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Donne innamorate
Donne innamorate
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E-book761 pagine11 ore

Donne innamorate

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Info su questo ebook

Introduzione di Bruno Traversetti
Traduzione di Delia Agozzino
Edizione integrale

In questo romanzo, pubblicato nel 1920 e concepito idealmente come seguito de L’arcobaleno (1915), Lawrence esplora, avvalendosi di una trama esile e pretestuosa ma anche di un’estrema dilatazione e intensificazione dei dialoghi, le più diverse implicazioni dei rapporti tra i due sessi, l’assurdità delle convenzioni sociali che vorrebbero delimitarne le possibilità e i modi, il tormento dell’eterno conflitto tra istinto e intelletto, tra sensualità e ragione, sullo sfondo della società industriale inglese del primo Novecento. L’abbandono della tradizione narrativa ottocentesca, del romanzo «ben costruito» in virtù di uno sviluppo regolare della storia e dell’aderenza realistica ai fatti, è definitivo: la struttura di Donne innamorate è accidentata, spezzata, apparentemente incoerente e segna l’inizio di una significazione espressionistica e simbolica tipicamente novecentesca.

«A lungo Ursula restò così, avvinta a lui che le baciava dolcemente i capelli, il viso, le orecchie con piccoli baci teneri, leggeri come una rugiada, poi il caldo respiro del giovane sulle orecchie la turbò, accese quell’antico fuoco distruttore. Si avvinghiò a lui, e sentì il sangue scorrerle nelle vene come argento fuso.»


David Herbert Lawrence

è senza dubbio uno degli autori più originali del primo Novecento. Nato nel Nottinghamshire nel 1885, fece per molti anni l’insegnante prima di dedicarsi completamente alla letteratura. Tra i suoi numerosi romanzi il più celebre è L’amante di Lady Chatterley (anch’esso edito dalla Newton Compton in questa collana), che non poté essere pubblicato in Inghilterra per il grande scandalo suscitato; tra gli altri, ricordiamo Figli e amanti, La vergine e lo zingaro, Il serpente piumato. Morì nel 1930.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854138629
Donne innamorate
Autore

D. H. Lawrence

David Herbert Lawrence, (185-1930) more commonly known as D.H Lawrence was a British writer and poet often surrounded by controversy. His works explored issues of sexuality, emotional health, masculinity, and reflected on the dehumanizing effects of industrialization. Lawrence’s opinions acquired him many enemies, censorship, and prosecution. Because of this, he lived the majority of his second half of life in a self-imposed exile. Despite the controversy and criticism, he posthumously was championed for his artistic integrity and moral severity.

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    Anteprima del libro

    Donne innamorate - D. H. Lawrence

    315

    Titolo originale:Women in Love

    Traduzione di Delia Piergentili Agozzino

    Prima edizione ebook: gennaio 2012

    © 1975 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-541-3862-9

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    David Herbert Lawrence

    Donne innamorate

    Introduzione di Bruno Traversetti

    Newton Compton editori

    Introduzione

    Women in Love (Donne innamorate) uscì a stampa nel 1920 a New York, in edizione privata, e poi, in edizione definitiva, L'anno successivo presso la casa londinese Seeker il trentacinquenne autore, David Herbert Lawrence, aveva già alle spalle una ragguardevole e agitata carriera letteraria nella quale figurava, insieme ad altri tre romanzi e a un importante volume di racconti, il suo primo vero capolavoro: Sons and Lovers (Figli e amanti).

    Carriera letteraria che aveva da poco conosciuto, tuttavia, anche la disavventura di un sequestro giudiziario: quello di The Rainbow (L’arcobaleno), che nel novembre del 1915, poco dopo l’uscita, era stato condannato per oscenità da un tribunale inglese e ritirato dalla pubblica circolazione. Women in Love, che molta parte della critica considera l’esito più alto della narrativa di Lawrence, è opera strettamente legata proprio a The Rainbow, concepita come seconda parte di questo sfortunato romanzo e scritta, poi, nello stato d’animo pessimistico e sconfortato che il sequestro e altre concomitanti, amare vicende biografiche avevano suscitato nello scrittore. Sebbene la pubblicazione sia avvenuta nel 1920-21, infatti, la stesura di Women in Love risale quasi interamente al 1916 e la sua prima ideazione, inscindibile da quella di The Rainbow, al 1913.

    Con il titolo provvisorio di The Sisters (Le sorelle) Lawrence elaborò in questo periodo, mentre risiedeva con Frieda, la futura moglie, a San Gaudenzio sul lago di Garda, un ambizioso progetto narrativo fondato sull’esplorazione della vita matrimoniale in tre generazioni di una famiglia, la famiglia Brangwen, lungo i cambiamenti del modo di vita inglese, dal vecchio modello coesivo del mondo rurale a quello frammentato, individualistico e distruttivo della grande metropoli industriale.

    Il progetto di The Sisters era illuminato dall’entusiasmo per il prossimo matrimonio con Frieda von Richtofen e dal felice empito creativo che la pienezza della loro vita sessuale e sentimentale alimentava in lui. Frieda era venuta improvvisamente occupando, nell’universo interiore del romanziere, l’immenso luogo che sua madre vi aveva tenuto fino alla morte, nel 1910; ma all’incombente, soffocante, seppur amorevole autorità di Lydia Beardsall si era sostituita, ora, la presenza di una femminilità esaltante e nuova che lo inclinava a liberarsi dalle antiche oppressioni psicologiche, germinate per lui dalla potente ombra materna fin dagli anni infantili.

    Di queste oppressioni e della cupa tenerezza filiale che aveva a lungo signoreggiato la sua mente, Lawrence aveva lasciato l’immagine nel suo romanzo d’esordio del 1911, The White Peacock (Il pavone bianco) e in parte nel successivo The Trespasser (Il peccatore), per raggiungerne poi una più matura e distaccata visione nel ritmo epico di Sons and Lovers. L’idea del nuovo romanzo, che avrebbe celebrato lo stato di grazia della sua passione amorosa e riconosciuto nel matrimonio il luogo di un'unione quasi mistica fra i sessi, di una iniziazione oltre le soglie del mistero, si dilatò presto al di là delle sue intenzioni iniziali e generò materia per due romanzi diversi e distinti: la denominazione comune scomparve e la prima delle due opere uscì nel 1915 con il titolo di The Rainbow e con il seguito giudiziario al quale si è accennato.

    L'anno precedente, il 13 luglio 1914, David e Frieda si erano sposati a Londra stabilendosi dapprima nel Buckinghamshire, poi nel Sussex, quindi in Comovaglia. Il romanziere era entrato in rapporto con Aldous Huxley, Bertrand Russell e altri illustri intellettuali e tentava di stabilire una propria influenza nelVambiente accademico inglese che, invece, si rivelò sempre sospettoso nei suoi confronti. Progettava anche, e proponeva senza fortuna agli amici, l'organizzazione di una piccola comunità artistico-filosofica della quale egli avrebbe voluto essere l'ispiratore e la guida riconosciuta. Il sequestro di The Rainbow e la pretesa di risarcimento da parte dell'editore sopravvennero in coincidenza con queste delusioni e inasprirono ulteriormente il suo animo, precipitando la coppia anche in un grave disagio economico. La cupa atmosfera di guerra, la sinistra, sorprendente accusa di spionaggio e il conseguente allontanamento dalla Cornovaglia che gli fu imposto, determinarono poi, in lui, quel risentimento astioso, quella sconsolata visione delle cose, della società e degli uomini che governano il lucido pessimismo di Women in Love.

    Così: The Latter Days (Gli ultimi giorni), Lawrence pensò, ad un certo punto della stesura, di intitolare il suo nuovo romanzo, The Latter Days, oppure, come gli suggeriva Frieda, Dies Irae. Prevarrà, alla fine, il meno rovinoso (e anzi, perfino ingannevole) Women in Love, ma i titoli progettati indicano a sufficienza, se non i toni, almeno gli sfondi apocalittici di quest'opera che indusse un grande critico come F. R. Leavis a definire Lawrence «il più grande scrittore inglese di questo secolo».

    Con Women in Love la scena romanzesca, che in The Rainbow era allestita prevalentemente nella serena atmosfera della campagna, si sposta in gran parte nel paesaggio urbano londinese, reso corrusco dalla grigia, ossessiva presenza dell'industria e dalla spersonalizzante, aspra filosofia materialistica che ne promana.

    Protagonisti maggiori del romanzo sono due coppie costituite dalle sorelle Ursula e Gudrun Brangwen (per il cui tramite la vicenda si riallaccia a quella di The Rainbow) e i loro due uomini: Rupert Birkin e Gerald Crich. Mentre la coppia Gudrun-Gerald allude, probabilmente, nel carattere dei due personaggi e nella sottesa, gelida inconciliabilità che regola in segreto i loro rapporti, alla coppia costituita, nella vita reale, da John Middleton Murry e Katherine Mansfield, Lawrence riflette qualche tratto di Frieda in Ursula e riserva a Rupert Birkin il compito di farsi suo alter ego, di accogliere ed esprimere il suo stesso spirito e le sue stesse, personali convinzioni.

    Inutilmente, tuttavia, si cercherebbero in quest'opera compiuti ritratti psicologici e classiche coerenze strutturali, poiché Women in Love designa un brusco cambiamento di rotta, da parte di Lawrence, nei confronti di quella tradizione narrativa dell'Ottocento inglese che era stata, in forma esemplare, a fondamento costruttivo di Sons and Lovers, il più riuscito e importante dei suoi romanzi giovanili; costituisce una vistosa violazione, cioè, dei precetti di quel tipo di romanzo che, in Inghilterra, si era affermato in tutto il corso del XIX secolo, dalla Austen a Dickens, a Thackeray, alla Eliot, a Hardy, fino a Galsworthy, e che Joseph Warren Beach ebbe a chiamare «Il romanzo ben fatto» (vale a dire: il romanzo basato sul coerente sviluppo temporale della storia, sull'equilìbrio fra descrizione, azione e dialogo, sull'aderenza realistica al mondo sociale rappresentato, sull'attendibile e precisa definizione psicologica dei personaggi, sullo scioglimento delle idee in concrete raffigurazioni narrative).

    A questa architettura romanzesca complessa e ordinata, a questo universo rassicurante e governabile dalla ragione, Women in Love, che è opera già a pieno titolo novecentesca e che accoglie anche l'influenza esercitata in questi anni su Lawrence dalla nostra avanguardia futurista (con tutto ciò che essa suggerisce sul versante della pura dinamica, della instabilità, della libera energia), oppone una struttura accidentata, un'apparenza incoerente. In essa i tempi narrati si sottraggono alla logica del continuum per disporsi, talvolta, secondo sbalzi, dilatazioni e simultaneità che seguono non l'ordine prevedibile degli eventi ma quello franto e irrequieto della significazione espressionistica e simbolica.

    Un sentore plumbeo, da «ultimi giorni», appunto, sovrasta Women in Love, la sua trama esilissima e pretestuosa, i suoi dialoghi interminabili, ora vivificati da una lucida densità argomentativa, ora accesi dal guizzo dell'intuizione profetica, ora solidali alla sostanza mobile e oscura del profondo; qualche volta, invece, peroranti e fastidiosamente dichiarativi. Dialoghi al cui centro stanno, segretamente connessi a una stessa trama esistenziale, aggiogati a una stessa vibrazione dolorosa, i temi della sessualità e della civiltà delle macchine. Se pensiamo all'entusiasmo fervente con il quale, in The Rainbow, Lawrence aveva celebrato il raggiungimento della felicità coniugale, dell'equilibrio fra i sessi, ci rendiamo conto, fin dalle prime battute del nuovo romanzo, di quale pessimistico mutamento interiore, di prospettive, si sia prodotto in lui. Women in Love comincia proprio con un dialogo fra Ursula e Gudrun Brangwen a proposito del matrimonio:

    «Non pensi che il matrimonio sia un'esperienza necessaria?», chiese.

    «Tu pensi proprio che sia un’ esperienza?»

    «Deve esserlo, in un senso o nell’altro», disse Gudrun fiaccamente. «Forse non desiderabile, ma deve pur essere una qualche esperienza.»

    «Non credo proprio», fece Ursula. «Semmai, più probabilmente sarebbe la fine di ogni esperienza.»

    Ma l'opaco scetticismo, la disillusa nozione della vita che scheletrisce le parole di Ursula, pervade ogni pagina dell'opera, penetra in ogni fibra della rappresentazione, gettando la luce obliqua delle età tarde, delle vigilie apocalittiche, sia sugli ambienti che il romanzo attraversa, sia nella irritata austerità del tono narrativo di Lawrence.

    Il romanziere sembra infiggere il suo livoroso scandaglio nel vivo di tutta la società inglese del suo tempo, riassunta qui, lungo le pagine di Women in Love, in tre aspetti fondamentali del suo declino: la ripulsa delle donne ad inseguire; nel matrimonio, l'armonia della perduta unità primigenia fra i sessi; l'algida, superficiale boria accademica degli intellettuali londinesi (alcuni dei quali sono ritratti, senza simpatia, tra i frequentatori del «Café Pompadour» o adombrati in personaggi del romanzo: come Bertrand Russell, ad esempio, nella figura dell'idealista, filosofo sociale Joshua Mattheson); il catastrofico individualismo, infine, ostile e cieco, alimentato dalla mentalità liberale-indutriale.

    Gerald Crich è il personaggio mediante il quale Lawrence rappresenta questa vocazione tragica dell'epoca moderna. Ricchissimo proprietario di miniere, figlio di un uomo che aveva sempre sentito come una colpa il privilegio della sua condizione e aveva sempre affondato il pungolo del solidarismo cristiano nell'esercizio del suo potere verso i minatori, Gerald, alla morte del padre, libera la sua coscienza da ogni ingombrante commistione religiosa e morale e si fa portatore, simbolo vivente, quasi, della nuda filosofia produttiva, perseguendo con dedizione fanatica il perfezionamento delle macchine, fino a restare vittima della sua stessa incapacità sentimentale e del suo segreto desiderio di autodistruzione e di morte. Gudrun, che, «giovane com'era, aveva già tastato il polso all'intera società inglese», e che sembra, anzi, accogliere nella propria glaciale desolazione le rovine e la polvere di tutti i valori perduti, gli è ostile compagna in questo processo di allontanamento dall'umanità e dalla natura. Spetta, come già abbiamo detto, a Rupert Birkin il compito di incarnare il pensiero di Lawrence; e Birkin agisce nel romanzo soprattutto come coscienza ricettiva, come specchio nel quale si riflettono e si pervertono in contraddizione, indigenza e sconfitta le parole e i drammi degli altri personaggi e lo spirito ferito della stessa Inghilterra. Protagonista, spesso, di lunghe dissertazioni enfatiche, di ridondanti slanci profetici che sfiorano a volte l'ingenuità e la noia, egli è, tuttavia, l'uomo nella cui anima si fanno strada le scabrose illuminazioni vitali che sostengono tutto il progetto ideologico di Women in Love: la vita come corrosiva ruminazione, come inesauribile possibilità e inesauribile inconciliabilità («io non lo credo», è l'ultima, sospesa, allusiva frase del romanzo; ed è affidata proprio a Birkin, al termine di un dialogo senza conclusione con Ursula); la natura, il pulsare misterioso e inalterato della natura, come richiamo ultimo e salvifico; la sensualità, infine, la coniugalità, come dramma e crudele conflitto nel quale si prolunga una panica mitografia ancestrale:

    Ci si impegna a congiungersi con l’altro, per sempre. E questo non è altruismo, è conservarci integri in un equilibrio mistico, come un astro in congiunzione con un altro [...]

    Perché uomini e donne dovremmo considerarci come frammenti spezzati di un tutto? Non è vero. Noi rappresentiamo anzi la realizzazione in esseri singoli, puri e netti, di cose che prima erano mescolate. Ciò che rimane in noi di misto e non individuato, anzi, è proprio il sesso.

    E su tutto l'universo di Women in Love, sulla esaltata, dolorosa cognizione di Birkin, sul radicalismo positivista di Crich, sulle chiacchiere iniziatiche, raffinate e interminabili dei filosofi, sull'inesausto rovello sensuale e vitale dei protagonisti domina la presenza tragica del Tempo, che tutto rende vano e che si affaccia, talvolta, alla mente di Gudrun con la indifferente potenza di una divinità nascosta ed ironica:

    Il pensiero del succedersi monotono dei giorni che seguono i giorni, uno dopo l’altro, ad infinitum, era una delle cose che la portavano a un passo dalla pazzia. Il terribile asservimento al ticchettare del tempo, il lento avanzare delle lancette di un orologio, l’eterno ripetersi delle ore e dei giorni... oh, Dio! era troppo pauroso da contemplare. E non c’era fuga da quello. Non c’era fuga.

    È fuor di dubbio che nell'insieme della produzione lawrenciana, fortemente variata nel corso del tempo, sia nei temi che nelle aspirazioni, e fortemente influenzata, di volta in volta, dai diversi eventi che dominarono la vita dello scrittore, Women in Love assume connotazioni di grande rilevanza rispetto a tutte le altre opere: le connotazioni di un romanzo esemplare, nel quale si concentrano e si affollano tutte le preminenti tensioni ideologiche e narrative di Lawrence; sia quelle giovanili, già in parte superate e decantate nello sforzo epico di Sons and Lovers, sia quelle nuove e ancor più problematiche della maturità. Nessun altro romanzo lawrenciano presenta, come questo, la fusione simultanea delle tematiche sessuali e sociali, dell'originario, piccolo mondo dei villaggi minerari, delle grandi conseguenze morali della civiltà industriale, del misticismo panico e visionario dell'autore, della sua astiosa, irrisolta, sfortunata battaglia per il riconoscimento del suo valore da parte della cultura ufficiale britannica. Naturale, quindi, che Women in Love si sia sempre trovato al centro dell'interesse critico, quasi a rappresentare, a sunteggiare, l'intera opera dello scrittore di Nottingham. Le due maggiori correnti critiche inglesi del nostro secolo, per voce, Vuna di F. R. Leavis e l'altra di T. S. Eliot, si sono fronteggiate a lungo intorno ai problemi storiografici e di valutazione posti dall'uomo Lawrence e dalla sua opera: e lo hanno fatto scegliendo come oggetto preponderante della loro analisi, appunto, Women in Love. Leavis, nel 1930, spezzando un'abitudine di prudenza, quando non di aperto dispregio, invalsa nel mondo letterario inglese, accordò al romanzo la qualifica di «poema drammatico» e lo considerò un autentico capolavoro, esaltandone la profondità di intenti e la complessa, passionale suggestione espressiva. Egli non vide tanto, in Women in Love, i segni di una rottura con il costume narrativo ottocentesco, ma piuttosto i segni di una contiguità con esso: fino a porre idealmente l'opera al vertice di quel filone evolutivo nazionale che egli chiama la «Grande Tradizione». Lawrence, per il fondatore dell'autorevolissima rivista Scrutiny, incarna il genio proletario potentemente elevatosi al di sopra delle proprie origini, capace, proprio per questo, di interpretare lo spirito delle classi lavoratrici e la loro ansia di progresso materiale e spirituale. Di contro alla esaltazione critica di Leavis, T.S. Eliot difese tenacemente la tesi di un Lawrence confuso, retorico e corruttore, privo di una vera formazione letteraria e tutto esaurito nella dissipazione di energie improvvisate, incontrollate e oscuramente pericolose.

    La critica marxista, fin dagli anni '40, ha riportato poi a misure più realistiche e meno radicali i tratti ideologici dello scrittore, affermandone l'appartenenza al milieu della decadenza borghese e alla sua confusa mistura di ribellismo intimistico e di politiche ambiguità.

    È tuttavia il dissequestro de L’amante di Lady Chatterley in Inghilterra, nel 1960, a generare un interesse nuovo e, ora, di massa intorno a Lawrence. Vi contribuisce in modo decisivo l'avanzante cultura giovanile di quegli anni, con le sue pulsioni libertarie e spontaneistiche, che vede nel romanziere inglese l'antesignano e il campione della critica vitalistica all'organizzazione sociale moderna e alla sua mortificazione di valori e desideri. L'ondata di entusiasmo, analoga, in qualche modo, a quella che, nello stesso periodo e per altre ragioni, investì l'opera di Hermann Hesse, si è poi placata in un più riflessivo atteggiamento critico e in un più sistematico impegno teso, ormai da molti anni, a migliorare e completare le edizioni delle opere e a fare luce sulle profonde e talvolta oblique connessioni che legano la scrittura di Lawrence alla sua biografa.

    BRUNO TRAVERSETTI

    Nota biobibliografica

    LA VITA

    Nato a Eastwood, nella Contea di Nottingham, l’11 settembre del 1885, David Herbert Lawrence frequenta le scuole elementari nella città natale dall'età di sette anni, per poi proseguire gli studi alla High School di Nottingham. Figlio di un minatore, Arthur John, e di una maestra, Lydia Beard sali, vive in famiglia l’infanzia e la prima adolescenza, in compagnia dei due fratelli, Ernest e George, e delle due sorelle, Emily e Ada. Trova un primo lavoro presso una ditta di strumenti ortopedici di Nottingham, ma è cagionevole di salute fin da questi primi anni, e deve abbandonare l’impiego per dedicarsi al più tranquillo tirocinio di allievo maestro, nella British School di Eastwood. La prima esperienza letteraria è un racconto, Preludio a un felice Natale, che appare su una rivista di Nottingham a nome dell’amica Jessie Chambers. È il primo passo verso un'avventura letteraria che lo impegnerà per tutta la vita, assieme a un nomadismo inquieto e continuo che lo spingerà verso ogni angolo a lui sconosciuto della terra. Alcune figure femminili incidono sulle prime prove: nel 1909 incontra Helen Corke, e da un diario di lei nasce il personaggio del Trasgressore. Nel 1912 l’incontro con Frieda, figlia del barone Friedrich von Richthofen e sposa di Ernest Weekley, rappresenta una svolta determinante della sua vita; inizia a viaggiare con la donna amata - che si unirà a lui in matrimonio due anni dopo - prima in Germania, poi sul lago di Garda, mentre prende avvio una lunga serie di lavori letterari, in un periodo di felicità e serenità con Frieda: nel febbraio del 1913 escono le Poesie d'amore, nel maggio dello stesso anno il terzo romanzo che lo fa conoscere al pubblico e alla critica: Figli e amanti. Riprende a viaggiare, sempre con Frieda, in Baviera, in Inghilterra, ancora in Germania, mentre stringe amicizia con alcune figure emergenti della letteratura del tempo, John Middleton Murry, Katherine Mansfield, Aldous Huxley. Durante la prima guerra mondiale soggiorna in Comovaglia, da dove viene espulso per dichiarato pacifismo, oltre che per le origini tedesche della moglie. Escono alcuni racconti e il quarto romanzo, L’arcobaleno, bersagliato dalla critica puritana e dalla giustizia che ne ordina il sequestro.

    È di nuovo in Italia, una sorta di terra promessa per Lawrence, nel novembre del 1919: a Firenze, a Capri, a Taormina, in Sardegna, mentre appare il quinto romanzo, Donne innamorate e subito dopo La ragazza perduta, ispiratogli da un viaggio e soggiorno in quella terra dell’Italia meridionale, in cui nasce il protagonista di questo romanzo. Attratto dal mondo dell’Italia del Sud, si innamora di Giovanni Verga e comincia a tradurne le opere, ma l’ansia di viaggiare lo riprende; sempre in compagnia di Frieda, eccolo in India, a Ceylon, mentre esce Canguro, l’ottavo romanzo. L’Australia, la Nuova Zelanda, le isole Cook, Tahiti sono le tappe successive del vagabondaggio, fino a San Francisco, da dove prosegue per il Nuovo Messico. Più tardi, in Messico, si entusiasma di quell’antica civiltà, e a Chapala scrive il romanzo del mito centroamericano, Il serpente piumato. Poi a Vera Cruz, di nuovo in Inghilterra, mentre appare un nuovo romanzo, La verga di Aaron, e molte altre opere minori fanno da contorno ai romanzi-chiave, espressione della sua idea della vita e della letteratura, oltre che del rapporto sessuale fra uomo e donna. Nel 1924 è a Parigi con Frieda, poi a Baden-Baden, infine in America, alla ricerca di un più favorevole clima che lo guarisca dalla diagnosi di una tubercolosi irreversibile. Il sole italiano lo aiuta molto, dapprima a Spotorno, poi a Firenze, nella Villa Mirenda, dove scrive il suo ultimo e più celebre romanzo, L 'amante di Lady Chatterley. Nel marzo del 1929, a Parigi, è costretto a scrivere un testo, A proposito dell'«Amante di Lady Chatterley», con cui difendersi dall’accusa di oscenità del romanzo, che ne aveva provocato la condanna e il sequestro in Inghilterra. Negli ultimi anni di vita, si reca in Spagna, a Barcellona, a Palma di Maiorca, comincia a dipingere e provoca un nuovo scandalo, soprattutto nell’Inghilterra puritana del tempo. A Bandol scrive l’ultima sua opera, Apocalisse. Poi, nel febbraio del 1930, è costretto a entrare in una casa di cura a Vence: di lì, insofferente della vita del sanatorio, si fa trasportare nella Villa Robermond, sempre a Vence, dove muore il 22 marzo del 1930.

    LE OPERE

    The Phoenix Edition, Londra 1934-72, 26 voli. È tuttora in corso l’edizione critica di tutte le opere, a cura di J.T. Boulton e altri per i tipi della Cambridge University Press.

    Romanzi

    The White Peacock, Londra, Heinemann, 1911.

    The Trespasser, Londra, Duckworth, 1912.

    Sons and Lovers, Londra, Duckworth, 1913.

    The Rainbow, Londra, Methuen, 1915.

    Women in Love, Londra, Seeker, 1920.

    The Lost Girl, Londra, Seeker, 1920.

    Aaron's Rod, New York, Seltzer, 1922.

    The Ladybird; The Fox; The Captain's Doll, Londra, Seeker, 1922-23. Kangaroo, Londra, Seeker, 1923.

    The Boy in the Bush (con M.L. Skinner), Londra, Seeker, 1924.

    St. Mawr; The Princess, Londra, Seeker, 1925.

    The Plumed Serpent, Londra, Seeker, 1926.

    Lady Chatterley’s Lover, Firenze, Orioli, 1928 (edizione privata).

    The Man Who Died, pubblicato come The Escaped Cock, Parigi, Black Sun Press, 1929.

    The Virgin and the Gipsy, Londra, Seeker, 1930 (postumo).

    Mr. Noon, Cambridge U.P., 1984.

    Racconti

    The Prussian Officer and Other Stories, Londra, Duckworth, 1914.

    England, My England and Other Stories, New York, Seltzer, 1922.

    The Woman Who Rode Away and Other Stories, Londra, Seeker, 1928.

    Love Among the Haystacks and Other Stories, Londra, Nonesuch Press, 1930 (postumo).

    The Lovely Lady, Londra, Seeker 1933.

    A Modem Lover, Londra, Seeker, 1934 (postumo).

    Poesie

    Love Poems and Others, Londra, Duckworth, 1913.

    Amores, Londra, Duckworth, 1916.

    Look! We have come Through, Londra, Duckworth, 1917.

    New Poems, Londra, Seeker, 1918.

    Tortoises, New York, Seltzer, 1921.

    Birds, Beasts and Flowers, New York, Seltzer, 1923.

    Collected Poems, Londra, Seeker, 1928 (2 voll.).

    Pansies, Londra, Seeker, 1929.

    Nettles, Londra, Faber, 1930 (postumo).

    Last Poems, Firenze, Orioli, 1932 (postumo).

    Complete Poems, a cura di V. de Sola Pinto e W. Roberts, 2 voll., Londra, Heinemann, 1964 (postumo).

    Saggistica, libri di viaggio

    Twilight in Italy, Londra, Seeker, 1916.

    Movements in European History, Oxford U.P., 1921.

    Psychoanalysis and the Unconscious, New York, Seltzer, 1921.

    Sea and Sardinia, New York, Seltzer, 1921.

    Fantasia of the Unconscious, New York, Seltzer, 1922.

    Studies in Classic American Literature, New York, Seltzer, 1923.

    Reflections on the Death of a Porcupine, Filadelfia, Centaur Press, 1925. Mornings in Mexico, Londra, Seeker, 1927.

    Pornography and Obscenity, Londra, Faber, 1929.

    Apocalypse, Firenze, Orioli, 1931 (postumo).

    Etruscan Places, Londra, Seeker, 1932 (postumo).

    Phoenix I e Phoenix II, Londra, Heinemann, 1936 e 1968 (entrambi scritti postumi).

    Teatro

    The Widowing of Mrs Holroyd, New York, Kennerley, 1914.

    Touch and Go, 1920.

    David, Londra, Seeker, 1926.

    Collier’s Friday Night, Londra, Seeker, 1934 (postumo).

    Complete Plays, Londra, Heinemann, 1965 (postumo).

    Traduzioni

    Mastro-don Gesualdo, di G. Verga, New York, Seltzer, 1923.

    Little Novels of Sicily, di G. Verga, ibid., 1925.

    Cavalleria Rusticana and Other Stories, di G. Verga, Londra, Cape, 1928.

    The Story of Doctor Manente, dalle Cene» di A.F. Grazzini detto «Il Lasca», Firenze, Orioli, 1929.

    Epistolari

    The Collected Letters of D.H. Lawrence, a cura di Harry T. Moore, 2 voll., Londra, Heinemann, 1962 (in appendice la prefazione di Aldous Huxley a una scelta del 1932).

    The Letters of D.H. Lawrence, a cura di J.T. Boulton e altri, Cambridge U.P., 1979-1995.

    PRINCIPALI TRADUZIONI ITALIANE

    Fra il 1947 e il 1975, la Mondadori ha pubblicato quasi tutta l’opera di D.H. Lawrence nella collana Classici Contemporanei Stranieri. L’iniziativa è articolata nei seguenti volumi: Tutte le poesie, 2 voll.; Il pavone bianco - Il Trasgressore - Figli e amanti; L'Arcobaleno - Donne innamorate, La ragazza perduta - La verga di Aronne; Canguro - Il ragazzo della boscaglia - Il serpente piumato; Le tre Lady Chatterley; Romanzi brevi e frammenti di romanzo; Libri di viaggio e pagine di paese; Racconti, Teatro e prose varie.

    Sono stati inoltre pubblicati:

    Donne innamorate, Milano, Mondadori, 1979.

    Viaggio in Italia, Roma, Newton Compton, 1984.

    Mr. Noon, Milano, Feltrinelli, 1985.

    Romanzi giovanili (Il pavone bianco, Il Trasgressore, Figli e amanti), Milano, Rizzoli, 1986.

    Il pavone bianco - Figli e amanti - L'Arcobaleno, Milano, Mondadori, 1987.

    Le opere narrative di Lawrence sono state pubblicate, in edizioni economiche, da molte case editrici italiane. Tra le più recenti:

    Figli e amanti, Roma, Newton Compton, 1993.

    La vergine e lo zingaro, Roma, Newton Compton, 1994.

    L’uomo che amava le isole e L’uomo che era morto, Roma, Newton Compton, 1994.

    Il peccatore, Roma, Newton Compton, 1995.

    Il serpente piumato, Roma, Newton Compton, 1995.

    La volpe, Roma, Newton Compton, 1995.

    L’apocalisse, Roma, Newton Compton, 1995.

    La ragazza perduta, Milano, Mondadori, 1997.

    Poesie d’amore, Roma, Newton & Compton, 1999².

    L’amante di Lady Chatterley, Milano, Rizzoli, 2000.

    Donne innamorate, Roma, Newton & Compton, 2000.

    Il serpente piumato, Milano, Mondadori, 2000.

    L’amante di Lady Chatterley, Venezia, Marsilio, 2001.

    La donna che fuggì a cavallo, Milano, Adelphi, 2001.

    La donna che fuggì a cavallo, Milano, Mondadori, 2001.

    Mare e Sardegna, Roma, Newton & Compton, 2002.

    Itinerari etruschi, Roma, Newton & Compton, 2002.

    L’uomo che amava le isole, Torino, Lindau, 2002.

    BIOGRAFIE, STUDI E SAGGI CRITICI

    K. SAGAR (a cura di), A D.H. Handbook, Manchester, 1982². Altre Bibliografìe: a cura di W. ROBERTS (1982), a cura di J.C. COWAN (1981-85); J.T. RICE. D.H Lawrence: A Guide to Research, New York, 1983.

    R. ALDINGTON, D.H. Lawrence, Londra, 1930 e Portrait of a Genius, but..., Londra, 1950; F.R. LEAVIS, D.H. Lawrence, Londra, 1930 e D.H. Lawrence: A Novelist, Londra, 1955; T.S. ELIOT, After Strange Gods, Londra, 1934; C. CAUDWELL, Studies in a Dying Culture, Londra, 1938 (tr. it., La fine di una cultura, Torino, 1949); W.H. AUDEN, in Il jolly nel mazzo, tr. it., Milano, 1972; E. NEHLS (a cura di), D.H. Lawrence: A Composite Biography, 3 voll., Madison, Wis., 1957-59; W.Y. TINDALL, The Later Lawrence, New York, 1952; A. ARNIM, D.H. Lawrence in America, Londra, 1958; W.W.ROBSON, Women in Love. The Modem Age, Penguin Books, 1961; J.WOYNHAN, The Deed of Life, Oxford U.P., 1963; T. H. MOORE F. HOFFMAN, D.H. Lawrence and His World, New York, 1966; R. WILLIAMS, in Culture and Society, tr. it. Cultura e rivoluzione industriale, Torino, 1968; C. CLARK, River of Dissolution: D.H. Lawrence and English Romanticism, Londra, 1969; E. DELAVENAY, D.H. Lawrence: L'homme et la genese de son oeuvre, Parigi, 1969 (ed. inglese, 1972); K. MILLETT, Sex and Politics, New York, 1969 (tr. it., La politica del sesso, Milano, 1971); J.C. OATES, The Hostile Sun, Los Angeles, 1973 (sulla poesia di Lawrence); F. KERMODE, Lawrence, Londra, 1973; H.T. MOORE, The Priest of Love, Londra, 1974; S. SKLAR, The Plays of D.H. Lawrence, Londra, 1975 (sul teatro); P. CALLOW, Son and Lover: the Younger D.H. Lawrence, Londra, 1975; J. ALCORN, The Nature Novel from Hardy to Lawrence, Columbia U.P., 1977; A. NIVEN, D.H. Lawrence: the Novels, Cambridge U.P., 1978; A. SMITH (a cura di), Lawrence and Women, Londra, 1978; J. WORTHEN, D.H. Lawrence and the Idea of a Novel, Londra, 1979; M.C. DIX, D.H. Lawrence and Women, Londra, 1980; R. EBBATSON, Lawrence and Nature Tradition, Harvester, Sussex, 1980; J. MEYERS, D.H. Lawrence and the Experience of Italy, Filadelfia, 1982; J.H. HARRIS, The Sort Fiction of D.H. Lawrence, New Brunswick, 1984; S. MACLEOD, Lawrences Men and Women, Londra, 1985; A. BURGESS, Flame into Being, the Life and Work of D.H. Lawrence, Londra, 1985 (tr. it., La vita in fiamme, Milano, 1987); K. SAGAR, D.H. Lawrence: Life into Art, New York, 1885; M. BLACK, D. H. Lawrence: the Early Fiction, Basingstoke, 1986; D.J. SCHNEIDER, The Consciousness of D.H. Lawrence: an Intellectual Biography, Lawrence, Kans., 1986; C. MILTON, Lawrence and Nietzsche, Aberdeen, 1987; H.M. DALESKI, The Forked Flame, Londra, 1987²; D. ELLIS-H. MILLS, D.H. Lawrence's Non Fiction, Cambridge, 1988; H.A. LAIRD, Self and Sequence, Charlottesville, Va., 1988 (sulla poesia); P. BALBERT, D.H. Lawrence and the Phallic Imagination, Basingstoke, 1988; A. INGRAM, The language of D.H. Lawrence, Houndmills, MacMillan, 1993; F. BECKET, D.H. Lawrence: the thinker as poet, Londra, MacMillan, 1997; J. STEWART, The vital art of D.H. Lawrence: vision and expression, Carbondale, Southern Illinois University Press, 1999; T.R. WRIGHT, D.H. Lawrence and the Bible, Cambridge, U.P., 2000.

    Antologie della critica: a cura di M. SPILKA (1963); di H. COOMBES (1973); di P. BALBERT-P.L. MARCUS, D.H. Lawrence: a Centenary Consideration, Ithaca, N.Y., 1985; di G. SALGADO-G.K. DAS, The Spirit of D.H. Lawrence, Londra, 1988; A. PINKNEY, D. H. Lawrence, Londra, Harvester, 1990; A. FERNIHOUGH, D.H. Lawrence. Aesthetics and Ideology, Oxford, Clarendon Press, 1993; R E. MONTGOMERY, The Visionary D.H. Lawrence; beyond Philosophy and Art, Cambridge U.P., 1994.

    Alcuni contributi italiani

    A. SORANI, in Pegaso (giugno 1932); E. CECCHI, in Scrittori inglesi e americani, Milano 1936; C. LINATI, in Pegaso (aprile 1933) e Lawrence e l'Italia, Milano 1943; P. NARDI, La vita di D.H. Lawrence, Milano 1947 (P. Nardi ha curato Tutte le opere di D. H. Lawrence, Milano 1947-74); M. PRAZ, in Cronache letterarie anglosassoni, I, Roma 1950; E. CHINOL, in Comunità (novembre 1959) e «Introduzione» a Figli e amanti, Milano 1980; C. GORLIER, «Introduzione» a L'amante di Lady Chatterley, Milano, e altre introduzioni a opere di Lawrence (e in Il Verri, 17, 1980, sui racconti, l’intero numero della rivista è dedicato a Lawrence); L. ORSINI, «Le tre Lady Chatterley», in Le ragioni narrative (maggio 1960); G.MELCHIORI, in I funamboli, Torino 1963; M.CORSANI, D.H. Lawrence e l'Italia, Milano 1965; G. CIANCI, in I contemporanei. Letteratura inglese, a cura di V. AMORUSO e F. BINNI, Roma 1977; F. GOZZI, La narrativa del primo Lawrence, Pisa 1979; F. FERRARA, Romanzo e profezia, Officina 1982; S. MELANI, D.H. Lawrence, Firenze 1982; A. CERERE, su The Rainbow, in Annali Fac. Lingue e Lett. straniere dell'Univ. di Bari, 1-2, 1982; M. CABIDDU, sui «pellegrinaggi» di Lawrence, in Annali Fac. Scienze polit. dell'Univ. di Cagliari, X, 1983; C. COMELLINI, in Canada: testi e contesti, a cura di A. RIZZARDI, Abano 1981 e 1983; S. CENNI, La visione interrotta, Pisa 1985; O. DEZORDO ha curato i Romanzi, Milano 1986 e 1991; G. ALMANSI, «Introduzione» a Romanzi giovanili, Milano 1986; M. MERLINI, Invito alla lettura di D.H. Lawrence, Milano 1986; G. CONTE, «Introduzione» a Poesie, Milano 1987; S. ALBERTAZZI, Introduzione a Lawrence, Bari 1988; A.NIN, D.H. Lawrence, Milano, Bompiani, 1988; S. CENNI, Sortilegio della Parola. Voce Narrativa e Enunciazione in Conrad, Lawrence, Joyce, Compton Burnet, Bechet, Roma, Bulzoni, 1989; AA.VV., «Lawrence e il Guardacaccia dei Chatterley. La Tenerezza Travolta», in Civiltà Letteraria del ’900, Milano, Mursia, 1989; G. RAGAZZINI, D.H. Lawrence Profeta dell'Ecologia, Milano, CLUEB, 1989; F. SCARPA, Traduzione della Metafora. Aspetti della traduzione delle espressioni metaforiche del «Mastro don Gesualdo» in inglese ad opera di D.H. Lawrence, Roma, Bulzoni, 1989; C. COMELLINI e V. FORTUNATI (a cura di), D.H. Lawrence, Cent'anni dopo, Bologna, Patron, 1992; C. COMELLINI, D.H. Lawrence: a study on mutual and cross references and interferences, Bologna, CLUEB, 1995; F. GOZZI, L'orizzonte e l'ignoto: la dimensione spaziale nella narrativa del primo Lawrence, Pisa, ETS, 1995; S. MICHELUCCI, L'orizzonte mobile: spazio e luoghi nella narrativa di D.H. Lawrence, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998; A. PIAZZA (a cura di), D.H. Lawrence, arte e mito, Napoli, CUEN, 2000.

    DONNE INNAMORATE

    I. Le sorelle

    Ursula e Gudrun Brangwen sedevano una mattina nel vano della finestra, nella casa paterna in Beldover, lavorando e chiacchierando. Ursula dava punti svogliati ad un ricamo a vivaci colori e Gudrun disegnava, china su una tavoletta che teneva sulle ginocchia. Per lo più se ne stavano in silenzio, parlando solo di tanto in tanto, a seconda dei pensieri che vagavano loro per la mente.

    «Ursula», disse Gudrun, «davvero non vuoi sposarti?»

    Ursula posò il ricamo e sollevò il capo. Il suo viso era calmo e serio. «Non so», replicò. «Dipende da cosa intendi.»

    Gudrun restò piuttosto sorpresa. Osservò la sorella per qualche momento poi soggiunse, ironica: «Beh, generalmente si intende una sola cosa! Comunque», e la sua voce, ora, si era fatta seria, «non credi che staresti meglio di quanto stai ora?».

    Un'ombra attraversò il volto di Ursula.

    «Può essere», disse, «ma non ne sono sicura.»

    Gudrun tacque di nuovo, piuttosto irritata. A lei piacevano le cose chiare.

    «Non pensi che il matrimonio sia un'esperienza necessaria?», chiese.

    «Tu pensi proprio che sia un'esperienza!»

    «Deve esserlo, in un senso o nell’altro», disse Gudrun fiaccamente. «Forse non desiderabile, ma deve pur essere una qualche esperienza.»

    «Non credo proprio», fece Ursula. «Semmai, più probabilmente sarebbe la fine di ogni esperienza.»

    Gudrun sedeva immobile tutta presa da questi pensieri.

    «S’intende», aggiunse poi, «c’è da considerare anche questo.» E pose così fine alla conversazione. Quasi rabbiosamente prese la gomma e cominciò a cancellare parte del disegno. Ursula agucchiava, assorta.

    «Una buona proposta, non la prenderesti in considerazione?», riprese Gudrun.

    «Credo di averne respinta più d’una...»

    «Davvero?» Gudrun arrossì violentemente. «Qualcuno che veramente valesse la pena? Davvero l’hai rifiutato?»

    «Uno con mille sterline l’anno, un uomo proprio dabbene. Mi piaceva immensamente.»

    «Davvero! E questo non ti ha tentata?»

    «In astratto sì, ma non in concreto. Quando si viene al punto, non ci si sente affatto tentati. Oh, se mi sentissi tentata mi sposerei subito! Sono tentata solamente a non farlo.» Le due sorelle, improvvisamente divertite, si schiarirono in volto.

    «È sorprendente», esclamò Gudrun, «quanto sia forte la tentazione a non farlo!» Risero forte tutt’e due, guardandosi, ma, in fondo in fondo, sentivano uno strano senso di paura.

    Ci fu una lunga pausa, mentre Ursula cuciva e Gudrun portava avanti il suo schizzo. Erano ormai due donne. Ursula aveva ventisei anni e Gudrun venticinque, ma ambedue avevano il distaccato, pulito aspetto delle ragazze moderne, sorelle di Artemide piuttosto che di Ebe. Gudrun era molto bella, con la sua aria apatica, la pelle delicata e membra altrettanto delicate. Indossava un vestito di seta blu scuro con ruches di merletto blu e verde al collo e ai polsi e portava calze verde smeraldo. Sicura e guardinga, era in aperto contrasto con Ursula, vulnerabile ed ansiosa. La gente di provincia, intimidita dal perfetto sangue freddo di Gudrun e dalle sue maniere sbrigative, diceva di lei: «È una donna che sa il fatto suo». Era appena tornata da Londra, dove aveva passato vari anni studiando in una scuola d’arte e vivendo tra gli artisti.

    «Ora, spero proprio che arrivi qualcuno», disse afferrandosi improvvisamente il labbro inferiore tra i denti con una strana espressione sul volto, a metà tra un sorriso astuto e una certa ansietà. Ursula fu subito in allarme.

    «Così, sei venuta a casa per aspettarlo qui?», sorrise.

    «Oh, mia cara», esclamò l’altra con voce aspra, «non carìibierei strada per cercarlo, ma se dovesse arrivare un tipo piacente, piuttosto fornito, ben venga!», concluse ironicamente. Poi scrutò Ursula come per leggere nei suoi pensieri.

    «Non ti accorgi mai di annoiarti?», chiese alla sorella. «Non vedi che qui niente arriva ad un qualsiasi compimento? Nulla si realizzai Ogni cosa appassisce in boccio!»

    «Che cosa appassisce in boccio?», chiese Ursula.

    «Oh, tutto, noi stessi, le cose in genere!»

    Ancora una pausa, mentre ognuna delle sorelle considerava vagamente il proprio destino.

    «Fa paura», disse Ursula, e di nuovo vi fu silenzio.

    «Ma tu speri di raggiungere qualcosa proprio col matrimonio?», riprese poi quest’ultima.

    «Mi pare che sia il primo passo da fare», obiettò Gudrun. Ursula rifletté su queste parole con un pò di amarezza. Era da qualche anno insegnante nella scuola di Willey Green.

    «Lo so», disse. «Sembra così, in astratto. Ma immagina nella realtà, immagina qualcuno che conosci, immaginalo che torna a casa ogni sera, ti dice ciao e ti dà un bacio...»

    Ancora un attimo di silenzio.

    «Già...», disse Gudrun con voce smorzata, «sembra proprio impossibile... è l’uomo a renderlo impossibile.»

    «Naturalmente, ci sono i bambini...» fece Ursula dubbiosamente.

    Il volto di Gudrun s’indurì.

    «Veramente tu vuoi dei bambini, Ursula?», chiese freddamente. un'espressione confusa, incerta, apparve sul volto di questa.

    «Ci si pensa come ad una cosa di là da venire...», rispose.

    «Tu dici?», continuò Gudrun. «Io non provo nulla al pensiero di avere dei figli.» E guardò la sorella, il volto inespressivo come una maschera. Ursula aggrottò la fronte.

    «Forse... non è esatto», esitò. «Forse, in fondo in fondo, uno non li vuole... Ci si pensa solo superficialmente...» L’espressione cupa si accentuò sul volto di Gudrun, ma non volle definire il suo pensiero.

    «Quando si pensa ai bambini degli altri...», riprese Ursula.

    Gudrun guardò ancora la sorella, quasi ostile.

    «Giusto!», disse, per chiudere la conversazione.

    Le due sorelle continuarono a lavorare in silenzio. Da Ursula sembrava trasparire, come sempre, la pura luce di una fiamma segreta. Per lo più viveva di se stessa, lavorando, andando per la sua strada giorno dopo giorno, sempre assorta nei suoi pensieri, sforzandosi di programmare la propria vita, di carpirne il segreto secondo la propria sensibilità. La sua vita attiva era puramente esteriore ma in fondo al suo essere, nell’intimo, qualcosa stava succedendo. Se avesse solamente potuto infrangere l’ultimo diaframma! Ci si provava e protendeva le mani come un bimbo dal grembo materno, ma non poteva, non ancora! Tuttavia aveva come uno strano presentimento, una sensazione di qualcosa lì lì per venire.

    Posò il suo lavoro e guardò la sorella. Gudrun era così bella, così affascinante nella sua grazia, nella elegante, squisita ricchezza delle forme, nella delicatezza dei lineamenti! Dal suo apparente riserbo traspariva un senso di gaiezza, un soffio di sottile ironia. Ursula l’ammirava con tutta l’anima.

    «Perché sei tornata a casa, Prune?», chiese.

    Gudrun, conscia di quell’ammirazione, si scostò dal suo disegno e guardò Ursula da sotto le belle ciglia ricurve.

    «Perché son tornata Ursula?», ripetè. «Me lo sono chiesta mille volte...»

    «E non lo sai?»

    «Sì, credo di saperlo. Credo che il mio ritorno a casa sia giusto un reculer pour mieux sauter. » E guardò Ursula con un lungo, lento sguardo consapevole.

    «Ho capito», fece questa con aria perplessa e insicura come se invece non avesse capito proprio nulla. «Ma dove saltare poi?»

    «Oh, questo non ha importanza», esclamò Gudrun con una certa sufficienza. «Se si salta al di là di uno steccato, in qualche parte si andrà a cadere!»

    «Ma questo non è rischioso?»

    Un lento sorriso burlesco apparve sul volto di Gudrun.

    «Bah!», disse ridendo. «Queste sono solo parole!» e così chiuse di nuovo la conversazione. Ma Ursula meditava ancora.

    «E come ti è sembrata la casa, ora che ci sei tornata?», chiese.

    Gudrun tacque qualche istante, assorta, prima di rispondere. Poi, con voce tranquilla e sicura, disse: «Mi ci sento del tutto estranea».

    «E il babbo?»

    Gudrun guardò la sorella quasi con collera, come pronta ad un alterco.

    «A lui non ho pensato. Preferisco astenermene», rispose freddamente.

    «Già», annuì Ursula, ed ora la conversazione sembrò proprio alla fine. Le due sorelle si trovarono di fronte ad un vuoto, come se avessero guardato oltre l’orlo di un precipizio. Lavorarono in silenzio per un pò, Gudrun rossa per l’agitazione repressa, risentita per essere stata trascinata a quel punto.

    «Vogliamo andare a vedere quel matrimonio?», chiese finalmente con voce troppo indifferente.

    «Sicuro!», esclamò Ursula con entusiasmo esagerato gettando via il suo ricamo ed alzandosi di scatto come per fuggire, rivelando così la tensione del momento e facendo saltare i nervi a Gudrun.

    Come furono di sopra Ursula prese coscienza della casa e delle cose intorno, e detestò quel posto, il suo squallore e l’averlo troppo familiare. Fu spaventata dalla profondità del suo odio contro la casa, l’ambiente, l’atmosfera che vi regnava e quelle condizioni di esistenza ormai superate. Ebbe timore del suo sentimento.

    Poco dopo le due ragazze scendevano in fretta giù per la via principale di Beldover, una strada larga fiancheggiata da negozi e da abitazioni del tutto anonime e sordide anche se non propriamente miserabili. Gudrun, tornata di recente da Chelsea e dal Sussex, rabbrividì, colpita dall’amorfo squallore di quella piccola città mineraria delle Midlands. Tuttavia proseguì fra quella grigia continuità di brutture, giù per la lunga strada polverosa. Esposta ad ogni sguardo, provava una crescente sensazione di angoscia e si sentiva alla tortura. Si chiedeva come avesse potuto tornare e sottoporre se stessa a questa inutile, odiosa esperienza. Perché, perché lo aveva fatto? Perché assoggettarsi all’insopportabile tormento che le veniva da questa odiosa gente insignificante, da questo sordido paese? Si sentiva come uno scarafaggio nelle immondizie. Il disgusto le chiudeva la gola.

    Lasciarono la strada principale, oltrepassarono un campo nero dove torsi di cavolo fuligginosi si rizzavano impalati senza vergogna. La vergogna era lì una sensazione sconosciuta. Nessuno aveva vergogna di tutto quello squallore.

    «È come un paese in un mondo sotterraneo», disse infine Gudrun. «I minatori lo portano in superficie con loro, lo spalano su. È sorprendente, davvero straordinario, un altro mondo! Le persone sembrano demoni ed ogni cosa è come spettrale. È tutta una demoniaca riproduzione del mondo reale, uno spettro immondo, tutto è sporco, tutto è sordido! Sembra d’essere pazzi!»

    Le sorelle stavano percorrendo un viottolo nero che attraversava un campo altrettanto nero cosparso di rifiuti. Sulla sinistra si slargava un ampio paesaggio, una valle in cui si aprivano le miniere di carbone, dalla parte opposta si vedevano colline con campi di grano e boschi, caliginosi nella distanza come guardati attraverso un crespo nero. Fumo bianco e nero si levava in colonne continue nell’aria grigia, quasi per magia. Più vicino, file di case accatastate in declivio salivano su per il fianco della collina, case di rossi mattoni anneriti, sbocconcellati, con tetti di ardesia scura. Il viottolo, segnato dall’andirivieni dei minatori, era nero di polvere di carbone, fiancheggiato da ringhiere di ferro che lo separavano dal campo. Il cancelletto mobile che da esso immetteva nuovamente sulla strada era lustro per il continuo strofinio dei loro pantaloni di fustagno. Le sorelle procedevano ora tra file di case miserabili. Donne con le braccia incrociate sopra i ruvidi grembiuli sostavano pettegolando all’angolo di ogni isolato e squadravano le due Brangwen con quel lungo sguardo insistente proprio dei nativi. I bambini lanciavano lazzi al loro passaggio.

    Gudrun andava per la sua strada mezza intontita. Se questa era vita umana, se quelli erano esseri umani viventi in un mondo normale, che cosa era allora il mondo dove lei viveva? Si rese conto delle sue calze verde erba, del suo largo cappello di velluto verde, del suo ricco, morbido vestito di un blu intenso e si sentì come sospesa a mezz’aria, vacillante, il cuore contratto, come se dovesse precipitare a terra da un minuto all’altro. Ebbe paura.

    Si strinse ad Ursula ormai assuefatta al duro spettacolo di questo oscuro, ostile mondo fatto di nulla. Ma il suo cuore continuava a gemere, come se dovesse sopportare qualcosa di insostenibile. «Voglio tornare indietro, voglio andar via, non voglio sapere, non voglio sapere che esiste tutto ciò!» E invece no, doveva proseguire.

    Ursula poteva sentire la sua sofferenza.

    «Tu odi tutto questo vero?», chiese.

    «Sono sbalordita», balbettò Gudrun.

    «Non ti tratterrai a lungo», obiettò l’altra.

    E Gudrun tirò avanti anelando a una qualche liberazione.

    Si allontanarono dalla zona mineraria proseguendo oltre la sommità della collina, nell’aperta campagna dell’altro versante, verso Willey Green. Sui campi e sulle colline boscose persisteva il triste incantesimo che anneriva tutto e che sembrava misteriosamente librato nell’aria. Era una giornata di primavera ancora fredda, con brevi sprazzi di sole. Celidonie gialle occhieggiavano ai piedi delle siepi e nei giardini delle villette di Willey Green, sui cespugli di ribes, si vedevano già le prime foglie; l’alisso grigio che pendeva sui muri di pietra cominciava a coprirsi di piccoli fiori bianchi.

    Svoltando, infilarono la strada maestra che si snodava tra alti argini verso la chiesa. Lì, all’ultima curva, sotto gli alberi, stava un gruppetto di gente in attesa di vedere gli sposi. La figlia del maggior proprietario di miniere del distretto, Thomas Crich, sposava un ufficiale di marina.

    «Torniamo indietro», disse Gudrun, girandosi di scatto. «C’è tutta quella gente...» e si arrestò titubante.

    «Non ti preoccupare», disse Ursula, «sono brava gente. Mi conoscono tutti. Che ci importa di loro?»

    «Ma dobbiamo passare là in mezzo?»

    «Sono brava gente, veramente», ripetè Ursula proseguendo. Ed insieme si avvicinarono al gruppo di popolani in ansiosa attesa. Erano soprattutto donne, mogli di minatori, delle più misere, con volti attenti dai lineamenti grossolani.

    Le due sorelle si rimpettirono e si avviarono direttamente al cancello. Le donne si scostarono un poco, ma solo di quel tanto che permettesse loro di passare, come se cedessero terreno a malincuore, ed esse superarono l’ingresso in silenzio e salirono i gradini, sul tappeto rosso. Un poliziotto le seguiva con lo sguardo, quasi a valutarle.

    «Quanto vuoi per le calze?», gridò una voce dietro Gudrun. Una collera selvaggia e improvvisa invase la ragazza, un'ira violenta, omicida. Avrebbe voluto vederli tutti morti, spazzati via, così che il mondo ne rimanesse sgombro, libero per lei. Oh, come detestava quel camminare lungo il sentiero che attraversava il cimitero, su quel tappeto rosso, sotto i loro occhi!

    «Non voglio andar dentro la chiesa», disse d’un tratto in tono talmente deciso che Ursula si fermò immediatamente, si voltò e imboccò un vialetto laterale che portava al piccolo ingresso privato della scuola, adiacente alla chiesa. Appena dentro il recinto erboso, fuori del cimitero, Ursula sedette per un attimo sul muretto di pietra sotto gli arbusti d’alloro, per riposare. Dietro di lei il grande edificio rosso della scuola si levava silenzioso, con le finestre tutte aperte perché era vacanza. Oltre i cespugli, davanti a lei, si vedevano i tetti scoloriti e la torre della vecchia chiesa. Il fogliame nascondeva ora le due sorelle.

    Gudrun sedette in silenzio, la bocca serrata, il viso voltato. Rimpiangeva amaramente di essere tornata. Ursula la guardò, rendendosi conto di quanto fosse bella, tutta arrossata dall’ira, e tuttavia gliene veniva una specie di soggezione, di imbarazzo, quasi di stanchezza. Avrebbe preferito esser sola, libera dalla tensione, dal senso di costrizione che la presenza della sorella le causava.

    «Restiamo qui?», chiese Gudrun.

    «Stavo solo riposando un attimo», rispose Ursula alzandosi subito come sotto un rimbrotto. «Potremmo andare all’angolo vicino al cortile delle quinte. Vedremo tutto, di là.»

    Per il momento il sole splendeva sul cimitero, c’era intorno un vago sentor di linfa e di primavera, forse di violette, e questo sembrava venir di là dalle tombe. Erano spuntate le prime margheritine bianche, luminose come angeli. Nell’aria le foglie appena dischiuse di un faggio erano rosse come sangue.

    Puntualmente, alle undici, cominciarono ad arrivare le carrozze. Ci fu un rimescolio nel crocchio all’ingresso, un accalcarsi appena una carrozza si avvicinava e gli invitati si avviavano su per la scalinata, lungo il tappeto rosso, verso la chiesa. Erano tutti allegri ed eccitati per quel sole che splendeva. Gudrun li osservava attentamente, con obiettiva curiosità. Vedeva ognuna di quelle persone come una figura a sé stante, un personaggio di un libro o un soggetto in un quadro, una marionetta in un teatro, una creazione ultimata. Le piaceva scrutarne le varie caratteristiche per porle nella luce più giusta, nell’ambiente a ciascuna più rispondente, definirle per sempre mentre le passavano davanti sul percorso verso la chiesa. Poteva dire di conoscerle, le erano del tutto note, bollate e timbrate e sistemate per sempre, nessuna che avesse per lei qualcosa di ignoto, di non risolto. Questo finché non cominciarono ad apparire gli stessi Crich. Allora il suo interesse si acuì. Ora c’era qualcosa non del tutto scontato.

    Stavano avanzando la madre, la signora Crich, con il figlio maggiore, Gerald. Era una figura stravagante, sciatta a dispetto degli sforzi fatti certamente per darle un aspetto degno di quel giorno. Aveva una faccia pallida, anzi giallognola, una pelle chiara, trasparente, e una strana: maniera di camminare protesa in avanti, i lineamenti molto marcati ma ben disegnati e uno sguardo teso, aggressivo, che guardava senza vedere. I suoi capelli scoloriti erano tutti arruffati, ciocche scomposte le pendevano da sotto il cappello di seta blu sull’ampio soprabito, pure questo di seta blu scuro. Sembrava una donna affetta da monomania, con fare furtivo, ma profondamente orgogliosa.

    Il figlio era biondo, abbronzato, di statura superiore alla media, ben fatto e quasi troppo ben vestito. Anche lui aveva un aspetto singolare, un fare misurato, uno strano, velato lucore che faceva pensare non appartenesse allo stesso mondo della gente che lo circondava. Gudrun ne fu presa immediatamente. C’era in lui qualcosa di nordico che la magnetizzava. Nella sua carnagione di creatura delle nevi, nei suoi capelli chiari, c’era come uno splendore rifratto da cristalli di ghiaccio. Appariva fresco, intatto, puro come una creatura artica. Poteva avere trent’anni, forse più. La perfezione dei lineamenti, il suo aspetto maschio, come quello di un giovane lupo d’indole giocosa, non la ingannavano però sulla significativa, sinistra calma del suo portamento, non la inducevano ad ignorare il pericolo latente nel suo temperamento indomito. «Il suo totem è il lupo», si ripeteva Gudrun. «Sua madre è una vecchia lupa non domata.» E si sentì scossa da un fremito profondo, pervasa da un senso di rapimento come se avesse fatto lina scoperta incredibile, nota a nessun altro sulla terra. Una sensazione sconosciuta vibrava intensamente in lei, tutte le sue vene erano in subbuglio. «Buon Dio», diceva a se stessa, «cos’è questo?» E poi, un attimo dopo, si diceva con convinzione: «Saprò di più su quell’uomo». Era torturata dal desiderio di incontrarlo ancora, da una nostalgia, una necessità di rivederlo, di accertarsi che tutto non fosse un miraggio, che non si ingannava, che provava davvero quello strano, schiacciante sentimento per lui, che la sua certezza di conoscerlo così a fondo non era un'illusione, che non lo era neppure questo stato di timorosa aspettazione die l’aveva invasa. «Sono veramente stata scelta per lui, in qualche maniera, c’è veramente una limpida, dorata luce artica che avvolge soltanto noi due?», essa si chiedeva. Non poteva crederlo e continuava a fantasticare, appena cosciente di quanto le accadeva intorno.

    Erano arrivate le damigelle d’onore ma lo sposo ancora non si vedeva. Ursula si domandava se fosse successo qualcosa e se pertanto la cerimonia stesse per andare a monte. Si sentiva inquieta, come se tutto ciò dipendesse da lei. Si avvicinavano le damigelle più importanti. Ursula le osservava mentre venivano su per la scalinata. Una di loro le era nota, una donna alta che avanzava lentamente, quasi con riluttanza, sotto un casco di capelli biondi, il volto pallido e assorto. Era Hermione Roddice, un'amica dei Crich. Veniva avanti a testa alta, tenendo in equilibrio un enorme cappello a tese piatte di velluto giallo chiaro ornato di piume di struzzo in due tinte, grigie e naturali. Saliva con l’aria di chi si rende appena conto di quel che fa, la bianca faccia affilata levata come per non vedere il mondo. Era ricca. Indossava un vestito di leggero velluto di seta color giallo chiaro e portava un fascio di piccoli ciclamini rosa. Aveva scarpe e calze di un grigio brunastro come le piume del cappello posato sulla massa dei capelli e camminava tenendo i fianchi rigidi, un'andatura singolare certamente indipendente dalla sua volontà.

    Si faceva notare per l’indovinato accostamento dei colori, giallo pallido e bruno rosato, tuttavia aveva in sé qualcosa di macabro, di repulsivo. La gente la guardava passare in silenzio, impressionata, stupefatta, pronta a schernirla e tuttavia, per una qualche recondita ragione, silenziosa. Il lungo volto pallido, ostentatamente levato in alto alla maniera delle figure di Rossetti, sembrava quasi quello di una persona sotto l’influsso di una droga, come se una confusa massa di pensièri si aggrovigliasse nel buio dentro di lei, un viluppo da cui non riuscisse più a venir fuori. Ursula la osservava, affascinata. La conosceva appena. Era la donna più in vista delle Midlands. Suo padre era un baronetto del Derbyshire, della vecchia scuola; lei, invéce, era una donna della nuova scuola, piena di cerebralismo, soffocata, snervata dalla consapevolezza di sé. Si interessava appassionatamente alle riforme, l’anima completamente donata alla causa pubblica: era insomma una donna con aspirazioni da uomo, il mondo maschile la interessava vivamente.

    Intratteneva rapporti di carattere intellettuale o spirituale con vari uomini di vaglia. Tra questi Ursula conosceva solamente Rupert Birkin, uno degli ispettori della scuola locale, ma Gudrun ne aveva incontrato qualche altro a Londra. Frequentando con i suoi amici artisti ambienti di vari gradi sociali, aveva avuto possibilità di conoscere molta gente stimata e di valore. Aveva già incontrato Hermione due volte, ma le due donne non avevano simpatizzato. Sarebbe stato spiacevole incontrarsi di nuovo qui, nelle Midlands, dove la loro posizione sociale era così diversa, dopo èssersi conosciute in termini di eguaglianza nelle case di vari conoscenti in città.

    Per Gudrun il soggiorno a Londra era stato un successo sociale e così aveva ora i suoi amici tra l’aristocrazia di larghe vedute che intratteneva rapporti col mondo dell’arte.

    Hermione sapeva di essere ben vestita; sapeva di essere alla pari, socialmente, se non di gran lunga più in alto, di chiunque essa avesse potuto incontrare a Willey Green. Sapeva di essere ben accetta nel mondo della cultura e dell’intelletto. Era, insomma, una Kulturträger, cioè un elemento adatto a mediare lo sviluppo di nuove concezioni intellettuali. Era al passo con tutto ciò che era più in alto, sia in società sia nel campo del pensiero o in quello della pubblica attività o dell’arte, procedeva con i primi, del tutto a suo agio con loro. Nessuno poteva umiliarla né beffarsi di lei; perché lei era con i primi e l’essere contro di lei significava esserle inferiori per rango, ricchezza, capacità di intelletto e sensibilità. Per tutta la sua vita, così, aveva cercato di rendersi invulnerabile, inattaccabile, irraggiungibile dal giudizio del mondo.

    E tuttavia la sua anima era tormentata, allo scoperto. Anche ora, mentre procedeva sulla stradina verso la chiesa, sicura com’era d’essere, sotto ogni riguardo, al di sopra di ogni volgare giudizio, perfettamente conscia dell’impeccabilità del suo aspetto rispondente alle regole della più raffinata eleganza, nonostante tutto ciò, si sentiva alla tortura, dietro la sua sicurezza e il suo orgoglio, esposta all’insolenza, allo scherno e al malanimo. Sempre si sentiva così vulnerabile, c’era sempre una fessura segreta nella sua armatura. Non sapeva cosa fosse. Forse le mancava una personalità spiccata, non aveva l’innata capacità di bastare a se stessa, c’era in lei un vuoto terribile, l’assenza di qualcosa, una carenza dell’essere.

    Aveva bisogno di qualcuno che riempisse quel vuoto, che lo colmasse per sempre. Spasimava per Rupert Birkin. Quando c’era lui, si sentiva completa, soddisfatta, sicura. Lui lontano, era come una costruzione sulla sabbia, su un baratro, e, a dispetto di tutta la sua vanagloria e presunzione, bastava la più leggera ironia, la minima mancanza di riguardo di una cameriera scarsa di complimenti a farla precipitare nell’abisso senza fondo della sua insufficienza. Quella donna pensosa e tormentata occupava il suo tempo ammassando le sue difese fatte di cognizioni estetiche, di cultura, di intuizione del mondo e di interessi altruistici, ma senza riuscire a colmare quel terribile vuoto che si sentiva dentro.

    Oh, se soltanto Birkin avesse acconsentito a che i loro rapporti potessero divenire più profondi e durevoli, lei si sarebbe sentita al riparo per tutto quel faticoso viaggio che è la vita! Lui solo poteva darle la sensazione della sua completezza e della sua vittoria su tutti, perfino sugli angeli del cielo! Se avesse solo voluto! E invece paura e incertezza erano il suo eterno tormento. Si faceva bella, si sforzava di raggiungere quel grado di perfezione, di vaghezza che lo avrebbe convinto, ma c’era sempre in lei una qualche lacuna. Oltre tutto, egli era con lei di una tale durezza! La respingeva sempre, e più lei si sforzava di trarlo a sé più lui la respingeva. Erano amanti da anni, ormai, ma tutto era stato così doloroso, così faticoso da sopportare e lei era così stanca! Aveva, però, ancora, fiducia in se stessa. Sapeva che Birkin voleva por fine alla relazione, sapeva che voleva romperla definitivamente con lei ed esser libero, ma lei contava ancora sulla propria forza per tenerlo avvinto, fidava ancora nel fascino della sua profonda cultura. Certo, anche lui era uomo di cultura superiore, ma lei era la pietra di paragone della verità e aveva un immenso bisogno di saperlo suo. Lui, con la cattiveria di un bambino caparbio, si rifiutava a questa unione che lei considerava perfetta e che sarebbe stata senz’altro anche per lui la più grande realizzazione. Con puerile ostinazione voleva distruggere il sacro legame che era tra loro.

    Sarebbe stato presente a quelle nozze; era il testimone dello sposo. Forse era in chiesa, in attesa, e l’avrebbe vista arrivare. Un brivido di nervosismo e di passione la scosse mentre faceva il suo ingresso. Birkin doveva essere lì e avrebbe notato la perfezione del suo vestito, si sarebbe accorto di come si era fatta bella per lui. Avrebbe capito, si sarebbe reso conto che lei era fatta per lui, lei, la prima, la più desiderabile per lui. Di certo, finalmente, egli avrebbe accettato il suo alto destino, non l’avrebbe rifiutata.

    Entrò in chiesa in uno spasimo di struggimento e lo cercò con lenti sguardi furtivi di sotto le ciglia abbassate, il corpo sottile scosso dall’agitazione. Avrebbe dovuto trovarsi di fianco all’altare, essendo, come testimone dello sposo, il più importante degli uomini intervenuti. Guardò ancora lentamente, rifiutandosi di accettare quanto ormai in lei era già certezza.

    Dunque, non c’era. Un terribile orgasmo la prese, quasi fosse per annegare. Si sentì invadere da una

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