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Passione extra contratto: Harmony Destiny
Passione extra contratto: Harmony Destiny
Passione extra contratto: Harmony Destiny
E-book175 pagine2 ore

Passione extra contratto: Harmony Destiny

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Info su questo ebook

Desmond Pierce è un inventore milionario che ha grosse difficoltà nelle relazioni con l'altro sesso, ma desidera più di ogni altra cosa un figlio. Decide così di trovare una madre surrogata che accetti tutte le sue condizioni, inclusa quella di un matrimonio fittizio, e McKenna Moore è la donna giusta per quel ruolo: vuole diventare medico, ha bisogno dei soldi per pagarsi gli studi ed è fermamente convinta di non poter essere allo stesso tempo una buona madre e un ottimo medico. Non gli creerà alcun problema...

Tuttavia, non sempre le cose vanno come si è preventivato. Quando McKenna si trova a dover vivere sotto lo stesso tetto di Desmond tra i due scoppia la passione. Una donna così determinata a perseguire i propri sogni sarà pronta a rinunciarvi per amore?
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2018
ISBN9788858978535
Passione extra contratto: Harmony Destiny

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    Anteprima del libro

    Passione extra contratto - Kat Cantrell

    successivo.

    1

    Anche se Desmond Pierce non aveva mai creduto nei miracoli fu costretto a ricredersi un non meglio precisato martedì mattina, alle 7:23, quando vide suo figlio per la prima volta.

    Un'infermiera in camice blu portò il neonato che vagiva nella piccola stanza che si affacciava sul corridoio principale dell'ospedale, dove Desmond era in attesa. Nell'attimo in cui posò lo sguardo sul bambino provò un'emozione particolare.

    Mio figlio.

    Senza parole, allungò una mano per toccare il futuro.

    Una strana sensazione gli attanagliava la gola. Lacrime. Gioia. Possesso.

    Incredibile. Chi l'avrebbe mai detto che il denaro potesse davvero comprare la felicità?

    Il piccolo prese a strillare in modo inaudito, come se l'infermiera lo avesse punto con uno spillo. Des avvertì l'angoscia del figlio in una sorta d'empatia che non aveva mai provato prima. Quella sensazione gli si insinuava nella pelle, nei muscoli, e dovette trattenersi per non strappare il bambino dalle braccia dell'infermiera.

    Tutti i genitori provavano quella terribile combinazione di stupore, venerazione e terrore assoluto? O forse lui sentiva quel legame speciale perché suo figlio non avrebbe avuto una madre?

    «Come sta stasera, signor Pierce?» gli chiese la donna.

    «Non avrei dovuto fare quella cospicua donazione a questa struttura» ringhiò lui, e si pentì subito di non aver usato modi più garbati. Si era ripromesso di non essere così burbero. «Perché mio figlio sta piangendo?»

    Molto meglio. Assomigliava ai modi che aveva provato allo specchio. Il modo, però, in cui teneva le braccia incrociate denotava comunque che qualcosa non gli andava. Nelle ultime settimane quel bambino non gli era sembrato reale, o quanto meno non si era illuso che quella gravidanza non sarebbe andata a finire diversamente da quella di Lacey.

    Adesso che aveva visto il piccolo tutto si era magicamente risolto. E non avrebbe permesso che accadesse nulla a suo figlio.

    «Ha fame» rispose l'infermiera con un mezzo sorriso. «Vuole dargli da mangiare?»

    Sì. Voleva farlo. Ma riuscì solo ad annuire, per via dell'emozione.

    La donna lo guidò verso una sedia a dondolo, alle cui spalle c'era una parete interamente tappezzata di orsacchiotti. In un angolo c'era un mobile in vinile con lavandino, e il bancone era ricoperto di bottiglie di plastica.

    Des aveva fatto molte ricerche su come dare il biberon a un neonato, oltre a molti altri aspetti sull'essere genitori: aveva letto teorie su come crescere i figli, libri sul comportamento scritti da rinomati specialisti, visitato siti web zeppi di suggerimenti per neogenitori. Aveva facilmente imparato a memoria la maggior parte delle nozioni, soprattutto grazie all'interesse per l'argomento. Aveva due dottorati conseguiti a Harvard e una mente brillante, quindi, sicuramente, sarebbe riuscito a dare il biberon a suo figlio.

    Lo prese con cura tra le braccia, sorridendo.

    «Eccoci qui. Devi solo tenerlo stretto il più possibile» si raccomandò.

    Si concentrò su quel visino raggrinzito e il mondo si annullò. Suo figlio era leggero come una piuma.

    Des si sentì squarciare il petto dall'emozione nello stringere per la prima volta quel fagotto tra le braccia. Catalogò all'istante tutto quello che i sensi gli rimandavano. Occhi scuri. Capelli neri che spuntavano da un berrettino lavorato a maglia.

    Conner Clark Pierce. Suo figlio.

    Avrebbe fatto qualsiasi cosa per dargli tutto il necessario. Insegnanti privati, viaggi studio, un'educazione simile a quella che aveva ricevuto lui, se voleva che anche Conner diventasse qualcuno. Quel bambino avrebbe goduto di ogni vantaggio, non gli sarebbe mancato nulla, nemmeno una madre.

    L'infermiera sistemò il berrettino sulla nuca del piccolo, che iniziò nuovamente a disperarsi. Quella urla strazianti non piacevano a Desmond.

    La donna si voltò verso il bancone. «Le preparo un biberon.»

    Misurò il latte in polvere tra le urla sempre più disperate del bambino.

    Des tendeva a interiorizzare il dolore altrui, ed era per questo che aveva sempre evitato le folle, ma quello che provava per suo figlio superava la semplice empatia. Quell'esserino aveva il suo stesso DNA.

    Finalmente l'infermiera gli andò incontro, porgendogli il biberon. Proprio come aveva visto fare nei video Des lo portò alle labbra del piccolo.

    La bocca di Conner tremava per il pianto, tuttavia non ne voleva sapere di aprirla. Des non era un uomo paziente, ma provò e riprovò.

    «Perché lo rifiuta?» le chiese, sentendo che qualcosa non andava.

    «Non lo so.» La donna cercava di apparire calma, ma lui notò una leggera preoccupazione sul suo volto. «Non è raro che i bambini tolti alle madri abbiano difficoltà ad acclimatarsi. Possiamo provare con un contagocce. Il biberon non è l'unico modo per fargli bere il latte.»

    Desmond annuì, restio, mentre l'infermiera invadeva il suo spazio.

    Il contagocce funzionò. Per circa cinque minuti. Poi Conner rigurgitò tutto. La donna si incupì, mettendo in apprensione anche lui.

    Mezz'ora più tardi erano tutti e tre frustrati.

    «Potrebbe essere allergico al latte in polvere» ipotizzò alla fine l'infermiera.

    «Che significa? Morirà di fame?» Des chiuse gli occhi, angosciato, e si passò una mano sulla barba che, come sempre, si era dimenticato di rasare. A volte la signora Elliot, la sua governante, glielo ricordava quando lo incrociava, ultimamente, però, era sempre rimasto chiuso nel suo studio per prepararsi all'evento.

    Inutilmente, a quanto pareva, perché per quanto avesse studiato non era comunque preparato a un simile scenario.

    «No. Ci sono delle alternative...» Non terminò la frase. «Non importa. Mi hanno detto cosa desidera riguardo alla madre del piccolo, così...»

    «Lasci perdere quello che voglio, mi dica cosa possiamo fare. Il bambino deve mangiare» insistette.

    L'infermiera annuì. «Potremmo allattarlo al seno. Voglio dire, quello che stiamo facendo è parecchio inusuale. Di solito succede il contrario, si usa il latte in polvere in aggiunta al latte materno, ma...»

    Gli strilli di Conner le impedirono di continuare.

    «È ancora qui? In ospedale?» Non aveva mai incontrato la madre surrogata di suo figlio, come da accordi, però voleva assolutamente trovare una soluzione.

    «Be', sì. Certo. La maggior parte delle donne si riprende in un paio di giorni dal parto ma...»

    «Mi porti da lei.» Pensò a come avrebbe potuto chiederlo in modo più gentile, tuttavia l'angoscia non gli era d'aiuto. «Per favore.»

    L'infermiera annuì.

    «Devo avvertirla, però... potrebbe non essere disposta ad allattare.»

    «La convincerò» ribatté lui, alzandosi con il bambino in braccio.

    L'accordo che aveva stipulato con McKenna Moore, la madre surrogata, presentava delle scappatoie per le necessità mediche. E poi era ancora legalmente sua moglie. Si erano sposati per procura per evitare diatribe legali, tuttavia il loro era un rapporto strettamente professionale. Anche se non si erano mai incontrati forse il fatto che fossero sposati avrebbe significato qualcosa. Conner doveva mangiare, e Desmond avrebbe convinto la madre che rappresentava la sua unica speranza.

    Chiedere aiuto era l'ultima spiaggia. L'accordo prevedeva contatti limitati tra la signora Moore e il figlio, perché Des voleva una famiglia che fosse esclusivamente sua. D'altra parte doveva pensare al bene del bambino.

    Uscirono nel corridoio. L'infermiera si fermò davanti alla stanza 247.

    «Mi dia un attimo per accertarmi se vuole visite.»

    Lui annuì. Durante la passeggiata Conner si era calmato, per fortuna. Forse grazie al movimento oscillatorio. Informazione da tenere a mente in futuro.

    Dalla stanza giunsero delle voci.

    «Cosa vuole?» Quella cadenza melodica poteva appartenere solo a McKenna Moore. Era sveglia e presumibilmente presentabile, visto che l'infermiera era entrata nella stanza.

    Il piccolo sollevò il viso verso quel suono. Questo fu sufficiente. Conner aveva riconosciuto la voce della madre, e nonostante Desmond fosse convinto che il modo migliore di gestire una maternità surrogata fosse non ritrovarsi mai nella stessa stanza con la madre del piccolo, aprì la porta con un piede ed entrò.

    La donna in quel letto d'ospedale lo attirò come il canto di una sirena, e quando i loro sguardi si incrociarono avvertì un'emozione subitanea. La stessa che aveva avvertito quando aveva visto il figlio per la prima volta. Loro figlio.

    Quella donna era la madre di Conner. Era legalmente sua moglie.

    I lineamenti di McKenna Moore erano delicati, e lui non si era mai sentito così attratto da una donna in vita sua. Non riusciva a parlare, a pensare, e per un uomo dal QI fenomenale il non riuscire a usare il cervello era allarmante. Così come lo fu la repentina convinzione di aver commesso un terribile errore nell'aver gestito l'accordo sulla maternità surrogata a quel modo.

    Rimpiangeva l'opportunità persa di corteggiare quella donna, di conoscerla. Di farla rimanere incinta alla vecchia maniera.

    Com'era possibile sviluppare un'attrazione così viscerale in pochi secondi?

    Non aveva importanza. Non l'aveva voluta conoscere di persona perché odiava i rapporti umani. Era maldestro nelle relazioni che per gli altri sembravano semplici, era per questo che viveva in una zona remota dell'Oregon, lontano da Astoria, la città più vicina.

    Era sempre stato un tipo strano. L'essersi diplomato a quindici anni non lo aveva aiutato a farsi degli amici. E nemmeno diventare un milionario. Se avesse provato a instaurare un rapporto normale con McKenna Moore avrebbe combinato un disastro, come con Lacey.

    I legami di sangue erano l'unica risposta per uno come lui. Quel bambino sarebbe stato la sua famiglia, avrebbe rappresentato l'erede che desiderava. E magari Conner lo avrebbe amato proprio per quello.

    Quel bambino gli apparteneva. Era lui a decidere cosa ne sarebbe stato e nessuno al mondo avrebbe intralciato i suoi desideri.

    Tranne forse sua moglie.

    In realtà aveva pagato oltre un milione di dollari in parcelle ai suoi avvocati per assicurarsi che l'accordo prematrimoniale preservasse il suo patrimonio e una bozza di divorzio già stilata gli garantiva la piena custodia di Conner. Era un piano perfetto, adesso dovevano solo firmare per il divorzio.

    McKenna si sarebbe ripresa dal parto, si sarebbe intascata i soldi e sarebbe sparita. Proprio come aveva preventivato Desmond quando aveva capito che l'unica cosa che poteva colmare il vuoto nella sua vita era un bambino che avrebbe potuto rimpiazzare quello che aveva perso, o piuttosto, quello che Lacey aveva voluto abortire.

    Non avrebbe mai più concesso a una donna di decidere se suo figlio avrebbe dovuto vivere o morire. E non si sarebbe mai più affezionato a una donna in grado di influire, anche solo lontanamente, sulla sua felicità.

    Un giorno Conner avrebbe capito.

    «Signorina Moore» si decise infine a dire. «Abbiamo un problema. Nostro figlio ha bisogno di lei.»

    Desmond Pierce si trovava nella stanza d'ospedale di McKenna. Con un bambino che piangeva.

    Il suo bambino.

    Il bambino che stava cercando di dimenticare di aver dato alla luce con un travaglio dolorosissimo per poi... staccarsene.

    McKenna sgranò gli occhi non appena recepì quelle parole. Si sentiva uno straccio. Voleva un antidolorifico e poi dormire per tre giorni di fila, non voleva sentire quelle fitte al cuore a ogni vagito del bambino. Desiderava allungare le braccia e toccarlo.

    Non sarebbe dovuto esserle concesso di vedere il piccolo. Né di tenerlo tra le braccia. Gliel'aveva detto l'infermiera quando l'avevano portato via, senza nemmeno darle la possibilità di dirgli addio. Quelle persone crudeli in sala parto l'avevano ignorata. Cosa ne sapevano loro di sacrifici? Di vuoti interiori che nulla avrebbe mai colmato?

    Per un attimo aveva creduto che il padre di suo figlio l'avesse intuito. Che fosse andato da lei per assecondarla. L'espressione sul suo volto l'aveva messa al tappeto. Nell'istante in cui i loro sguardi si erano incrociati le era sembrato che Desmond potesse vedere tutta l'angoscia che sentiva, i ripensamenti dell'ultimo minuto. E la capisse.

    Sono venuto a sistemare le cose, sembrava dirle.

    Invece il signor Pierce non era lì con il bambino per quello. Anzi, era lì per spezzarle il cuore. Di nuovo.

    Dovevano andarsene. Subito. Prima di iniziare a piangere.

    «Non è mio figlio» dichiarò con voce stridula, le corde vocali ancora provate per via del parto.

    Non avrebbe dovuto dirlo. Quella frase, al contempo vera e brutale, le dilaniò l'anima come il pianto del bambino.

    Suo figlio. Il figlio a cui aveva rinunciato perché corrispondeva a tutto ciò che avevano voluto i suoi genitori. Dovresti trovarti un uomo, fare tanti bambini, le avevano detto. Non c'è gioia più grande che avere dei figli.

    Lei, però, non voleva dei figli. Voleva diventare un medico, per aiutare

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