Non ti sei portata dietro il tempo dell’Inghilterra. (Ma dai! E come avrebbe potuto, del resto?). Il sole, anche se erano passate da poco le nove, picchiava forte; era il caldo torrido a cui le pareva impossibile abituarsi, dopo anni di gelidi inverni inglesi ed estati deludenti. Ruotò le spalle strette. Il suo costume di lana premeva sui lividi a ogni suo movimento, spedendole fitte di dolore. Irrigidì la mascella, impedendosi di sussultare, di mostrare segni di sofferenza.

    Perché lei non mostrava mai segni di sofferenza.

    Il Mediterraneo lambiva gli scogli sotto di lei, una coperta turchese che si stendeva fino all’orizzonte e faceva sembrare ancora più lontana la sua patria. Intorno al promontorio, verso la città, barche oblunghe, simili a canoe, correvano a vele spiegate dritte verso il porto; i pescatori tornavano verso i mercati mattutini di Alessandria, verso i treni a vapore e i carretti che avrebbero portato il loro carico fino al Cairo, a Luxor e ad altre cento città del deserto. L’acqua luccicava dorata, chiazzata di luce. Invitava Olivia a immergersi.

    Dette un’occhiata alla casa. Alistair, che da poco era diventato suo marito, era in veranda, pronto per andare in ufficio con il suo abito a tre pezzi, i lineamenti di un’eleganza feroce, la pelle bianca come la palizzata che lo circondava. Teneva in mano una tazza e un piattino, sorseggiava il suo tè mattutino: foglie di Ceylon di importazione, un goccio di latte dalla brocca della cucina, quella con la mucca, mezzo cucchiaio di zucchero. (Raso, Olivia, non colmo. Raso). Il suo sguardo era fisso su di lei. La guardava. La guardava sempre.

    Olivia fece un passo. Più che vederlo, percepì Alistair che faceva una pausa tra un sorso e l’altro, il piattino tenuto in alto, la tazza con il miglior tè di Ceylon sospesa a mezz’aria. Trattenne il respiro e si lanciò: passò dall’aria bollente all’acqua fredda che avvolse veloce il suo corpo, un balsamo per la sua pelle che bruciava. Si tuffò più in profondità, con i polmoni pieni d’aria fino a scoppiare. Per un dolce momento sommerso, era invisibile.

    Tornò in superficie, prese una boccata e a grandi bracciate si diresse al largo. Nuotava bene, aveva imparato nel canale di Solent da bambina: la madre superiora la obbligava a immersioni gelide all’alba, ai tempi del convitto (Eccellenti per il vostro fisico, ragazze, e per le vostre anime malvage). La distanza fra lei e la riva aumentava rapidamente. Solo quando i muscoli delle braccia iniziarono a protestare, sfiniti, si girò sulla schiena e si lasciò andare alla deriva. Ogni tanto voltava la testa verso la casa, sforzandosi di distinguere la sagoma di Alistair, dritto come un fuso, immaginando la scintilla di irritazione nei suoi occhi.

    Ormai era diventata una routine. Da quando Alistair l’aveva portata ad Alessandria, tre settimane prima, tutte le mattine scendeva nella baia in fondo al loro giardino. Era una cosa che Alistair detestava («Non ho intenzione di trascinarti fuori dall’acqua davanti alla servitù, ma tu dovresti stare in casa. Con me. È sconveniente, questo tuo bighellonare in acqua. La tua pelle sta diventando dello stesso colore di quella degli indigeni»). Già solo questo le dava una ragione sufficiente per continuare. A sera, naturalmente, gliela faceva pagare. Prima con le parole («Ma cosa hai in testa, Olivia? Non sono stato chiaro, forse?»), e poi con tutto il resto. Ma non era tanto sciocca da credere che se lei avesse smesso, avrebbe smesso anche lui. Aveva trovato mille ragioni per punirla sin da quando lei aveva finalmente ceduto, due mesi prima: in un giorno d’inverno fradicio di pioggia aveva rinunciato alla sua disperata ricerca di un’alternativa e lo aveva sposato. Non che avesse nuotato nel Tamigi gelato, quella notte. No, a suscitare il fastidio di Alistair era stata la sua melanconia, durante la cerimonia. E dopo, gli abiti che aveva portato nel suo baule per il viaggio con la P&O fino ad Alessandria (del tutto inadatto, decisamente troppo pesante, per Dio. Mi stai ascoltando? Mi ascolti?), poi la risata di lei allo scherzo (a dire il vero fin troppo ammiccante) del comandante nel corso della cena e così via.

    Olivia chiuse gli occhi, scacciando via i ricordi. Galleggiava, i capelli sciolti tutto attorno a lei. L’acqua smorzava ogni cosa, tranne il rumore del suo respiro nelle orecchie. Il sole era salito alto in cielo, sentiva le lentiggini rivelatrici punteggiarle gli zigomi e sospirò tra sé e sé, consapevole che la sua cameriera personale avrebbe insistito per applicarci sopra generose dosi di succo di limone per le notti a venire.

    Guardò di nuovo verso la terrazza e, vedendo che Alistair era sparito, sospirò di nuovo. Aspettò qualche altro minuto, il tempo sufficiente per assicurarsi che fosse davvero andato in città, a lavorare nella sede centrale della sua azienda di esportazione di cotone, poi si avviò verso casa. Mentre fendeva le onde tranquille, l’infelicità che tanto la opprimeva si attenuò al pensiero che la sorella maggiore, Clara, sarebbe presto passata a trovarla. Veniva ogni mattina, in carrozza, dalla sua casa lungo la costa. Qualche volta da sola. Più spesso portava i figli, Ralph e il piccolo Gus. Olivia ancora si emozionava appena li vedeva. Specialmente Clara. Di nuovo in carne e ossa, finalmente. Erano state separate per quindici lunghi anni, da quando erano state costrette a lasciare la casa della loro infanzia al Cairo in seguito alla morte dei genitori per andare in Inghilterra. Non avevano potuto tenersi in contatto – la loro nonna si era assicurata che interrompessero ogni rapporto: non una lettera, non una parola. Olivia non aveva nemmeno saputo che Clara era tornata a vivere in Egitto, la terra dove erano nate, finché Alistair non si era presentato sulla porta di casa sua a Londra e glielo aveva detto. Clara era stata poco più che un’ombra per lei. Era il sordo dolore di sapere che c’era, da qualche parte nel mondo, ma ignorando completamente dove potesse trovarsi.

    Era un ricordo, solo uno, del giorno in cui la nonna – piena di odio verso la loro madre e determinata a ottenere la sua vendetta, come se la morte non fosse già abbastanza – le aveva separate. Quel gelido mattino di gennaio, ai moli di Tyneside, quando Olivia aveva otto anni e Clara quattordici. La mattina a cui si sforzava disperatamente e invano di non pensare mai.

    E ora non ci pensava, mentre usciva dall’acqua. Avvolgendosi nel suo telo da spiaggia, si girò e imboccò la strada oltre gli scogli, fino al giardino. Camminava sul prato verso casa, fili d’erba le si attaccavano ai piedi. L’acqua evaporava dalla sua pelle, lasciando scie salate come bava di lumaca sull’abbronzatura ben poco signorile dei suoi avambracci. La villa si stagliava ampia davanti a lei, un palazzo circondato da palme. I suoi muri di terracotta erano ricoperti di gelsomino, le persiane spalancate in ogni stanza rivelavano le sagome della servitù che si muoveva all’interno. Olivia scivolò nell’ombra stordente.

    Dirigendosi verso le scale, si fermò davanti alla porta della stanza del pensionante – un ufficiale di cavalleria di nome Edward Bertram. Era stato per anni, insieme ad Alistair, socio in affari di suo padre. Non era una sistemazione insolita: tutti gli ufficiali britannici ad Alessandria prendevano in affitto stanze in case private, dato che la guarnigione locale non era grande come quella del Cairo. Olivia, però, doveva ancora incontrarlo. L’ufficiale era in viaggio sin da quando lei era arrivata.

    Quel giorno la porta della stanza era socchiusa e dentro c’erano due cameriere che chiacchieravano. Olivia chiese che cosa stessero facendo e loro risposero che sir Sheldon (tutti chiamavano così Alistair anche se non era affatto sir: era semplicemente l’appellativo con cui i domestici egiziani si rivolgevano ai loro superiori) aveva chiesto che la stanza fosse pronta per il ritorno del capitano. Correva voce che sarebbe arrivato quella notte stessa.

    Olivia alzò le spalle. Non era stupita che Alistair non si fosse neppure degnato di avvertirla, solo un po’ curiosa di incontrare finalmente il misterioso capitano. La sua vita in quei giorni era così piena di estranei, che differenza avrebbe fatto incontrarne uno in più?

    Continuò a salire le scale, tutta concentrata sull’imminente arrivo di Clara. Doveva prepararsi. Quando raggiunse la sua camera aveva quasi del tutto dimenticato che il capitano Edward Bertram stava tornando a casa.

    Edward si lasciò cadere sul sedile mentre l’Alessandria Express avanzava cigolando e il vapore saturava l’aria sotto la volta di ferro della stazione centrale del Cairo. Tirò fuori dalla giacca la scatola delle sigarette e se ne accese una, aspirando lentamente mentre il treno sbuffava verso la feroce luce del giorno. Mentre prendeva velocità, con il fumaiolo che soffiava a tutta forza, dei piccoli accattoni che vivevano nei sobborghi circostanti – mocciosi anneriti con gli occhi spalancati e le bocche troppo grandi per i visini minuti – sciamavano lungo i vagoni chiedendo l’elemosina. Edward li guardava, gettando monete. Trasalì quando uno di loro fece un salto per entrare da un finestrino, venne respinto da un passeggero e atterrò come una palla di ossa sui massi, nella polvere. Si fermò a pochi centimetri dai binari, ma subito si tirò su pronto per farlo ancora.

    Edward li fissò e scosse la testa.

    «Gli sta bene», disse una voce annoiata dal sedile di fronte. Era un uomo bruciato dal sole con un cappello a cilindro e un completo a tre pezzi. «Non avrebbe dovuto incoraggiarli, sa».

    «Certo». Edward sorrise a denti stretti, riprendendo il suo posto. «Sono dei pigri mocciosi».

    «È proprio così».

    «Forse lei possiede da qualche parte un’azienda in cui farli lavorare? Qualche turno di sedici ore gli farebbe proprio bene».

    Il tipo lo fissò. «Sono un funzionario pubblico».

    Edward fece una risatina. «Naturalmente». Prese un altro tiro di sigaretta allungando le gambe e si girò a guardare i tetti piatti delle baraccopoli del Cairo che scorrevano fuori dal finestrino, per comunicare la sua intenzione di chiudere lì la conversazione.

    Nelle ultime settimane l’addestramento delle reclute della guarnigione era stato un vero inferno. E quindi era stato più che felice di andarsene. Tutti quei giorni roventi nella sala riunioni infestata dalle mosche, le lezioni sui compiti basilari dei soldati (la ricognizione del deserto, il pattugliamento dei confini, i pomposi giri intorno alla città per ricordare a tutti chi era che comandava e così via)… Insomma, la prospettiva di tornare ad Alessandria non gli risultava affatto sgradita.

    Per tutto il mese trascorso al Cairo aveva chiesto al suo colonnello, Tom Carter, di poter lasciare la città quasi come favore personale. Lo aveva disgustato la crudele determinazione con cui Alistair era partito per l’Inghilterra per andare a prendere in moglie la sorella di Clara. Non riusciva a credere che, più di dieci anni dopo che Clara lo aveva umiliato, durante quel periodo londinese di cui tutti spettegolavano solo in tenui bisbigli, Alistair si sarebbe vendicato con una così calcolata ferocia. Edward non aveva dubbi su quale fosse la sua vera motivazione. Per Alistair, la scelta della sua sposa era influenzata più da Clara che dalla sorella. Molte volte, nei tre anni che avevano vissuto insieme, aveva notato la fissazione che Alistair nutriva per Clara, e anzi si era chiesto come diavolo facesse quella donna a tollerare il suo pallido sguardo insistente durante le feste, il modo in cui arricciava le labbra appena lei parlava. Eppure non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe arrivato a tanto. E quindi non se l’era sentita di assistere al ritorno di Alistair da Londra in compagnia della nuova signora Sheldon. E il periodo di lontananza al Cairo gli aveva fatto capire quanto fosse stanco della vita in Egitto. Non solo del suo ruolo: le esercitazioni, le dannate, infinite esercitazioni, e poi i viaggi nel deserto e il costante controllo degli indigeni che tanto per cominciare non avevano mai chiesto di essere governati. Ma anche della convivenza con Alistair.

    Aveva telegrafato a Tom. C’è qualche possibilità che io possa allontanarmi e tornare a casa prima che il mio incarico si concluda?

    No, aveva risposto Tom. Tutto bene, vecchio mio?

    Proprio per niente, aveva scritto Edward. Che ne dici di un trasferimento?

    Tom aveva avviato la pratica: una promozione a maggiore, destinazione Jaipur. Ci sarebbe voluto un po’, ma finalmente stava per andare in porto. Edward non era uno sciocco, sapeva che alla fine la vita in India sarebbe stata più o meno la stessa. Ma visto che a quanto pareva non aveva scelta ed era destinato a concludere la sua carriera in cavalleria, tanto valeva cambiare aria. Dopo tutti quegli anni passati in Egitto, ne aveva bisogno. A Jaipur si sarebbe sentito diverso. Almeno per un po’.

    Si girò verso il finestrino e osservò la città che lasciava spazio al deserto. Già gli scorrevano davanti le dune. Aspirò la sigaretta, la carta crepitava, e sbuffò fuori il fumo, che usciva a spirali attraverso il finestrino aperto mescolandosi con la foschia bianca del deserto.

    Aveva fatto bene ad andarsene.

    Davvero, arrivati a questo punto, che cosa mai poteva trattenerlo in Egitto?

    «Livvy!», la chiamò Clara da sotto l’albero di fichi. «Spero che non ti dispiaccia se ci sistemiamo». Sorrise, rivelando le fossette sulle guance. Sistemò una coperta scozzese all’ombra e si sedette, le sottane di pizzo che si ripiegavano tutte intorno a lei, con il piccolo Gus che le farfugliava in grembo. Il figlio più grande, Ralph, aveva otto anni ed era sul prato accanto a loro, la faccia seria piena di lentiggini, in calzini, con le gambe tese. Conficcava a martellate i pioli del gioco di legno nel prato. Alzò lo sguardo su Olivia e la salutò oscillando il martello. «Ciao, zia Livvy».

    Olivia ricambiò il saluto. Mentre attraversava il prato, Clara indicò un cesto di vimini. «Arance», disse. «Le ho portate dal mio giardino, sono maturate prima quest’anno. Sarà il tempo sempre mite. Provane una, Livvy, si sono certamente maturate al sole».

    Olivia la ringraziò ma declinò l’offerta, spiegandole che le arance non le erano mai piaciute.

    Clara alzò il sopracciglio. «Ma se un tempo…».

    «Non credo».

    «Sì», disse Clara. «Mamma coltivava anche le arance. Ricordo che da piccola le mangiavi».

    «Sul serio?», Olivia si corrucciò, cercando di ricordare. Ma non le veniva alla mente nulla, c’era solo un grande vuoto nella sua memoria. Tutta la sua infanzia, prima che lei e Clara venissero separate, si riduceva a questo: la mattina in cui erano arrivate in Inghilterra, dopo la morte dei genitori, i gelidi docks di Londra, le lacrime di Clara, la sua disperata paura mentre la nonna le diceva dove doveva andare. Come se ci fosse un muro dietro il quale ogni cosa veniva cancellata: i suoi anni da piccola al Cairo, Clara da bambina, i volti dei loro genitori, il suono delle loro voci… Tutto sparito. Era Clara a conservare i ricordi, e ora glieli stava trasmettendo uno a uno. La tua vera educazione.

    «Di solito toglievo i semi per te», disse ora Clara fissando un’arancia. «Ti piacevano, te lo giuro».

    Olivia sospirò, disse di esserne sicura. Si lasciò cadere sulla coperta atterrando con un morbido tonfo. Si piegò verso Gus e gli fece il solletico sotto il mento. Lui si divincolò strusciandosi contro la veste di Clara. Le foglie gli facevano ombra sul viso. Così scuro, questo piccolo ometto, come se fosse stato cotto al sole nella pancia della mamma. Guardò Olivia circospetto. «Non preoccuparti», gli disse lei, «non ci provo a portarti via dalla tua mamma». Gli fece di nuovo il solletico. «Non oserei mai». Il bimbo si metteva sempre a strillare con tutti, tranne che con Clara.

    Clara gli diede un buffetto sulla guancia olivastra. «Piccolo mostro», disse con dolcezza.

    Arrivò la cameriera con una brocca di acqua alla menta e qualche biscotto al pistacchio. Bevvero e piluccarono mentre Ralph giocava. Clara sbucciò un’arancia e spremette il succo direttamente nella bocca di Gus. Ogni volta che Ralph faceva atterrare il cerchietto intorno al piolo, si girava e Clara emetteva un urletto esultante facendolo sorridere.

    Più a lungo Clara lo guardava, però, più un’ombra di tristezza le calava sul viso.

    «Va tutto bene?», chiese Olivia.

    «Sì, certo», rispose distrattamente la sorella.

    «Sembri triste».

    «No, no, per niente. Sto alla grande».

    «Non è vero», la smentì Olivia. «Diventi così british quando fai finta che vada tutto bene».

    «Davvero?». Clara sorrise.

    «Allora?», la pungolò Olivia.

    Lei alzò le spalle guardando Ralph. «Stavo solo pensando a lui che se ne andrà a studiare in Inghilterra. Solo questo. Luglio sembra così vicino».

    «Gli hai detto che sta per partire?»

    «No. Non posso farlo. E a quanto pare non ce la fa nemmeno Jeremy. Naturalmente sta aspettando che ci pensi io». Aggrottò le sopracciglia. «È un uomo tremendo».

    Non era insolito che Clara parlasse così del marito. Avrebbe potuto dire a Olivia che le cose non erano sempre andate così, che i suoi sentimenti erano diversi anni prima, quando lo aveva incontrato per la prima volta durante quel periodo a Londra. Jeremy era uno dei soci della vasta rete di piantagioni di cotone di Alistair, era venuto in Inghilterra con lui per affari, e Clara, presentata ad entrambi al ballo delle debuttanti, se ne era immediatamente innamorata (umiliando Alistair forse per sempre). Era così pieno di fascino… ma in questi giorni ne parlava sempre in cattivi termini. Diceva che era cattivo, odioso. Olivia non poteva crederci. Jeremy era così gentile con lei: ogni volta che passava a salutarla si fermava a lungo a chiacchierare e le chiedeva se riuscisse a sopportare la nostalgia di casa, se non trovasse intollerabile quel maledetto caldo e troppo dura la solitudine. Olivia lo rassicurava dicendogli che se la cavava benone (una bugia che le veniva naturale come respirare; un’eredità delle suore che molto tempo prima avevano cancellato in lei l’abitudine di rivelare qualsiasi insofferenza emotiva. Commiserarsi è un peccato. E cosa succede alle peccatrici? Già, esatto…). Ma dall’espressione di Jeremy si capiva che lui intuiva la verità. Sapeva che non era mai stata benone, almeno da quando Alistair aveva convinto sua nonna a esercitare i suoi diritti legali come tutore e a escluderla dalla sua eredità con la minaccia di lasciarla in povertà se non avesse accettato di sposarlo. Quindi, o le nozze o il ritorno in convento, ma questa volta per prendere i voti. Era grata a Jeremy per la sua disponibilità. Se fossero vissuti in un mondo in cui i pensieri erano davvero tutto quello che contava, la sua silenziosa empatia avrebbe rappresentato una vera ricchezza.

    Ma immaginava allo stesso tempo che quell’uomo potesse anche mostrarsi scostante con Clara. A quanto pareva tra di loro non parlavano che dei figli, in sostanza.

    Comunque Olivia era determinata a mantenere un atteggiamento equidistante in qualsiasi circostanza.

    «Voglio tenere qui Ralphy per un altro anno», disse Clara. «È ancora così piccolo. Il mio bambino». Fece una pausa, l’espressione sempre più accigliata. «Lo terrei con me per sempre».

    «E allora perché non lo fai?»

    «Perché Jeremy non me lo permette. Lui dice che non va bene per il bimbo, che abbiamo già aspettato fin troppo e che con il tempo sarà sempre più dura per lui, se continuiamo così».

    Ralph aveva raccolto i suoi cerchietti infilandoli nel piccolo braccio paffuto. Incrociò lo sguardo di Olivia e sorrise. Lei, pensando alla terribile solitudine che lo aspettava, riuscì a malapena a fare una smorfia per tutta risposta.

    Clara disse: «Ha scritto la nonna. Vuole venirci a trovare all’inizio di luglio per poi portare Ralphy con sé. Ha prenotato il viaggio».

    Olivia si girò, sgomenta.

    «Lo so», disse Clara, affranta come Olivia di fronte a quella prospettiva. «Le ho scritto per dirle che non dovrebbe prendersi il disturbo, ma non sono sicura che mi darà retta». Sollevò lo sguardo al cielo, gli occhi corrucciati per la preoccupazione. «Lo porterei io stessa ma Gus è troppo piccolo per un viaggio del genere e non posso lasciarlo qui, sarebbe troppo complicato».

    «Perché?», chiese Olivia. «Perché complicato?».

    Clara non rispose.

    Olivia disse: «Devi fare qualcosa, Clara. Non puoi permettere che quella strega ti sottragga Ralph».

    Ancora nessuna risposta.

    Olivia gonfiò le guance e sbuffò. Si sentiva male solo a pensare a Mildred. Non era solo il modo in cui aveva aiutato Alistair a sposarla con il ricatto, né il grande piacere con cui le aveva ricordato che, visto che i suoi genitori non avevano fatto testamento, lei deteneva il controllo completo della sua persona e dei suoi soldi fino a che non si fosse sposata. Sia chiaro, Olivia. Ti rimanderò in quel convento, non credere che non lo farò. A chi potresti chiedere aiuto? I tuoi amici non hanno mezzi a disposizione. Non vedi tua sorella da anni e presumo che si sia dimenticata completamente di te. No, era tutto il resto: quello che Mildred aveva fatto quando erano bambine. Olivia se la vedeva ancora lì al porto, con un vestito di seta nero, in attesa ai piedi della passerella mentre lei e Clara scendevano dalla nave di ritorno dal Cairo. Il fiato che le usciva dalla bocca, la soddisfazione che trapelava dalla sua vocina mentre diceva a Clara che l’avrebbe portata a casa a Mayfair, mentre per la piccola Olivia aveva trovato un’altra soluzione, un collegio dalle monache. Salutala rapidamente, ora. Le suore ti stanno aspettando, Olivia… E poi quello che era successo dopo… No. Olivia prese fiato.

    Rivolse di nuovo la sua attenzione su Clara. «Non puoi lasciare che arrivi», ribadì. «Non ce la faccio».

    «Neanche io».

    Nessuna delle due aprì bocca per un po’. Clara si gingillò con il vestito di Gus, poi sbucciò un’altra arancia e se la posò accanto senza mangiarla. Ralph lanciò altri cerchietti. Olivia scacciò le mosche.

    Poi, come sempre, Clara le chiese che sviluppi ci fossero stati con Alistair rispetto al giorno prima. E Olivia, come sempre, mentiva. Rispondeva inevitabilmente che andava tutto bene, più o meno, e riceveva in risposta il solito sorrisetto, afflitto e incredulo.

    Olivia afferrò un filo d’erba. Sentiva che Clara la stava guardando in attesa che dicesse di più. Ma non sapeva da dove cominciare per descriverle il suo matrimonio. E poi, a che scopo? Cosa poteva mai fare Clara? Non era neppure pensabile che Alistair la lasciasse andar via; ogni notte le ricordava che l’avrebbe scovata ovunque se solo ci avesse provato, che l’avrebbe fatta rinchiudere in manicomio come pazza piuttosto che liberarla dal giuramento matrimoniale.

    Olivia tirò l’erba e la strappò. Ralph lasciò stare i suoi cerchietti, corse verso di lei e si lasciò cadere al suo fianco. Lei cercò di sorridere e gli arruffò i capelli rossicci.

    Clara si sporse verso di lei, le prese le mani e l’abbracciò. «Mi dispiace così tanto», ripeté per la centesima volta. «Se solo avessi saputo che cosa stava progettando quando partì per l’Inghilterra, avrei potuto mandare dei soldi per aiutarti. Avrei potuto costringere la nonna a rivelarmi dov’eri. Ma lui non si era fatto sfuggire neanche una parola, né con me né con Jeremy…».

    «Non è colpa tua», disse Olivia.

    «Eppure è così che mi sento. Quello che gli ho fatto tanti anni fa, e anche Jeremy. Erano amici. Lui non ce lo perdonerà mai e tu ora ne stai pagando il prezzo».

    Olivia guardò il prato verso la baia. «Vorrei non esserci quando tornerà stasera». Le parole le uscirono di bocca ancora prima di rendersene conto. Fece una risata impacciata, perfino questa piccola dimostrazione di franchezza l’aveva messa a disagio.

    Clara le strinse la mano. «Lasciagli un biglietto. Spiega ad Alistair che hai appuntamento con me per cena. Jeremy ha detto che hanno un grosso contratto in ballo, lavoreranno fino a tardi. Se vieni via da qui per le sette, non lo incrocerai nemmeno. Prenoterò un tavolo al quartiere greco, non sei ancora mai stata al Sabia. Io potrei arrivare un po’ tardi, devo fare una commissione, ma tu puoi sempre bere qualcosa nell’attesa».

    Olivia annuì sollevata.

    Fadil, l’attendente di Edward, lo aspettava fuori dalla stazione di Alessandria, rigido e impettito nella sua divisa cachi troppo grande, la testa calva che luccicava al sole del tardo pomeriggio. Aveva portato due cavalli. Edward prese il suo stallone, dandogli una pacca sul manto di seta prima di dare la mano a Fadil, contento di rivederlo dopo tante settimane di lontananza. Non accadeva spesso che si separassero. Fadil aveva lavorato per Edward fino dal suo arrivo in Egitto, nel 1882, quando era stato istituito il protettorato britannico. Era un meraviglioso attendente e pure un ottimo soldato, e Edward di solito lo portava con sé ovunque andasse. Ma in quell’occasione aveva insistito per andare da solo al Cairo. Del resto le regole in quella guarnigione erano molto rigide, gli alloggi per i soldati egiziani erano molto sporchi. Edward non ci avrebbe mai lasciato neppure il suo cavallo, e di certo non avrebbe costretto Fadil a sopportare quel sudiciume.

    Non gli aveva scritto per avvertirlo che sarebbe andato in India. Quel segreto lo metteva in imbarazzo, ma non era ancora il momento, non ancora. Aveva chiesto a Tom di tenere nascosta la notizia anche agli altri uomini. Odiava gli addii e non aveva intenzione di cominciare con i commiati fino a quando non fosse stata fissata la data della partenza.

    Chiese a Fadil come gli era andata la vita nell’ultimo mese. Fadil rispose, come al solito: «Bene». Edward gli chiese notizie su ciascuno dei suoi luogotenenti, Fadil rispose che stavano bene e si addestravano tutti i giorni.

    «Naturalmente», disse Edward.

    Fadil gli consegnò un biglietto. «Da parte del colonnello, sir».

    Edward lo prese, soffocando uno sbadiglio. Colpa della carrozza del treno, soffocante e rovente. Lo aveva sfiancato. Studiò la calligrafia quasi illeggibile di Tom.

    Immy è furiosa per il tuo trasferimento, tutta colpa mia a quanto pare. Dice che per farmi perdonare vi devo invitare entrambi a cena questa sera. Incontriamoci al Sabia alle sette. Sarà bello rivederci, vecchio mio.

    Edward sorrise, nonostante la stanchezza, contento di passare la serata con Tom e la moglie. Aveva deciso di passare in caserma a cambiarsi. I suoi abiti eleganti erano appena tornati dal Cairo stirati di fresco, aveva con sé tutto quello di cui aveva bisogno. E al momento l’idea di tornare a casa di Alistair gli pareva insopportabile.

    Salì in sella e si allontanò dalla stazione con Fadil accanto. Attraversarono a cavallo il centro della città, con i suoi stucchi. Edward fissava i resti di un muro distrutto, un cumulo di rovine lì dove una volta c’erano degli uffici. Erano passati dieci anni e lui ancora si fermava davanti alle macerie. Erano i segni persistenti della distruzione causata dai cannoni della marina reale, quando avevano dovuto bombardare Alessandria dal mare prima che il chedivè si piegasse all’ordine britannico. Un intervento dettato dalla necessità, così si diceva allora, causato dagli scontri politici e dalle difficoltà di un Paese ormai fuori controllo – colpi di Stato, tumulti e così via. Tutti sapevano che in realtà c’entravano anche le ricche piantagioni di cotone egiziane, il lavoro a basso costo e l’accesso facilitato ai mercati d’Oriente.

    Ma è meglio non parlare di certe cose, ovviamente.

    Edward spronò il cavallo lungo le strade sinuose che portavano al porto. Erano piene di gente, anche a quell’ora tarda: l’acciottolato stretto tra i palazzi di pietra, i banchi del mercato, i negozi di frutta e i fornai. L’aria era gravida dell’odore intenso della frutta matura, spezie e cipolle stufate. Edward procedeva a zig zag evitando la folla. Quando raggiunsero la litoranea, Edward spronò entrambi i cavalli al galoppo, felice di essere all’aperto e di poter correre. Lasciò le redini e ammirò il blu profondo del Mediterraneo, l’esatto opposto del colore della polvere del Cairo. Accelerò. Più veloce. Un vento caldo gli veniva addosso intriso di sale. Lungo la strada i fiori del deserto si piegavano sui banchi di sabbia. Edward respirò profondamente l’aria fresca e profumata: una breve esplosione di vita prima che Alessandria tremolasse e appassisse nel calore dell’estate morente.

    Arrivò presto al ristorante e aspettò fuori, guardando l’ampio viale. Era uno dei quartieri ricchi, pieno di ville delle famiglie greche benestanti che nel corso dei secoli avevano attraversato il mare per fare di Alessandria la loro casa. Sui marciapiedi passeggiavano molte coppie ben vestite. I cipressi ondeggiavano pigramente nell’aria mite, il sole stava per tramontare. Edward aveva le gambe indolenzite per il troppo tempo passato a sedere sul treno. Decise di farsi una passeggiata.

    Fu allora che la vide mentre attraversava la strada, in un punto in cui stazionavano molte carrozze. Indossava un abito blu senza maniche ed era abbronzata. Una cosa insolita.

    Fu il primo dettaglio che notò.

    La donna alzò gli occhi verso l’insegna del ristorante, per verificarne il nome. Si morse le labbra.

    «Va tutto bene?», le domandò, cercando qualcosa da dire. «Si è persa?»

    «Non mi sono persa», disse lei. «Sto solo controllando di essere nel posto giusto».

    La sua voce fu la seconda cosa che lo colpì. Calda e morbida, così diversa dalle intonazioni secche e taglienti come vetro a cui era abituato.

    La donna entrò.

    E lui continuò a fissarla.

    Non riusciva a smettere di guardarla.

    Capitolo due

    Ovviamente la seguì. Era come se non avesse scelta. La guardò attraverso la nuvola del fumo dei sigari e i vapori dello champagne mentre le indicavano il suo tavolo. Dimenticò l’appuntamento con Tom, la cena fissata per la sua partenza dall’Egitto. Guardò le sue labbra che si muovevano mentre parlava al cameriere, il suo cenno di assenso a qualsiasi cosa le venisse proposta. (E queste furono la terza e la quarta cosa che notò). Il suo sguardo poi si fermò sulla linea degli zigomi, sugli schivi occhi a mandorla. C’era qualcosa di familiare in lei, ma non riuscì a individuare di cosa si trattasse.

    La donna alzò lo sguardo su di lui, poi subito lo ritrasse. Troppo repentinamente. Edward fu certo che quel disinteresse fosse calcolato. C’era una certa tensione nelle sue spalle nude. Se ne accorse e provò un brivido di trionfo.

    Lei lanciò un’altra occhiata nella sua direzione e inarcò le sopracciglia. Arrossì e non riuscì a trattenere un sorriso, sconfitta. Piegò la testa e i suoi boccoli castani oscillarono. Edward la osservò con aria soddisfatta. Gli piaceva quel sorriso.

    Era quasi arrivato al suo tavolo quando lei si accorse che si era

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