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Sei tutti i miei domani
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E-book643 pagine9 ore

Sei tutti i miei domani

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Info su questo ebook

Non puoi dimenticare il tuo primo amore. Il mio è un musicista perennemente in viaggio che è riuscito a guardare dritto nella mia anima. Sono passati quattordici anni ma non ho ancora dimenticato i suoi occhi, le cose che è riuscito a farmi provare. Ha mandato in frantumi tutte le mie certezze e i miei preconcetti. Ma mi ha anche spezzato il cuore. E quando la sua musica l'ha fatto diventare una star, ho continuato a esultare per lui. Come se fossi ancora la ragazzina innamorata di allora. Come se le nostre anime non avessero mai smesso di cercarsi.

Carian Cole
è nata e cresciuta nel New Jersey e adesso vive con il marito nel New Hampshire, circondata da una moltitudine di cuccioli. Ha una passione per i libri con protagonisti tatuati, selvaggi e un po' sfrontati. 
LinguaItaliano
Data di uscita22 ott 2019
ISBN9788822739087
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    Anteprima del libro

    Sei tutti i miei domani - Carian Cole

    Nota dell’autrice

    Questo romanzo tocca alcuni argomenti delicati come la depressione, la malattia mentale e l’uso di droghe. Se questi sono tasti dolenti per te, mi scuso in anticipo e ti consiglio di leggere con cautela.

    Grazie per aver scelto questo libro.

    Non svelare nulla agli altri lettori! Per favore, lascia delle recensioni prive di spoiler!

    Per Sherry…

    Mentre leggevi questo libro mi hai mandato un

    SMS

    :

    Ti voglio bene come amica e ti ammiro come scrittrice!.

    Vorrei poterti dire che anche io ti voglio bene e ti ammiro come lettrice.

    Sei stata molto più di un’amica e di un’attenta lettrice per me. Eri per molti versi la mia ancora di salvezza. Non credo che tu abbia mai capito quanto la tua amicizia e il tuo sostegno fossero importanti per me.

    Ti voglio bene, amica mia. Sono persa senza di te.

    Ogni parola che scrivo mi fa pensare a te. Non ti dimenticherò mai.

    Capitolo uno

    1998 – Piper

    Un menu scivola sulla mia scrivania e colpisce, rovesciandolo, il mio porta graffette.

    «Terra chiama Piper Karel», esclama la mia collega Melissa, ignorando il caos che ha appena creato. «Quanto può essere interessante lavorare alla reception? Ti ho chiamata almeno tre volte! Sto per ordinare il pranzo e poi vado a ritirarlo io. Vuoi qualcosa?».

    Sono le dieci e mezza del mattino e sto ancora sorseggiando il tè che mi sono preparata prima. Sono stata così impegnata a rispondere alle mail, che non ho nemmeno toccato la mia barretta ai cereali, figuriamoci se so cosa vorrei per pranzo. Mi chiedo cosa succeda alla casella di posta di Melissa, se pensare a mangiare è la sua priorità.

    Le restituisco il menu a quadri e sistemo le mie graffette nel loro contenitore rettangolare magnetico. «No, grazie, sto bene così».

    «Forse se ogni tanto pranzassi non saresti tanto magra, Piper».

    «Io pranzo, Melissa. Solo che preferisco farlo al parco e respirare un po’ d’aria fresca invece che stare chiusa in ufficio per nove ore di fila ogni giorno».

    «Ti perdi tutto il divertimento andandotene all’ora di pranzo. Le cose interessanti succedono proprio nella zona mensa».

    Ah, sì. Il gossip dell’ufficio. Proprio la scorsa settimana mi sono persa qualche scenata. Se mai fossi in lizza per una promozione, garantisco che non mi congratulerei con la mia rivale rovesciandole l’insalata addosso.

    «Mi piace starmene un po’ per i fatti miei», rispondo.

    «Giusto. Goditi il tuo pranzo solitario allora. Da sola. Come sempre». Butta i capelli dietro la spalla e si allontana con il menu sotto il braccio.

    Ho ventuno anni e sono la più giovane dell’ufficio. Lavoro per una piccola azienda nel campo della moda. La nostra linea d’abbigliamento sportivo è molto famosa qui e due stagioni fa abbiamo creato un paio di pantaloni da yoga in collaborazione con uno stilista di successo che ci hanno fatto puntare addosso i riflettori. Ho iniziato a lavorare qui come receptionist e segretaria part-time durante l’ultimo anno di liceo e, quando mi sono diplomata, sono passata al tempo pieno. Rispondere alle telefonate e scrivere mail non è proprio il mio ideale di carriera, ma almeno riesco a pagare le bollette. L’azienda sta crescendo con regolarità e ricercano spesso nuovo personale. Sto solo aspettando una posizione che stuzzichi il mio interesse, magari nel marketing o nello sviluppo dei prodotti. Per ora, sono contenta di imparare più cose possibili sull’azienda e sugli articoli che produce.

    Quando ho accettato questo lavoro, pensavo che sarebbe stato un nuovo inizio su tutti i fronti. Non vedevo l’ora di ritrovarmi in mezzo a gente che non sapesse quanto strana fossi sempre stata e pensavo che mi sarei fatta dei nuovi amici.

    Io ero la ragazza che aveva vomitato il primo giorno delle elementari e quella che era inciampata indossando dei tacchi neri e una minigonna il primo giorno di liceo. Caddi come un cerbiatto appena nato, con le gambe spalancate, mostrando le mutande con i gattini a metà della scuola. Non si sono mai dimenticati che ero quella che vomitava e non avevano certo scordato che mutandine buffe indossassi. I ragazzi mi hanno fatto le fusa e mi hanno miagolato attorno per mesi, soprannominandomi Vomicina.

    Bei tempi.

    Avevo molte aspettative riguardo l’entrare nel mondo del lavoro, in una vera atmosfera professionale. Non mi aspettavo di essere circondata da uomini sposati che ci provano con tutte le colleghe. O caffeinomani stressati che sbraitano contro i loro fogli di calcolo. Oppure donne che spettegolano e diffondono voci come se fossero pagate per farlo.

    Benvenuta nel mondo degli adulti.

    E sicuramente non mi sarei aspettata che Melissa, che si era diplomata un anno prima di me, iniziasse a lavorare qui qualche mese fa. Era una delle ragazze popolari della scuola. Aveva dei bellissimi vestiti, una splendida macchina, amici che pendevano dalle sue labbra e tutti i ragazzi più attraenti che le sbavavano dietro. La mia stranezza e le mie disavventure erano per lei grande fonte di divertimento al tempo. Ora è molto più discreta nel prendermi in giro, ma è lo stesso fastidioso.

    Poco prima di mezzogiorno, faccio due passi nel cortile dell’ufficio e qualcosa mi cade sulla testa. Pesante, morbido e… svolazzante? Sollevo la mano e sfioro il piccolo bernoccolo sulla tempia. Un minuscolo uccello azzurro si dimena per terra accanto al mio piede, poi prende il volo verso un albero vicino.

    Ma cosa diavolo…? Strizzo gli occhi toccandomi la tempia dolente, chiedendomi se il fatto che un uccello abbia potuto fiondarsi contro di me sia l’ennesima conferma della mia sfortuna.

    Sento delle risate fragorose alla mia destra. Melissa e una tizia della contabilità stanno fumando e mi guardano scuotendo la testa. Sono quasi certa di aver sentito che mi chiamavano cervello di gallina, anche se le galline non volano.

    Scuotendomi di dosso l’imbarazzo, prendo uno specchietto dalla borsa. Il parco tranquillo è a pochi isolati da qui, ma voglio assicurarmi di non avere uno squarcio sulla tempia che prolungherebbe solo la mia umiliazione. Quello che credo sia stato il punto d’impatto mi fa male ma, dopo un’attenta ispezione, non vedo sangue, solo un lieve rossore… e una piuma blu appiccicata alla fronte.

    «Diavolo d’un uccello…», borbotto mentre mi libero della traccia del pennuto.

    Un clacson suona e io sobbalzo facendo cadere lo specchietto che si infrange ai miei piedi.

    Merda.

    «Fa’ attenzione, idiota!», grida la conducente. Mi accorgo spaventata che senza accorgermene stavo attraversando un incrocio trafficato. La donna alla guida della berlina marrone sterza per evitarmi e i frammenti dello specchio volano dall’altro lato della strada, mentre, mormorando appena, tento di scusarmi.

    Maledetti lunedì. Se un gatto nero mi attraversa la strada, mollo tutto e torno a casa a nascondermi al sicuro sotto il piumone.

    Mentre mi avvicino alla panchina che occupo per i miei pranzi da ormai tre mesi, noto qualcosa di diverso nella brezza che mi circonda ma non riesco a capire di cosa si tratti. Il solito suono delle risate dei bambini e il fruscio delle foglie sembra attutito, come se fosse solo un sottofondo. Sono colpita da qualcosa che non ho mai sentito prima – una leggera musica acustica.

    L’invitante melodia si fa più nitida a ogni passo. La fonte delle note non è lontana da quella che io considero la mia panchina. Mi sorprende vedere che non si tratta di una radio come avevo pensato, ma di un ragazzo sui venticinque anni, seduto a terra con una chitarra. È appoggiato contro un muretto di mattoni. Un piccolo cane marrone dalle orecchie pendenti e con una bandana nera al collo gli sta accanto.

    Quando gli passo davanti per arrivare alla panchina, noto che quasi ogni centimetro visibile della sua pelle, fatta eccezione per il viso, è coperto di tatuaggi. Disegni neri tribali fanno capolino dai buchi dei jeans logori. Visi, fiori e nuvole gli rivestono le braccia e proseguono sui dorsi delle mani e sulle dita talentuose. Ahi. Io ho un tatuaggio sul polso – una piccola coccinella su una foglia – e mi ha fatto malissimo. Essere trafitto con un ago sulle ginocchia e sui gomiti deve essere terribile.

    Forse è una di quelle persone a cui piace il dolore.

    Osservo il musicista con fare curioso ma più discreto possibile, poi mi distraggo prendendo il mio sandwich al pollo dalla borsa termica. Armeggio un po’ con la pellicola trasparente che lo avvolge, che ora è tutta arrotolata e mi si incolla addosso come un ex fidanzato.

    Il chitarrista ha lo sguardo rivolto verso il basso e i lunghi capelli castani gli pendono sul viso e sulle spalle. È totalmente immerso nella canzone. È una melodia sognante e ipnotizzante e sembra che siano più chitarre a suonarla, non solo una. Non so assolutamente nulla sugli strumenti musicali, ma lui mi sembra incredibilmente bravo.

    Mastico il mio sandwich mentre una piccola folla si raduna intorno al musicista. Lui continua a suonare senza alzare gli occhi. L’unico segnale del fatto che sappia di avere un pubblico è il veloce cenno col capo che rivolge a chi butta qualche moneta nel barattolo di vetro che ha di fronte. Immagino che non ci sia bisogno che li ringrazi, perché il suo cane agita la zampa a ogni benefattore.

    Mi sarei aspettata che le persone accarezzassero l’animale sulla testa per complimentarsi del suo talento, ma nessuno lo fa. Il cane ha infatti la stessa aria intoccabile del suo compagno, come se di fronte ai due ci fosse un invisibile cartello con scritto: Guardate, ascoltate e godetevi la musica, ma non toccate.

    Sono affascinata e probabilmente sto masticando con la bocca aperta mentre mi sporgo in avanti per sbirciare la scena tra due donne che portano grossi sacchetti neri. Sono inspiegabilmente attratta dalla sua voce e dal suo aspetto. Sembra unico, difficile da descrivere ma bello in modo rude.

    Il suo sorriso malinconico porta con sé una punta di sensualità. È come un’eclissi – allo stesso tempo buio e luminoso e impossibile da guardare a lungo, sembra bruciare gli occhi.

    Aggrotto la fronte quando le due donne con i sacchetti gli buttano pochi spiccioli nel barattolo e si incamminano verso l’uscita del parco. Lanciare qualche centesimo in una fontana è accettabile, ma darli a una persona? A me sembra sbagliato. Vorrei dargli pezzi da cinque, da dieci o da venti dollari, non monetine da pochi centesimi. Anche se lui non sembra per nulla infastidito, io sono offesa per lui.

    Bevo un sorso d’acqua dalla mia bottiglia, mi sfilo i tacchi neri bassi e sistemo i piedi sotto il sedere. Tiro fuori un libro dalla grossa borsa di ecopelle. Quest’ora a metà giornata è il mio momento per rilassarmi e perdermi nella lettura. Per dimenticarmi che vivo ancora con i miei genitori e la sorella adolescente che ha più vita sociale di me.

    Alle dodici e cinquanta mi rinfilo le scarpe. Vorrei poter stare qui tutto il giorno, finire il romanzo rosa che sto leggendo e sentire la prossima canzone del chitarrista. La sua musica ha cancellato il mio fastidio per l’uccello che mi ha sbattuto contro la testa e per il conducente urlante.

    Con riluttanza, prendo la borsa del pranzo e torno in ufficio, sorridendo al ragazzo mentre gli passo davanti. Lui picchietta gli anelli argentati contro il corpo della chitarra mentre passa da un pezzo all’altro – ora è il momento di una famosa canzone rock. Non ricordo il titolo, ma so che mi rimarrà in testa per tutto il pomeriggio.

    Martedì pomeriggio il chitarrista ricoperto di tatuaggi è di nuovo al parco. Questa volta suona una musica diversa dal ritmo spagnoleggiante. È veloce e coinvolgente – un’esplosione di energia sotto il cielo grigio.

    Sono un po’ infastidita quando mi siedo sulla panchina. Questo è il mio posto, quello in cui vengo a rilassarmi ogni giorno, e ora lui l’ha invaso con le sue note e il suo strano fascino magnetico. Oggi avrei voluto cedere al grigiore ed essere triste come le nuvole scure. Ma la sua musica, unita al movimento della testa e alla bandana disgustosamente tropicale al collo del cane, rendono tutto ciò impossibile.

    Alza lo sguardo e incontra i miei occhi mentre mastico il sandwich. Mi fissa sornione proprio come fa il mio gatto. Mi sento quasi ipnotizzata e con la testa leggera, così mi volto e lancio un pezzetto di pane a un piccione impaziente. Qualche istante dopo, con la coda dell’occhio noto che mi sorride giocosamente mentre si scosta i capelli dal viso, come se sapesse di avermi fatto sentire stupida per un attimo.

    Mi si stringe lo stomaco e do ancora qualche briciola all’uccello. Rivolgo lo sguardo di nuovo al musicista e il mio cuore salta un battito. Mi sta ancora fissando.

    Mi strizza l’occhio e mi rivolge il sorriso più sexy che io abbia mai visto su un uomo, poi torna a concentrarsi sulla chitarra.

    Decisa a nascondere il mio interesse per quello che mi sembra un subdolo flirtare, prendo il libro dalla borsa. Ma nemmeno il meteo mi permette di distrarmi dal chitarrista, infatti una leggera pioggerellina inizia a scendere prima che apra il volume. Anche la minima umidità basta a far sembrare i miei capelli vittima di una brutta permanente che non mi sta per nulla bene.

    Quando la pioggia aumenta d’intensità, mi stringo la borsa e il libro al petto per non bagnarli e mi affretto verso il gazebo più vicino. Maledico me stessa per non aver portato un ombrello oggi. Ne ho sparsi ovunque – circa venti a casa, cinque in ufficio e due in macchina. Ma mai uno quando serve.

    Una volta raggiunto il riparo, passo le dita tra i lunghi capelli già fradici che iniziano ad arricciarsi alle estremità. Diavolo.

    «Merda», commento tra i denti. Il contorno del reggiseno e i capezzoli sono chiaramente visibili sotto la mia camicetta di seta bianca.

    «È solo un po’ di pioggia». La voce profonda e misteriosa mi fa sobbalzare e mi volto. Sotto il gazebo con me ci sono il chitarrista e il suo cane. Appoggia la vecchia custodia consunta della chitarra e un borsone stracciato sul pavimento di legno, poi passa le mani sul pelo del cane, parlando con tono dolce. Non sento cosa dice, ma sono curiosa.

    Rabbrividendo, incrocio le braccia al petto per coprire i seni.

    «Se è solo pioggia, perché sei qui sotto? Hai paura che si arriccino anche a te i capelli?». Lo dico in tono scherzoso, ma il mio cuore batte a mille mentre mille domande mi passano per la testa. Mi ha seguita? Perché? Cerca solo di ripararsi dalla pioggia o mi sono resa un bersaglio facile per chissà cosa, stando da sola sotto un gazebo?

    Si asciuga le mani sui jeans sporchi e indica il cane. Con voce bassa, come se mi rivelasse un segreto, mi dice: «Non gli piace bagnarsi».

    La mia ansia si placa mentre lo vedo prendersi cura del suo cane con dedizione. Questo ragazzo sembra innocuo, ma sorrido e mi allontano lo stesso da lui, abbassando lo sguardo sull’orologio. Ho quasi finito la pausa pranzo.

    Il mio compagno di gazebo alza gli occhi al cielo. «Smetterà tra pochi minuti, è solo un acquazzone».

    Annuisco in risposta e la mia attenzione si posa sull’orecchino che porta. Una piccola piuma azzurra appesa a un gancio d’argento gli si posa sui lunghi capelli castani. Fa molto rocker e mi ricorda l’uccellino che mi ha sbattuto contro la testa ieri, lasciandomi una penna sulla fronte. Mi chiedo se fosse una specie di premonizione, un segno.

    «Lavori qui vicino? O vai al college?», domanda.

    «Lavoro in un ufficio a pochi isolati da qui, in quella direzione». Indico la destra, anche se il mio ufficio è a sinistra. «E tu invece?».

    Lui piega il capo di lato. «Proprio qui».

    «Quindi…».

    Con un cenno d’assenso, estrae un pacchetto stropicciato di sigarette dalla tasca della camicia e ne prende una con le labbra. Rimette via la confezione e tira fuori un accendino nero dai jeans. «Sì. Vivo e lavoro qui». Piega la mano tatuata intorno alla sigaretta per proteggerla dal vento mentre la accende.

    Oh. Non avevo mai parlato con un senzatetto. Li ho solo visti in giro. Ma parlarci? Mai. Un altro brivido mi percorre la schiena. Stringendo le braccia contro il petto, mi appoggio alla ringhiera, avvicinandomi la borsa in modo che non possa rubarmela. Probabilmente gli servono soldi per mangiare, ma potrebbe anche essere un tossico in cerca di una dose. Che si fottano la pioggia e i capelli gonfi, dovrei correre via prima…

    «Questa è una delle città più belle in cui sia mai stato». La sua voce interrompe i miei pensieri. «La gente è amichevole, non mi trattano come se facessi schifo». Sputa una nuvola di fumo e spegne la sigaretta ancora a metà contro la suola della scarpa di cuoio. Mi aspetto che butti il mozzicone nel prato, invece se lo mette in tasca.

    Il senso di colpa mi stringe la gola. Rilasso le braccia e sollevo gli occhi per incontrare i suoi. Non è uno sguardo minaccioso né da invasato. Sono occhi azzurri, del colore del cielo poco prima che diventi sera, in quell’istante di transizione tra un giorno e l’altro. Forse rispecchiano il suo essere e anche lui sta attraversando un momento di passaggio da una fase della vita all’altra.

    Guardiamo la pioggia cadere aspettando che smetta, ma io vorrei che continuasse. Sono gocce lente, mi cullano e mi danno pace. Il parco è vuoto, fatta eccezione per questo ragazzo senza tetto e con quegli occhi incredibili, il suo cane e io. Quando l’acquazzone si placa, sono in ritardo di quindici minuti sulla mia pausa pranzo, ma non ho fretta di rientrare. C’è qualcosa nello stare con questo silenzioso sconosciuto che mi conforta. Lasciamo il gazebo insieme e, con il cane alle spalle, percorriamo il vialetto che riporta alla mia panchina, alla sua postazione e all’ingresso con il cancello di ferro battuto.

    «Non c’è nulla di più promettente e bello di un cielo grigio e di un arcobaleno», esclama mentre camminiamo.

    Aggrotto la fronte e aspetto che si spieghi meglio. Riprende il suo posto contro il muretto di mattoni di fronte alla panchina. Si siede sul pavimento bagnato e io mi chiedo se l’acqua, oltrepassando i pantaloni, gli darà fastidio o se è abituato ad avere gli abiti fradici. Non aggiunge altro, gli rivolgo un’ultima occhiata e torno verso l’ufficio senza salutarlo.

    Quando oltrepasso il cancello e aspetto di poter attraversare la strada trafficata, lo vedo – un arcobaleno che si staglia contro il cielo nuvoloso. E ha ragione. È bellissimo e promettente.

    Capitolo due

    Piper

    Il chitarrista è di nuovo qui oggi e mi rivolge un sorriso di saluto quando mi vede. Timidamente ricambio e mi siedo sulla mia panchina, fingendo di essere impegnata con il contenitore di plastica della mia insalata. In realtà sono concentrata solo sulla sua bellissima versione di Für Elise che riempie l’aria. Suona con tanta profondità ed emozione che mi viene la pelle d’oca quando aggiunge una nota all’altra.

    Musica pop, rock, classica… c’è qualcosa che questo ragazzo non sappia suonare?

    Un uomo in giacca e cravatta gli lancia pochi centesimi nel barattolo e io vorrei infilargli nel sedere la sua borsa di pelle nera con le iniziali. Non riconosce una bella musica quando la sente? Con quegli spiccioli ci si compra una gomma da masticare o un giro su una giostrina fuori dal supermercato. Non si paga per della musica classica live. Sbuffo. Mi ci vuole un minuto per trovare il portafoglio rosa, ben nascosto nel disordine della borsa.

    Ho un biglietto da cinque dollari e uno da venti. Mordicchiandomi un labbro, guardo il musicista. Mi piace osservarlo, anche se non è il mio tipo. Nemmeno un po’. Sembra Gesù con quei lunghi capelli e gli occhi color blu jeans, completati da quell’aura eterea che lo circonda. Sono certa che Gesù non assomigli a un musicista di strada senzatetto ma, se dovesse farci visita quaggiù, credo che potrebbe avere queste sembianze. Le persone penderanno dalle sue labbra, soprattutto le donne, perché possiede una specie di strana attrattiva sessuale. Il chitarrista, non Gesù.

    Ho ancora le mani infilate nella borsa e tengo tra le dita il pezzo da cinque e quello da venti. Il primo non sembra abbastanza per compensare il suo talento. Ma dargli quello da venti potrebbe essere troppo – non voglio sembrare una disperata che tenta di comprare la sua attenzione. O potrebbe anche pensare che sono una ragazzina viziata che fa l’elemosina a un senzatetto sporco e sexy.

    Mi sembra però di dovergli dare qualcosa, visto che sono stata seduta qui tutta la settimana godendomi la sua musica, anche se provo a fingere di non notare né lui né i fluidi movimenti delle sue mani. Né il modo in cui la piuma, mossa dalla brezza, gli accarezza la guancia. Né come i suoi occhi mi seguono quando entro nel parco. Neppure come gli si chiudono lentamente le palpebre quando si perde nella canzone che suona. Ma solo perché noto tutte queste cose non vuol dire che lui mi interessi in quel senso. I senzatetto con orecchini di piume non mi interessano. Voglio solo mostrargli che apprezzo il suo talento. Un semplice ringraziamento può cambiare la giornata di una persona.

    Mentre continuo a pensare al biglietto da cinque e a quello da venti, mi accorgo di un uomo a un chiosco all’altra parte del parco. Sì! Il cibo è senz’altro una scelta più prudente. Infilo il contenitore dell’insalata nella borsa e mi incammino.

    «Cosa le servo?», chiede il tizio dal banchetto quando mi avvicino.

    Osservo il menu plastificato incollato davanti al carrellino d’acciaio e mi chiedo se il chitarrista preferisca gli hot dog o gli hamburger. E se fosse vegetariano? Tormento tra le dita il ciondolo a forma di cuore della mia collana. Forse sarebbero stati meglio i soldi, dopotutto.

    «Signora?», insiste il venditore, anche se non c’è nessuno in coda dietro di me.

    «Prendo un cheeseburger, un hot dog senza pane, una bottiglia d’acqua e un tè freddo zuccherato», dico in fretta. «E posso avere anche una ciotolina vuota?».

    Lui mi rivolge uno sguardo irritato mentre fa girare un hamburger sulla piastra in miniatura. Pochi minuti dopo, il mio stomaco gorgoglia quando riveste il panino e lo infila in una busta di plastica con il resto delle cose. L’insalatina che ho preparato per pranzo non regge il confronto con un hamburger succoso, ma sono determinata a proseguire con il mio proposito del mangiar sano.

    Dopo aver pagato, sento che i gorgoglii della fame si trasformano in spasmi nervosi mentre percorro il vialetto in direzione del musicista. Aspetto a lato che finisca la canzone che sta suonando perché non voglio interromperlo. La coppia che lo sta ascoltando sorride, gli fa i complimenti e poi i due si allontanano mano nella mano. Non gli danno un centesimo. Mi chiedo lui cosa provi. Si sente rifiutato? Poco apprezzato? O magari non gli importa e gli piace solo suonare per la gente.

    Mi fissa quando, imbarazzata, gli porgo il sacchetto. Ora che gli sono più vicina di quanto non fossi nel gazebo, vedo i suoi denti bianchi perfetti e una minuscola fossetta nella guancia sinistra. «Ti ho preso un hamburger e un tè freddo. E un hot dog e dell’acqua per il tuo cane». Cerco di non perdermi nel reame senza fine dei suoi occhi che mi studiano. «Non devi mangiarlo se non vuoi», continuo, sperando di non averlo offeso o di non avergli preso qualcosa che non gli piace. «Ho tirato un po’ a indovinare».

    Un sorriso gli piega le labbra. «E ci hai preso. Avevo una voglia pazzesca di hamburger. Stare seduto qui tutti i giorni e sentire il profumo di quel carretto del cibo mi stava facendo impazzire». Si alza, torreggiando su di me e facendomi sentire ancora più bassa del mio metro e cinquanta. «Per poco non mi sono spostato dall’altra parte del parco, ma non volevo rinunciare alla vista della mia panchina preferita».

    Seguo il suo sguardo e il mio cuore salta un battito o due o forse venti quando capisco che si riferisce alla mia panchina.

    Il chitarrista senzatetto sta flirtando con me?

    «Ti siedi con me mentre mangio?», domanda.

    L’invito rimbalza tra i miei pensieri come una pallina da ping-pong. Anche se è carino, diffido dal sedermi con un senzatetto. Non ho alcuna prova che non sia un ladro, un assassino o un criminale di altro tipo. Potrebbe nasconderlo molto bene, alcuni ne sono capaci.

    Almeno, è così che succede nei libri e nei film. Forse guardo troppo programmi alla sera tardi… qualcuno è sempre una vittima o un sospettato.

    Osservo il parco intorno, sapendo che dovrei educatamente declinare, ma sono troppo attratta da quella piccola scintilla che ho sentito quando mi ha invitato a sedermi con lui. A parte la pizza con tutti gli ingredienti possibili e un gelato nel cono, ci sono poche cose che mi fanno provare quell’emozione.

    «Dai», esclama. «Mi fa piacere chiacchierare con qualcuno». Accarezza con affetto la testa del cane. «Lui è un gran ascoltatore, ma non parla un granché».

    Il suo sorriso supplichevole mi convince a cedere. Tengo in mano la busta con il cibo mentre lui chiude la chitarra nella custodia e infila il barattolo nella borsa. Seguo lui e il cane in un posto un po’ defilato, un tavolo da picnic vicino a un vecchio ponte di pietra che si allunga sopra una strada inutilizzata da anni. Il cuore batte un po’ più forte per l’inquietudine quando mi guardo alle spalle. Ci sono circa una ventina di persone in diverse zone del parco, la maggior parte abbastanza vicine da sentirmi se urlassi a squarciagola cercando aiuto. Lo raggiungo al tavolo di legno.

    In realtà, penso che sia il realizzare lentamente che potrebbe davvero piacermi questo ragazzo e che potrei voler passare del tempo con lui a rendermi tanto scettica, più che la possibilità che possa avere intenzione di farmi del male.

    Il battito del mio cuore torna a normalizzarsi quando riempie la ciotola d’acqua e spezza l’hot dog in piccoli bocconi per il cane. Poi scarta il suo panino. È la seconda volta che lo vedo dimostrare tanta cura nei confronti del cucciolo e lo trovo molto tenero. Dimostra che non è un coglione e, nella mia ingenua mente da ventunenne, anche che probabilmente non mi farà del male. I serial killer torturano gli animali. Non si preoccupano che si bagnino e non darebbero mai da mangiare a loro prima che a sé stessi.

    Geme mentre mastica l’hamburger e la grezza sensualità di quel suono mi fa avvampare. Incrocio le gambe e mi concentro sul cane che beve.

    «Mmm… è davvero squisito». Fa un altro morso con gli occhi chiusi e geme ancora. «Grazie». Mi porge il panino. «Ne vuoi? È buonissimo».

    «No, grazie». Mi scosto. I germi mi terrorizzano. Non condivido mai i drink con le altre persone né uso il sapone a casa d’altri, a meno che non sia nel dispenser e sia quindi liquido. Tengo anche dei fazzoletti in borsa in caso debba usare un bagno pubblico. Chi può sapere chi ha toccato la carta igienica? O se è rotolata sui pavimenti luridi prima di essere messa a posto?

    «Ho già pranzato. Volevo solo portarti qualcosa per ringraziarti della tua musica. Ormai non vedo l’ora di ascoltarla ogni giorno».

    «Quindi hai preso la scorciatoia per il mio cuore e mi hai portato del cibo quando stavo morendo di fame. Bella mossa, rubacuori».

    Mi si infiammano le guance mentre lui sorseggia il tè freddo e il bordo della bottiglia preme contro le labbra carnose. Diavolo. È troppo bello e talentuoso per essere un senzatetto che suona in un parco in questa piccola città del New England.

    Dopo aver divorato l’hot dog e finito l’acqua, il cane mi sfiora la mano con il muso in cerca di carezze. Sorridendo, passo la mano sulle sue morbide orecchie, sperando che non abbia le pulci e che le mie dita non finiscano per puzzare di cane. Il mio gatto Archie probabilmente mi morderebbe se fiutasse l’odore di un altro animale. È molto possessivo e territoriale.

    «Come si chiama?», domando.

    Il chitarrista finisce l’hamburger e infila la carta che lo avvolgeva nel sacchetto. «Vuoi sapere il suo nome ma non il mio?», scherza fingendosi offeso.

    «Puoi dirmi anche il tuo nome».

    «Lui si chiama Acorn. È il mio migliore amico e compagno di viaggio da due anni».

    Sorrido per il nome particolare. «Gli sta bene. È adorabile».

    Annuisce e appoggia la mano sulla schiena del cucciolo. «È fedele. E intelligente. Ci ho messo poche ore per insegnargli ad alzare la zampa quando qualcuno ci dà dei soldi».

    Accarezzando le orecchie di Acorn, noto che il ragazzo mi sta fissando. Non distoglie lo sguardo, ma io sì. «E il tuo nome?», chiedo, concentrandomi sul cane tra noi.

    «Evan. Ma gli amici mi chiamano Blue».

    Mi faccio coraggio, lo guardo e gli sorrido timidamente. «Piacere di conoscerti, Evan».

    Lui stringe gli occhi, come se soffrisse per un forte dolore e il lato sinistro della bocca si piega in una smorfia. «Non mi hai chiamato Blue».

    «Be’… non credo che siamo già amici».

    Annuisce piano. «Hai ragione. Potremmo finire per essere molto di più. O meno». Si scosta le lunghe ciocche di capelli dal viso, scoprendo la barbetta incolta sulle guance. Non l’avevo mai notata prima, quindi probabilmente si rade spesso. O qualcosa del genere. Invidio i suoi zigomi definiti. «Il tempo ce lo dirà».

    Non riesco a immaginare per noi niente di più che essere una ragazza che pranza al parco e un musicista di strada senzatetto, ma lascio che lui abbia fede nel tempo e in quello che potrà svelare.

    Si appoggia contro il tavolo e allunga le gambe. Le suole dei suoi stivali neri sono molto consunte. «Ora dovresti dirmi il tuo nome».

    «Oh. Piper».

    Ripete il mio nome e, sulle sue labbra, acquista un suono diverso, mai sentito prima, come se fossi un essere speciale e mistico.

    Vorrei essere speciale e mistica ma… non lo sono.

    «Che nome strano. Vuol dire qualcosa? Ha un significato per i tuoi genitori?».

    Scuoto la testa. «No, a mia madre piaceva come suonava. A quanto pare ha comprato un mucchio di libri di nomi per bambini quando era incinta e ha scelto Piper. A mio padre non piace. Pensa che sia un nome da spogliarellista».

    Ride di gusto. «Non ho mai conosciuto una spogliarellista di nome Piper e ne ho incontrate molte».

    Rido con lui. «Mi sono sempre chiesta perché mio padre pensasse alle spogliarelliste, ma forse è meglio che non indaghi».

    «Concordo».

    Uno sguardo all’orologio mi dice che sono in ritardo di cinque minuti per il lavoro, ma non vorrei lasciare il parco e tornare in ufficio a rispondere al telefono per il resto del pomeriggio. Lì dentro il tempo scorre lentissimo come se, non appena varco la soglia, l’orologio si arrestasse, facendo durare ogni minuto un’eternità. Ma non so come mai, la mia pausa pranzo vola in un batter d’occhio.

    «Non è bello dover seguire un orario, eh?», domanda Evan.

    Sospiro, ma non mi muovo. «No, per niente».

    «E allora non tornare a lavorare. Passa la giornata come vuoi. Vai a fare shopping. Va’ a casa e dormi. Prendi la macchina e guida senza meta. Siediti qui con me e guarda la gente passare».

    Quanto sarebbe bello fare una qualunque di queste cose. «Non posso farlo».

    «Perché?»

    «Perché mi licenzierebbero, ecco perché».

    «E sarebbe così male?».

    Aggrotto la fronte. «Certo. Non posso non lavorare. Sarei sul lastrico nel giro di un mese. Non avrei più la macchina. Non potrei comprarmi dei vestiti o pagare l’affitto…».

    Vorrei rimangiarmi tutto quello che ho detto. Probabilmente ho insultato l’unico ragazzo con cui avevo sentito una specie di connessione o con cui parlo seriamente da mesi. «Mi dispiace», dico in fretta. «Non volevo…».

    Alza le spalle con noncuranza. «Non scusarti. Mi va bene quello che sono e quello che faccio. Ho scelto io di vivere così».

    Lo guardo stringendo gli occhi, chiedendomi se ho sentito bene quello che ha detto. «Hai scelto di essere un senzatetto?».

    «Sì. Un giorno ho preso la chitarra, una sacca di vestiti e ho iniziato a camminare. E non ho più smesso». I suoi occhi incontrano i miei, sono azzurri e sereni con un guizzo selvaggio. «Non mi sono ancora fermato».

    La mia mente si riempie di immagini di Evan che cammina senza sosta da una città all’altra con Acorn, che dorme tra i cespugli e si ripara sotto i ponti quando piove, con le auto che gli corrono sulla testa. Sono affascinata ma anche sconvolta dall’idea di scegliere di vivere per strada. Solo pensare a come vive – senza un letto pulito per dormire – mi fa prudere la pelle.

    «Non ti preoccupi di non riuscire a mangiare… non ti chiedi dove dormirai? O, non so, non ti domandi dove potrai fare la doccia?».

    Scuote la testa e la piuma dell’orecchino sbatte contro la criniera di capelli. «No. Alla fine si aggiusta tutto. Come oggi. La ragazza che punto da giorni ha portato a me e al mio cane il miglior pranzo che potessi desiderare e adesso mi sta parlando».

    Arrossisco e ora vorrei poter non tornare al lavoro e stare seduta qui a parlare con lui. Ma devo rientrare in ufficio, così mi alzo e mi pulisco il retro dei pantaloni.

    Prima che me ne vada, lui mi afferra la mano e la avvicina a sé per osservare il mio piccolo tatuaggio sul polso.

    «Le coccinelle dovrebbero portare fortuna», dice.

    «Lo so». È per questo che me la sono fatta. Perché le coccinelle sono carine, graziose e portano fortuna. Tutto quello che vorrei essere io. Ma invece sono goffa, imbranata e piuttosto sfortunata.

    «Lo sapevi che in Norvegia c’è un mito secondo cui se un uomo e una donna vedono una coccinella nello stesso momento, si innamoreranno e staranno insieme per sempre?».

    Il calore delle sue dita sulle mie mi dà conforto, come infilare un paio di pantaloni della tuta in un giorno freddo. Lentamente scosto la mano dalla sua.

    «No, non lo sapevo». Come fa a conoscere i miti sugli insetti in Norvegia? È un chitarrista e anche entomologo?

    «Abbiamo appena guardato insieme la tua».

    «Questa non conta», rispondo con un sorriso. «È un tatuaggio, non una coccinella vera. E poi, non siamo in Norvegia».

    «Be’, scopriremo comunque se il mito è vero, no?». Sorridendo raccoglie le sue cose e si allontana con il cane. Dopo aver fatto qualche passo, si volta e mi rivolge un’espressione che è uno scioccante mix di infantilità e di sex appeal. Scuoto la testa mentre lui torna verso il parco.

    Mi sforzo di non guardare come i jeans gli avvolgano perfettamente il sedere e come i capelli gli sfiorino la schiena, quindi mi incammino nella direzione opposta. Stasera dovrò lavorare mezz’ora in più per rimediare al ritardo, ma non importa. Ho fatto la mia buona azione oggi e ho portato il pranzo a un senzatetto. Anche se afferma di non avere una casa e un lavoro per sua scelta, non ci credo. Nessuna persona sana di mente farebbe una cosa del genere.

    «Tesoro, se fai tardi per cena, dovresti chiamare. Iniziavo a preoccuparmi». Mia madre sbircia nel forno guardando qualsiasi cosa stia cuocendo lì dentro.

    «Mi dispiace. Ho dovuto lavorare un po’ di più e poi sono rimasta bloccata nel traffico». Per la milionesima volta, desidero che il minuscolo spazio che affitto nel seminterrato dei miei genitori abbia una cucina invece che un frigo striminzito, un fornello singolo e un microonde sistemato in una piccola nicchia. Se potessi cucinare davvero in casa mia, non cenerei ogni sera con i miei e mia sorella e mi sentirei più indipendente.

    Mamma si sistema dietro l’orecchio i capelli neri. «Non lasciare che ti sfruttino in quell’ufficio, Piper. Si inizia sempre con mezz’ora, poi diventa un’ora. So bene come i manager possano approfittare degli impiegati più remissivi».

    Rabbrividendo al modo in cui mi descrive, appoggio la giacca su una sedia al tavolo della cucina e tiro fuori quattro piatti dal pensile sopra il bancone.

    «Non approfittano di me, mamma. Ho tardato nella pausa pranzo, così mi sono dovuta fermare di più. Tutto qui».

    Prendendo le presine, tira fuori dal forno un polpettone e ne chiude lo sportello con il ginocchio. «Ho lavorato a lungo in ufficio. So che alcune persone si fanno mettere i piedi in testa e si fanno sfruttare e non voglio che tu sia trattata così. Una volta che ti etichettano, non cambiano più idea su di te. Devi tenere la schiena dritta, okay?».

    «Lei? La schiena dritta?», ripete Courtney, la mia sorella minore, entrando in cucina. «È la persona più rammollita che conosca».

    «Oggi ve la prendete tutti con me?», domando, sistemando i piatti sul tavolo di legno. La nostra sala da pranzo formale – con una bella vista sui fiori del giardino – rimane inutilizzata e viene sfruttata solo per le vacanze o per eventi speciali. Se io avessi una bella sala da pranzo, ci mangerei ogni sera, anche se consumassi solo dei noodle da sola.

    I commenti di mia madre e mia sorella mi riportano alla mente i ricordi troppo familiari dell’essere la figlia di mezzo, schiacciata tra due sorelle vicine alla perfezione. Sono entrambe bellissime, alte, sicure, atletiche, delle bellezze dai capelli corvini. Sono aggraziate, popolari e eccellono in qualsiasi cosa venga loro in mente di fare.

    Poi ci sono io, che di certo non passo inosservata con i miei capelli biondi e gli occhi chiari. Sono così bassa che la mia testa arriva a malapena alle loro spalle. Sono timida, introversa e sembra che sia sempre inseguita da una nuvola nera. La disadattata in tutte le foto di famiglia.

    Anni fa ho smesso di competere con loro per avere attenzioni e sono passata sullo sfondo. Nessuno sembra essersene accorto.

    «Nessuno se la prende con te. Ti do solo un consiglio professionale».

    Appena l’ultimo piatto viene posato sulla tavola, mio padre – alto, sorridente e bellissimo, con solo un accenno di capelli grigi alle tempie – ci raggiunge. Ci sediamo tutti ai posti che occupiamo da quando avevo cinque anni. L’unica differenza nella scena familiare è la sedia vuota di mia sorella maggiore, Karissa, che ora studia Legge ed è felicemente fidanzata con un collega di corso. Un uomo che mia madre descriverebbe come affascinante ragazzo perfetto e il tipo di uomo che vorrebbe che trovassi anche io.

    Io non sono alla ricerca di nessun uomo. Sono aperta all’idea di incontrarne uno, ma l’idea di cercare un uomo mi spaventa. Sono abbastanza persa da sola, quindi non ho bisogno di cercarmi una persona persa quanto me e disorientata come lo sono io.

    Credo che mi serva un uomo che sappia ciò che vuole.

    Dopo cena, torno subito nel mio appartamentino, sospirando di sollievo non appena chiudo la porta che mi separa da loro. Il mio obiettivo è di trovarmi una casa il prossimo anno, non appena avrò abbastanza soldi per essere indipendente.

    Ditra, la mia migliore amica, insiste da mesi perché vada a vivere con lei ma è una vera sciattona. Tiene il cibo in frigo fino a quando non si capisce più di cosa si tratti. Le macchie sul suo tappeto sono stranamente appiccicose e dure. E sta attraversando una fase sperimentale in cui va con uomini a caso e donne – a volte contemporaneamente – e questo mi fa venire i brividi Non riesco a immaginare di dormire nella stessa stanza accanto al mio gatto, mentre lei non sembra avere alcun limite.

    Vivere ancora un po’ con la mia famiglia non mi ucciderà.

    Archie, il mio gatto a righe, mi fissa con occhi accusatori di fianco alla ciotola, che a quanto pare contiene meno cibo di quanto lui vorrebbe, nonostante l’abbia riempita stamattina. Come l’umana obbediente che mi ha insegnato a essere, gli aggiungo del cibo e gli cambio l’acqua, poi mi metto dei pantaloncini di cotone e una maglietta.

    Faccio cento addominali.

    Cinquanta donkey kick per gamba.

    Cinquanta squat.

    Mi sciacquo il viso, lavo i denti per due minuti e mi pettino per togliere la lacca dai capelli, così che domattina, quando farò la doccia, non siano tutti appiccicosi.

    Controllo ancora una volta la ciotola di Archie e poi sistemo il completo che vorrei indossare domani davanti all’armadio.

    Finiti i rituali serali, prendo Archie e lo porto in camera da letto con me. Infilo Titanic nel videoregistratore e mi accoccolo sotto il piumone per guardare quel film per la decima volta. L’ho visto due volte al cinema – una volta con Ditra che si è annoiata, probabilmente per la scarsità di scene di sesso – e una volta con Courtney, che ha pianto ma a cui il film è piaciuto, anche se ha maledetto Rose per non aver lasciato salire Jack sulla porta galleggiante.

    Io adoro Titanic e scopro qualche dettaglio speciale ogni volta che lo riguardo. Non mi stanco mai del romanticismo, della rabbia, della risoluta lotta per l’amore e la felicità. La speranza e la devozione, anche di fronte a dolore e tragedia, sono fantastici.

    Stringo Archie a me e gli accarezzo la testa, ma lui salta giù dal letto e corre fuori dalla stanza, facendomi sentire rifiutata e sola.

    La colonna sonora del film mi riporta velocemente alla trama e la triste melodia mi colpisce l’anima, facendomi venir voglia di sorridere e singhiozzare senza controllo allo stesso tempo. La musica del chitarrista del parco mi fa provare le stesse sensazioni.

    Capitolo tre

    Piper

    Non vado mai al parco di sabato. È un posto dove mi rifugio solo nelle pause dal lavoro per darmi la carica. Ma non vedo un valido motivo per non fare il bucato domani invece che oggi, come faccio di solito. C’è il sole, il cielo è pieno di morbide nuvole bianche e io ho voglia di prendere un po’ d’aria. E, devo ammetterlo, sono curiosa di scoprire se Evan suona al parco anche nei weekend. Non mi dispiacerebbe ascoltare un po’ della sua musica e vedere la zampa di Acorn che si agita, senza alcuna fretta di tornare al lavoro.

    Mi fermo a prendere un cappuccino alla vaniglia con latte di soia. Il parco e gli spazi circostanti gremiti di persone che, come me, oggi non lavorano, mi ricordano che è il fine settimana. Durante i giorni feriali non ho mai bisogno di cercare parcheggio perché vado al lavoro a piedi. Oggi invece faccio almeno tre giri, poi finalmente trovo uno spazio vuoto e infilo alcune monete nel parchimetro.

    Ci sono moltissimi adulti e bambini al parco oggi e mi dispiace vedere la mia panchina occupata da una donna e i suoi due figli. Con fare nervoso mi guardo intorno alla ricerca di un posto tranquillo e alla fine mi sistemo in uno spazio muschioso e all’ombra, sotto un grosso salice.

    Mi appoggio con la schiena allo spesso tronco e tiro fuori il libro dalla borsa; vorrei ricominciare a leggere da dove mi sono interrotta, ma i miei pensieri si allontanano dalle parole sulla pagine, mentre spero di udire il bel suono della chitarra di Evan. Forse nei weekend suona in un posto diverso, oppure fa proprio qualcos’altro. Come occupa un senzatetto il proprio tempo? Non riesco a immaginarmelo all’angolo di una strada trafficata con in mano un cartello che recita lavoro per cibo, mentre il cane alza la zampa verso le macchine. Ma credo che tutto sia possibile.

    «Ti stai nascondendo da me?».

    Per poco non faccio cadere il libro, spaventata dal suono della sua voce, ma mi ricompongo in fretta e lo guardo. Ha la custodia della chitarra in spalla, uno stuzzicadenti nero gli pende dalle labbra e il sole brilla dietro la sua testa come un’aura dorata. Acorn si siede sul prato accanto a me e appoggia il corpo alla mia gamba. Ha deciso che lui e il suo padrone si fermano qui.

    Cerco di non sorridere, ma forse lo sto già facendo. «Qualcuno ha occupato la mia panchina».

    «Ho visto».

    Appoggia a terra la chitarra e si siede sull’erba a qualche passo da me.

    «Non sapevo se venissi qui solo quando lavori o anche nei fine settimana».

    «Di solito non ci vengo. Io invece mi chiedevo se suonassi qui nei weekend».

    «Quindi stavi pensando a me?». Il tono scherzoso della sua voce mi provoca brividi che mi attraversano il corpo, intensi come la scossa che si prende sfregando la mano su un tappeto. Mi chiedo se, sfiorandoci noi due, proverei la stessa scarica elettrica che mi immagino.

    «No». La risposta mi scappa troppo in fretta dalla bocca. «Mi piace solo ascoltare la tua musica». Gli agito il libro davanti. «Mentre leggo. È carino».

    Un lampo malizioso gli attraversa gli occhi. «A me piace guardarti quando ascolti i miei pezzi. So anche quale canzone preferisci».

    «Davvero?», domando divertita. «E come fai a capirlo?».

    «Cambia il tuo respiro. Giusto un accenno, ma io lo noto».

    Sapere che mi osserva mi fa sentire come se il mio cuore e lo stomaco siano su un ascensore che continua a correre su e giù perché qualcuno ha premuto tutti i tasti e non sa dove fermarsi.

    «Oggi sei vestita in modo diverso», commenta. Abbasso lo sguardo sulla maglietta nera a spalle scoperte e sui miei jeans sbiaditi preferiti. Chissà se mi trova sciatta. «Non molte donne possono essere la segretaria sexy e al contempo la ragazza della porta accanto. A me piacciono entrambe».

    I complimenti provenienti da uomini affascinanti sono molto rari per me e non so proprio come reagire. Lo ringrazio? Gli dico che anche se indossa dei vestiti consunti che probabilmente non vengono lavati da giorni o settimane, è lo stesso fighissimo? Faccio un commento su come il profumo di legno di sandalo che lo avvolge sia attraente?

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