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Operazione Barbarossa
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E-book540 pagine7 ore

Operazione Barbarossa

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Info su questo ebook

Come Hitler ha perso la seconda guerra mondiale

L’invasione militare più sanguinosa della storia

Il 22 giugno 1941 ebbe inizio la più grande invasione militare nella storia: l’attacco all’Unione Sovietica da parte di quattro milioni di soldati tedeschi.
L’Operazione Barbarossa portò alla più cruenta campagna che l’umanità abbia mai conosciuto, il cui costo in termini di distruzione e perdite umane fu altissimo: durante quei terribili anni, oltre quaranta milioni di persone persero la vita. Eppure, la vera avventura del fronte orientale è ancora poco conosciuta, al di fuori della Germania e dei Paesi direttamente coinvolti. Poco si sa di coloro che dovettero affrontare gli orrori della “guerra di annientamento” voluta da Hitler – i soldati e i civili dell’Europa dell’Est che combatterono e morirono per salvare la loro patria e i loro cari. Stewart Binns racconta la storia di quanti sopravvissero a quell’incubo, e della loro rivalsa sugli aggressori nazisti.

Quattro milioni di soldati contro un popolo intero determinato a resistere
Lo straziante racconto dell’attacco nazista alla Russia, la più vasta operazione militare della storia

«Mio nonno, Winston Churchill, ammirava il coraggio e la risolutezza dell’Armata rossa e dei popoli dell’Europa orientale tutta. Questo libro straordinario, ricco di dettagli e di storie di grande ispirazione, spiega molto di quell’ammirazione.»
Celia Sandys, nipote di Winston Churchill

«Un racconto magistrale, arricchito da straordinarie ricerche e da una profonda analisi dell’anima della Russia.»
Nick Hewer

«Un libro davvero sorprendente, ricco di testimonianze inedite su ciò che significò affrontare e contrastare la più grande invasione della storia dell’umanità.»
Andrew Roberts
Stewart Binns
È stato prima accademico, insegnante e soldato, poi è entrato alla BBC e ha intrapreso una brillante carriera nella televisione, ottenendo numerosi premi e riconoscimenti, soprattutto per i suoi documentari. Operazione Barbarossa è il suo tredicesimo libro.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2021
ISBN9788822756428
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    Anteprima del libro

    Operazione Barbarossa - Stewart Binns

    757

    Titolo originale: Barbarossa and the Bloodiest War in History

    Copyright © 2021 Stewart Binns

    Traduzione dalla lingua inglese di Mara Gini

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Prima edizione ebook: ottobre 2021

    ISBN 978-88-227-5642-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Stewart Binns

    Operazione Barbarossa

    Come Hitler ha perso la seconda guerra mondiale

    Indice

    Cronologia

    Nota dell’autore

    Prefazione. Lo spirito della Russia

    Introduzione. Delineare il fronte ideologico

    PRIMA PARTE. INVASIONE

    Capitolo 1. Un patto con Satana per scacciare il Demonio agosto 1939-giugno 1941

    Capitolo 2. Blitzkrieg giugno 1941

    Capitolo 3. Una calda mattina estiva giugno 1941

    Capitolo 4. Crisi al Cremlino giugno 1941

    Capitolo 5. Smolensk luglio-settembre 1941

    Capitolo 6. Leningrado: ha inizio l’assedio luglio-ottobre 1941

    Capitolo 7. Leningrado: si muore di fame dicembre 1941-gennaio 1944

    SECONDA PARTE. STERMINIO

    Capitolo 8. Il cane brutale allo sbaraglio luglio 1941

    Capitolo 9. Mosca: il nemico alle porte ottobre 1941

    Capitolo 10. Mosca: Maresciallo Fango e Generale Inverno ottobre-dicembre 1941

    Capitolo 11. Occhi a sud gennaio-giugno 1942

    Capitolo 12. Il fulcro giugno-luglio 1942

    Capitolo 13. Proteggere il petrolio luglio-novembre 1942

    TERZA PARTE. LA MADRE DI TUTTE LE BATTAGLIE

    Capitolo 14. Stalingrado: ha inizio la grande battaglia settembre 1942

    Capitolo 15. Stalingrado: di strada in strada, di casa in casa settembre-novembre 1942

    Capitolo 16. Stalingrado: vittoria! novembre 1942-febbraio 1943

    QUARTA PARTE. L’INFERNO SUL CAMPO DI BATTAGLIA

    Capitolo 17. Cambia la marea marzo-giugno 1943

    Capitolo 18. Kursk: ferro e sangue luglio 1943

    Capitolo 19. Il mattatoio agosto-dicembre 1943

    Capitolo 20. Un pugno allo stomaco agosto-ottobre 1943

    Capitolo 21. Sigari a tavola, più cadaveri sul campo gennaio-aprile 1944

    Capitolo 22. Operazione Bagration aprile-agosto 1944

    Capitolo 23. La tragedia di Varsavia ottobre 1939-gennaio 1945

    QUINTA PARTE. GÖTTERDÄMMERUNG, IL CREPUSCOLO DEGLI DEI

    Capitolo 24. La marea rossa settembre 1944-febbraio 1945

    Capitolo 25. Il colosso gennaio-marzo 1945

    Capitolo 26. Vendetta aprile-maggio 1945

    Capitolo 27. Conseguenze maggio 1945-

    Ringraziamenti

    Testimoni

    Note sulle fonti

    Bibliografia selezionata

    Ai milioni di europei dell’Est di varie nazionalità, che si sono trovati in mezzo all’offensiva più brutale della storia moderna.

    Cronologia

    Nota dell’autore

    Non è mai facile avere a che fare con le statistiche di guerra. Il caos dei campi di battaglia e il trauma delle morti, delle ferite, della diserzione e della devastazione rendono l’aritmetica bellica una scienza inesatta. Se all’equazione si aggiungono anche strati su strati di propaganda nazista e sovietica, e i non pochi depistaggi e inganni del dopoguerra legati al senso di vergogna, i numeri diventano ancor meno affidabili. La portata del conflitto sul fronte orientale fu tale che non potremo mai disporre di statistiche incontrovertibili. In genere la maggior parte dei dati antropologici (morti e feriti) viene arrotondata al milione. Inevitabilmente tale mancanza di prove definitive ha condotto ad ampie discrepanze nei resoconti storici, e non sono mancati esagerazioni e ridimensionamenti. Nel tentativo di barcamenarmi in questa sfida, ho cercato di puntare a un consenso ponderato. Vi è tuttavia almeno una cosa che posso affermare senza paura di essere smentito: si fatica a credere alla tremenda conta dei morti e dei feriti, alle devastazioni e alla desolazione.

    Ho inoltre cercato di essere sempre coerente nella traslitterazione del cirillico (alfabeto utilizzato da svariate lingue eurasiatiche contemporanee, tra cui il russo). Non esiste una regola univoca, tuttavia ho fatto del mio meglio per adottare un approccio standard. Qualora avessi sbagliato, chiedo perdono ai miei amici russi per aver distorto la loro lingua.

    Prefazione

    Lo spirito della Russia

    La prima volta che visitai la Russia, all’epoca ancora Unione Sovietica, fu nell’estate del 1969. Eravamo quattro studenti a bordo di una Mini e per fortuna una di noi sapeva parlare bene la lingua, altrimenti senza di lei è molto probabile che non saremmo mai tornati a casa. La visita, costellata di bravate e drammi, mi ha lasciato un sacco di vividi ricordi, che mi hanno tenuto compagnia per più di cinquant’anni.

    In seguito ci sono tornato svariate volte, anche di recente per le ricerche relative a questo libro, e ho visto il Paese trasformarsi da un vasto impero sovietico, ancora caratterizzato dai rigori dello stalinismo, in una nuova Federazione Russa, molto meno idealistica e molto più nazionalista, capace di mostrare i muscoli sulla scena internazionale.

    La mia visita del 1969 fu un’avventura estiva di sei settimane, che ebbe inizio sul confine finlandese, a Vyborg, e si concluse su quello romeno, sul mar Nero. Mi portò da Leningrado (oggi San Pietroburgo) a Novgorod, Mosca, Orël, Kiev e Odessa. In Occidente eravamo all’apice del flower power e delle politiche studentesche radicali, così lontani dalle censure comuniste e dall’ordinarietà dell’Unione Sovietica.

    Il nostro arrivo a Vyborg servì ad aprirci gli occhi. Il lato finlandese del confine sovietico godeva di tutti gli equipaggiamenti e i comfort dello stile di vita occidentale durante i travolgenti anni Sessanta. Questi agi sparivano immediatamente non appena si metteva piede in una terra di nessuno disseminata di trappole anticarro e torrette di guardia. L’atmosfera era spettrale: non scorgemmo anima viva, edifici o veicoli nel raggio di parecchi chilometri, solo radure che fendevano una fitta foresta di conifere. Le guardie che incontrammo al confine ci accolsero nei loro remoti rifugi con espressioni truci, a tutta evidenza ben poco felici dell’arrivo di quattro hippy che interrompevano il loro riposino pomeridiano.

    Ci costrinsero a mangiare o gettar via gli splendidi frutti che avevamo acquistato nel meraviglioso mercato del porto di Helsinki e quando provammo a offrirglieli ottenemmo in cambio una risposta brusca e secca: «Niet!». La nostra piccola Mini fu ispezionata con cura e le guardie più versate in meccanica rimasero costernate nel sollevare il cofano e scoprirvi al di sotto il rivoluzionario motore trasversale salvaspazio di Alec Issigonis, con la sua guida a trazione anteriore.

    Quando arrivammo a Vyborg alla fioca luce del crepuscolo, ci parve quasi medievale. Contadini con grembiuli e scialli si trascinavano lungo sentieri sterrati; l’illuminazione stradale era sporadica e debole, gli edifici spartani e fatiscenti. La stazione di polizia, dove fummo costretti a recarci al nostro arrivo, pullulava di soldati dai visi granitici e di uomini della sicurezza dall’aria ancora più severa. Del resto Vyborg era una tetra città di confine all’epicentro di secoli di tensioni e conflitti tra finlandesi, svedesi e russi.

    Il campeggio locale, i cui unici altri ospiti erano russi, era alquanto rudimentale, con una latrina unisex che era di fatto semplicemente una cloaca a cielo aperto, con un ramo orizzontale cui aggrapparsi. Eravamo tutti in ansia: in che cosa ci eravamo mai imbarcati?

    Le cose però migliorarono. Le giornate erano calde e soleggiate e di sera e nei weekend la gente usciva a passeggiare con indosso gli abiti migliori. Facemmo esperienza dell’Unione Sovietica mentre questa si godeva un breve periodo di stabilità e modesta prosperità, favorita dalle riforme introdotte da quando Leonid Brežnev aveva preso la guida del Paese, appena cinque anni prima del nostro scoraggiante arrivo.

    I cinici potrebbero obiettare che non vi era quasi paragone con le amenità e gli intrattenimenti disponibili in Occidente. I pochi bar esistenti avevano menu alquanto scarni: pane nero, torte secche e cetriolini sottaceto. Da qualche parte in un Paese ricco di terre fertili doveva esistere anche la frutta, ma non ce n’era traccia nei paesini e nelle città del Nord.

    Birra e vodka scorrevano a fiumi e l’ubriachezza molesta era all’ordine del giorno: vodka per gli uomini, birra per le donne. Il fatto che i due uomini del nostro quartetto, entrambi con capelli biondi lunghi fino alla schiena, rifuggissero la vodka e optassero per la birra, mentre le due donne bevevano la vodka, fece inarcare non poche sopracciglia. L’alcol contribuiva davvero molto a migliorare la monotonia della gente, dei luoghi e della vita in generale.

    Le persone non davano l’impressione di seguire alcuna moda, indossavano solo semplici abiti in dotazione standard; non si vedevano luci al neon e in pratica non circolavano automobili, fatta eccezione per le limousine nere degli alti papaveri del partito; ogni genere di lusso personale veniva tenuto nascosto o era stato venduto dal suo proprietario già da molto tempo.

    Ci furono anche svariate altre rivelazioni e alcune confermarono stereotipi già noti. Per la maggior parte le gang di strada erano composte davvero da donne, e le loro proporzioni erano tali che mettersi a discutere con loro per una precedenza o uno stop mancato non sarebbe stata una mossa saggia. Allo stesso modo si vedevano schiere di uomini massicci e muscolosi che non avrebbero faticato a trovare impiego come buttafuori nei bar e nei locali di Soho. Intellettuali occhialuti, con tanto di barbetta e berretto da marinaio, non poco rassomiglianti a Vladimir Il’ič Ul’janov (Lenin), leggevano in silenzio pesanti volumi nei parchi o su autobus e treni. Se ne potevano incontrare in enormi raduni all’aperto di giocatori di scacchi, intenti a studiare complesse mosse d’apertura o di chiusura a testa bassa, in assorta meditazione.

    La polizia era ovunque: eravamo tenuti a presentarci in centrale in ogni località dove soggiornavamo. In svariate occasioni fummo pedinati e ci imbattemmo in alcuni soldati che all’apparenza sembravano avere poco da fare. Anche se si respirava una moderata aria di oppressione, sembrava non esserci traccia di violenza e nessuno disturbava la quiete pubblica, fatta eccezione per i numerosi ubriachi riversi nei parchi, per le strade e sui vagoni della metro.

    La vita in Unione Sovietica non era del tutto negativa. L’istruzione e le spese mediche erano gratuite e di qualità eccellente; gli affitti erano bassi e il trasporto pubblico molto conveniente. Tutti avevano un lavoro, anche solo simbolico, come le decine di vedove di guerra che sedevano tutto il giorno alla base delle scale mobili nella metro di Mosca, con le sue incredibili stazioni che inneggiavano alle conquiste dell’architettura stalinista, designate per incarnare il concetto di svet (splendore e radiosità).

    Trovammo alcuni comfort degni di nota, persino per studenti occidentali relativamente benestanti. C’erano molte fontanelle pubbliche, ognuna corredata di mensoline con sopra dei bicchieri e piccoli zampilli d’acqua per pulirli e anche distributori di succhi di frutta con cui riempirli. Il costo? Appena un copeco, quasi nulla. Lo stesso accadeva su autobus, tram e metro: non c’erano controllori, solo una cassetta in cui lasciare un paio di copechi. Nel 1969 un copeco, la centesima parte di un rublo, valeva appena qualche lira.

    Agli angoli di parecchie strade si potevano trovare anche i carretti dei gelati. I russi adorano il gelato. Ai tempi dei soviet si diceva che c’erano solo tre ragioni per andare in Unione Sovietica: il balletto, il circo di Stato e il gelato. Negli anni Trenta lo Stato aveva decretato che si potessero usare solo ingredienti naturali nella fabbricazione del gelato e il risultato era un dolce delizioso e cremoso, servito tra due biscotti e avvolto con delicatezza nella stagnola, al prezzo di tre copechi. Spiccioli!

    Quando lasciammo l’Unione Sovietica e oltrepassammo il Danubio verso quella che oggi è la Moldova, attraversammo Romania, Bulgaria e Jugoslavia, e ognuno di questi territori aveva la propria peculiare versione di comunismo sovietico. La Romania era forse ancora più scialba e monotona, ma se non altro c’era il castello di Dracula. La Bulgaria era altrettanto tetra, ma c’erano Varna, il mar Nero e le spiagge sabbiose. La Jugoslavia di Tito era molto più rilassata e aveva l’Adriatico. Inoltre c’erano la frutta e (un assaggio di paradiso dopo settimane di pane nero) le patatine fritte!

    Anni dopo, durante la mia carriera di documentarista, i miei viaggi mi hanno condotto in molte zone dell’Europa dell’Est e dell’Unione Sovietica. Sono riuscito a tornare in molte delle località che avevo già visitato nel 1969, ma solo dopo il cambio di regime. Ho vissuto la snervante esperienza di attraversare Checkpoint Charlie, da una ricca e cosmopolita Berlino Ovest a una pesantemente oppressa Berlino Est. La notte stessa mi sono aggirato per il famoso Unter den Linden fino alla torreggiante porta di Brandeburgo. L’intero viale era deserto e illuminato in modo spettrale da sporadici lampioni. La vita normale sembrava un concetto alieno. Anche se si trattava di una città importante, dov’erano i bar, i caffè, i ristoranti? E soprattutto, dov’erano i berlinesi?

    Quella scena mi aveva fatto pensare ai precedenti cinquant’anni di storia e a tutto quello che era accaduto tra la Germania e l’Unione Sovietica. Berlino Est era ancora avvolta nel bozzolo formatosi durante la seconda guerra mondiale. Fu un’esperienza ultraterrena.

    Il cuore del mio lavoro consisteva nella ricerca di archivi cinematografici del

    XX

    secolo, soprattutto rare pellicole a colori, e per questo mi sono recato a Mosca più e più volte. Quelle cacce al tesoro, e gli amici e i colleghi che ho incontrato lungo il mio percorso, mi hanno portato ad apprezzare parecchie cose sulla psicologia dei russi. Non solo adorano la propria storia e vanno molto fieri delle proprie conquiste, ma hanno anche un impressionante pedigree intellettuale: musica, letteratura, arti e curiosità accademiche rivestono un ruolo di spicco nelle loro vite. I loro archivi, spesso custoditi in edifici alquanto cadenti, sono immacolati e le informazioni necessarie alla loro consultazione sono registrate in modo meticoloso. Le procedure necessarie a lavorare in Russia potranno essere alquanto burocratiche, ma a differenza di molti altri Paesi, se non altro ci sono delle procedure. Per di più non mancano storici entusiasti, traduttori e amanti dei vecchi film, ansiosi di assistere con estrema diligenza alle operazioni di ricerca.

    Per l’arrivo degli anni Ottanta, le crepe nella struttura del comunismo sovietico erano ormai larghe quanto la Piazza Rossa e gli Stati satellite versavano in un patetico stato di risentita oppressione. Ricordo di essere andato a Sofia nel 1987. Dopo un pranzo a base di una zuppetta chiara e oleosa risollevata da un paio di fette di carne di montone (e sì, accompagnata dall’immancabile pane nero), avevamo girato la città, mentre i miei ospiti cercavano di comprarmi una bottiglia di ottimo vino locale da portare a casa in dono. Purtroppo, con loro evidente imbarazzo, non riuscimmo a trovarne nemmeno una in tutta la città. All’epoca la Bulgaria era il quarto esportatore al mondo di vino, eppure nei modesti negozietti della capitale non se ne trovava nemmeno una bottiglia. La Bulgaria era stata alleata della Germania durante la guerra, ma in quel periodo, sotto il dominio moscovita, tirava avanti in un clima opprimente e rigido. Era impossibile non considerare il Paese come un figlio imbronciato della seconda guerra mondiale.

    Oggi Russia ed Europa orientale sono luoghi molto diversi e, purtroppo, in Russia si mangia lo stesso gelato del resto del mondo. Anche se gran parte dell’Unione Sovietica è andata perduta sulla scia del collasso del 1991, la nuova Federazione Russa è ancora uno Stato molto vasto, gran parte del quale remoto e piagato da una povertà rurale. Persino nelle città la norma è costituita da enormi schiere di palazzoni residenziali di pessima fattura, dove si conducono vite modeste in netto contrasto con la sovrabbondante ricchezza di chi ha beneficiato delle vaste riserve di petrolio e gas naturale del Paese. Decenni di socialismo di stato sono stati rimpiazzati da una sfrenata ostentazione di ricchezza, sotto l’occhio vigile di Vladimir Putin.

    Le strade di Mosca pullulano di auto di lusso; abbondano i ristoranti e i bar, pieni di giovani brillanti che mangiano e bevono senza fare complimenti, dove pasta, pizza e hamburger hanno rimpiazzato il boršč e lo Stroganov. Da tempo sono spariti il pane nero e i cetriolini sottaceto: adesso i negozi offrono ogni genere di prelibatezza, i più ricercati orologi svizzeri e abiti e borse all’ultima moda.

    Eppure, nonostante tutti i cambiamenti nella storia moderna russa (dagli zar medievali ai dittatori comunisti, da Gorbačëv a El’cin a Putin, passando attraverso rivoluzioni, guerre e purghe, sofferenza e morte), la popolazione è rimasta la stessa.

    Si tratta di una storia lunga e complessa, quella di un vasto e variegato impero continentale che copre metà globo e annovera varie nazionalità, culture e lingue, anziché di una nazione unificata. Riflette la commistione etnica delle genti che hanno attraversato le vaste distese della Madre Russia. I primi slavi provenivano da est, ma nel

    IX

    e

    X

    secolo giunsero le migrazioni vichinghe da nord, lungo i grandi fiumi del Paese, portando la possibilità di fare affari e nuovi governanti che estendevano la propria influenza dal Baltico al mar Nero. Le rotte commerciali stabilirono collegamenti con l’impero bizantino e aprirono la Russia al resto del mondo. Nel

    XIII

    secolo vi fu l’invasione mongola, che distrusse numerose città, tra cui Kiev e Mosca, prima che gli invasori venissero scacciati da Ivan il Grande, il cui nipote divenne il primo zar di Russia nel 1547.

    Il clima rigido e l’ambiente inospitale in cui vivono, oltre alle numerose avversità che hanno dovuto fronteggiare nell’arco dei secoli, hanno reso i russi risoluti e, a volte, taciturni. Eppure sotto quell’apparenza burbera, che i visitatori possono scambiare per austera o persino scortese, covano un calore genuino, una generosità e una forte convinzione nel bene comune. Non si tratta della visione comunista del bene comune, per quanto abbia in parte contribuito alla rapida accettazione del socialismo, quanto piuttosto di una volontà collettiva, la fiducia nella forza della cultura e delle tradizioni della Madre Russia. Lo chiamano spirito della Russia e si esprime nella musica, nella danza, nella letteratura e nell’architettura. Molti hanno indagato questo spirito, tra cui Gogol’ e Tolstoj. Dostoevskij a riguardo ha detto: «È terrificante quanto sia libero lo spirito di un russo, quanto tenace sia la sua volontà!» ¹.

    Tali generalizzazioni sconfinano nello stereotipo, ma rivelano molto più delle aspre percezioni che spesso hanno gli occidentali e che dipendono dalla guerra fredda e dall’autocrazia di Vladimir Putin. Nel complesso, a prescindere dalle ambizioni dei suoi leader, la mentalità russa si è dimostrata non belligerante. È passiva, persino fatalista. I russi sono stoici, non guerrafondai.

    Tuttavia, se minacciati, sono in grado di attingere grande forza dalla volontà collettiva. Il loro spirito fa sì che sappiano resistere e sopportare. Queste sono le qualità di cui hanno dato prova durante il tremendo sforzo bellico della seconda guerra mondiale, qualità che li hanno portati a sopravvivere e, infine, a vincere il conflitto più sanguinoso della storia.

    Mi sono affezionato allo spirito russo. Questo libro è, in parte, il mio omaggio a quei fenomeni intangibili che lo definiscono.

    Stewart Binns

    1 10 masterful quotes about the Russian soul you need to know, «Russia Beyond», 29 dicembre 2017. https://www.rbth.com/arts/327188-10-masterful-quotes-about-russian (ultimo accesso gennaio 2020).

    Introduzione

    Delineare il fronte ideologico

    Il seguente resoconto degli eventi straordinari che ebbero luogo sul fronte orientale durante gli anni della seconda guerra mondiale, dal 1941 al 1945, si propone di esaminare il conflitto esclusivamente dalla prospettiva di coloro che si trovarono ad affrontare l’aggressione tedesca, sia combattenti sia civili. Che fossero russi o appartenessero a una delle numerose altre nazionalità trascinate nella guerra, saranno le loro lettere, i diari e i racconti di prima mano a scandire la narrativa di quest’opera.

    La storia del fronte orientale non è molto conosciuta al di fuori della Russia e della Germania contemporanee. Le nazioni occidentali vi furono coinvolte solo in modo marginale e gli storici hanno sempre mostrato la tendenza a concentrarsi sugli eventi che videro coinvolti Gran Bretagna, Stati Uniti e gli alleati del Commonwealth, anziché i Paesi orientali. Vi sono alcune eccezioni degne di menzione, per esempio gli orrori della battaglia di Stalingrado. Tuttavia, persino nella maggior parte dei racconti di quella tremenda battaglia l’attenzione si è sempre concentrata sulla sconfitta catastrofica della Wehrmacht anziché sull’eroica vittoria dell’Armata Rossa.

    È importante collocare l’enorme conflitto che si combatté sul fronte orientale nella più ampia prospettiva della storia recente russa. La Russia era entrata nel

    XX

    secolo venendo da tre secoli di dominio degli zar Romanov. Questa famiglia aveva modernizzato il Paese nel

    XVII

    e

    XVIII

    secolo, gettando le fondamenta per un vasto impero russo, che si estendeva dalle coste del Baltico all’Alaska, e avevano fondato una nuova capitale: San Pietroburgo.

    Per tutto il

    XVIII

    secolo, durante il regno illuminato di Caterina la Grande, il potere e l’influenza della Russia erano cresciuti: l’impero si estendeva a ovest verso la Polonia, la Prussia e l’impero asburgico e a sud fino alla Crimea, ed era a tutti gli effetti un’importante superpotenza. Inevitabilmente l’estensione del territorio e il nuovo status avevano creato una situazione di tensione con i suoi vicini altrettanto formidabili – l’impero ottomano, la Gran Bretagna e la Francia –, poi sfociata nella pesante sconfitta della guerra di Crimea, nel 1856.

    Nel 1914, dopo aver sconfitto la Serbia, la Russia si unì a Gran Bretagna e Francia nella Grande Guerra contro la Germania e i suoi alleati: l’impero austroungarico e quello ottomano. Il conflitto ebbe un impatto disastroso sul Paese. A livello militare, la Russia feudale non poteva competere con la Germania industrializzata e le vittime russe superarono di gran lunga quelle di qualunque altra nazione nel corso della storia. La carenza di cibo e carburante fece schizzare il prezzo di questi beni alle stelle e l’inflazione galoppò. I continui disordini civili conseguenti a secoli di oppressione da parte degli zar fecero il resto: la rivoluzione era inevitabile.

    Nel 1917, nel mezzo di grandi tumulti e violenze, Lenin guidò al potere il suo Partito bolscevico con un colpo di Stato. Più tardi nello stesso anno scoppiò una lunga guerra civile, durante la quale gli oppositori politici dei bolscevichi ricevettero l’appoggio degli alleati occidentali, tra cui Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti, ma alla fine fu l’Armata Rossa di Lenin a gridare vittoria. Nel 1922 fu dichiarata la nascita dell’Unione Sovietica che, in qualità di capo del Consiglio dei commissari del popolo, Lenin guidò fino alla morte, nel 1924.

    Non gli succedette un russo, bensì un georgiano, Iosif Stalin, che consolidò il suo dominio dittatoriale tramite politiche economiche draconiane e feroci purghe, che compresero anche esecuzioni e imprigionamenti di massa. Per coloro che vi sopravvissero fu un periodo straziante.

    Ljubov Šaporina faceva parte dell’intellighenzia prerivoluzionaria dell’Unione Sovietica e fu uno degli obiettivi principali dell’epoca del terrore di Stalin. Fondatrice del teatro delle marionette di Leningrado, era sposata con il compositore Jurij Šaporin. Di tanto in tanto, nel suo diario rievoca il periodo antecedente alle elezioni della nuova legislatura suprema del Soviet, il 12 dicembre 1937, cui seguì l’adozione della nuova costituzione sovietica di Stalin, promulgata nel 1936.

    Leningrado,

    URSS

    Il 22 [novembre] mi sono svegliata verso le tre e non sono più riuscita a riprendere sonno fin dopo le cinque. Non c’erano tram, fuori regnava un silenzio assoluto. D’un tratto ho sentito una raffica di colpi. E poi un’altra ancora. La sparatoria è andata avanti a ondate ogni dieci, venti minuti fin poco dopo le cinque del mattino.

    Ho aperto la finestra e sono rimasta in ascolto, cercando di capire da dove provenissero gli spari. Cosa poteva significare? Lì vicino c’era la fortezza di Pietro e Paolo, i colpi d’arma da fuoco non potevano che provenire da lì. Stavano giustiziando qualcuno?

    Questa è quella che chiamano campagna elettorale. E la nostra coscienza è così fiacca che i sentimenti scivolano sopra la sua corazza dura e lucida senza lasciare tracce. Trascorrere la notte ad ascoltare persone senza dubbio innocenti che vengono uccise a fucilate senza perdere il senno… per poi addormentarsi. Che cosa terribile.

    Irina Deckaja è tornata da scuola e ha detto: «Ci hanno riferito che sono in corso arresti di massa, che dobbiamo sbarazzarci di elementi indesiderati prima delle elezioni». ¹

    In un impietoso e ingannevole contrasto, l’11 dicembre, appena tre settimane più tardi e alla vigilia delle elezioni, il compagno Stalin tenne un discorso per gli elettori moscoviti presso il teatro Bol’šoj. Fu accolto da una rumorosa ovazione che durò svariati minuti e da grida del tenore di «Lunga vita al grande Stalin, urrà!», «Urrà al compagno Stalin, creatore della costituzione sovietica, la più democratica al mondo!», «Lunga vita al compagno Stalin, leader degli oppressi in tutto il mondo. Urrà!».

    Le parole pronunciate da Stalin durante il suo discorso raggiunsero nuove vette di doppiezza:

    Per parte mia voglio assicurarvi, compagni, che voi potete affidarvi con piena fiducia al compagno Stalin… Potete contare [sul fatto] che il compagno Stalin saprà compiere il suo dovere verso il popolo, verso la classe operaia, verso i contadini e verso gli intellettuali… Le elezioni imminenti non sono semplicemente delle elezioni, compagni. Sono una vera festa di tutto il popolo, dei nostri operai, dei nostri contadini, dei nostri intellettuali. Nel mondo non ci sono ancora mai state elezioni così veramente libere e veramente democratiche, mai! La storia non conosce un altro esempio simile… da noi le elezioni generali saranno le più libere e democratiche di qualsiasi altro paese del mondo. ²

    Nel 1938 Šaporina si mise a riflettere sui processi farsa che si tennero dopo l’arresto di svariati ufficiali anziani dell’Armata Rossa: «Il grande, grande Dostoevskij. Ora vediamo, non in sogno, ma proprio sotto ai nostri occhi, il branco di porci posseduti dai demoni. Li vediamo come non li abbiamo mai visti prima. Mai prima d’ora il popolo ha lavorato così duramente per distruggere la sua patria… I più pericolosi sono Stalin e Vorošilov ³… È assurdo vivere tutto questo. È come aggirarsi per un mattatoio, con l’aria satura del puzzo di sangue e carogne» ⁴.

    Volha Barouskaja è l’ultima testimone ancora in vita delle esecuzioni di massa all’ordine del giorno durante le grandi purghe staliniane. Nel 2017, quando ha raccontato la propria storia, aveva novantanove anni. Nel 1938 era un’undicenne che raccoglieva bacche nei boschi di Kurapaty, vicino a Minsk, in Bielorussia, quando si era imbattuta in un’esecuzione di massa:

    Ebbi molta paura quando udii le donne gridare. «Perché ci fate questo? Mio Dio, che cosa abbiamo fatto? Di cosa siamo colpevoli?». Non riesco neppure a descrivere quanto forte gridassero. Piangevano molto. Uomini in uniforme fecero mettere tutti in ginocchio sull’orlo di una fossa. Iniziarono dal fondo e poi si sentì il bang-bang-bang degli spari, come piselli che scoppiettavano in padella… Cadevano e cadevano e cadevano… Io fui fortunata, riuscii a nascondermi nella tana di un lupo, ma in molti persero la vita laggiù. Mia madre mi disse di non farne mai parola con nessuno.

    Barouskaja tenne il segreto fino al 1988, quando venne alla luce il luogo di sepoltura. È stato stimato che vi furono sepolte almeno 30.000 persone, uccise dalla polizia segreta di Stalin, l’

    NKVD

    (Commissariato del popolo per gli affari interni).

    Durante le grandi purghe, Stalin si affidò al braccio destro Nikolaj Ežov. Alto poco più di un metro e cinquanta, Ežov era soprannominato il Nano sanguinario. In qualità di capo dell’

    NKVD

    aveva mano libera nell’eliminazione di chiunque intralciasse i piani di Stalin e, se è per quello, di migliaia di altre persone che si trovarono semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato. Uomo del tutto privo di compassione o rimorso, scrisse: «In questa lotta contro gli agenti fascisti ci saranno alcune vittime innocenti. Stiamo lanciando una vasta offensiva contro il Nemico: che non vi sia risentimento se dovessimo urtare qualcuno con il gomito. Meglio veder soffrire dieci persone innocenti che lasciarsi scappare una spia. Non si può fare una frittata senza rompere qualche uovo» ⁶.

    Ežov era un sadico privo di pietà, che spesso si occupava delle torture di persona. In soli due anni, tra il 1937 e il 1938, supervisionò almeno 1,3 milioni di arresti e 681.692 esecuzioni per crimini contro lo Stato. Fu responsabile dell’amministrazione del sistema dei campi di lavoro sovietici, noti come gulag, la cui popolazione crebbe esponenzialmente fino a 685.201 unità sotto la sua giurisdizione, quasi triplicandosi nell’arco di un biennio. Almeno 140.000 di quei prigionieri (e forse molti di più) persero la vita per malnutrizione, sfinimento e per le tremende condizioni dei campi; molti non sopravvissero neppure ai viaggi tortuosi per arrivarci.

    Com’era forse inevitabile, Ežov cadde vittima del regime omicida di Stalin. Dopo aver perseguito con solerzia l’incarico di liquidare chiunque Stalin volesse togliere dalla circolazione, alla fine del 1938 perse il posto di capo dell’

    NKVD

    a favore di Lavrentij Berija, leader del partito in Georgia, che era riuscito a sfuggire per un soffio alla condanna a morte di Ežov, e solo appellandosi direttamente a Stalin.

    Berija era praticamente il clone di Ežov. Sadico come lui, godeva nel torturare e nel far soffrire le sue vittime e aveva una predilezione particolare per il pestaggio e lo stupro di giovani donne. Berija fece arrestare il predecessore e, dopo un processo segreto, l’ex braccio destro di Stalin fu trascinato, urlante e recalcitrante, dritto al patibolo in una stanza sotterranea che egli stesso aveva progettato a quello scopo. Aveva richiesto espressamente un pavimento in pendenza, di modo che il sangue si lavasse via con maggiore facilità. La sua dipartita fu tenuta così ben nascosta che, per svariati anni a venire, si raccontò che era stato rinchiuso in una clinica per malati di mente.

    Nonostante il terrore, anche i despoti più crudeli avevano una qualche utilità. Proprio come Hitler e Mussolini venivano ammirati in patria per le strade che avevano costruito e la puntualità dei treni, il regime draconiano di Stalin trasformò il Paese da un’economia agricola a una potenza economica e militare in grado di sopportare le immense sfide imposte dalla seconda guerra mondiale.

    Per la comprensione della psicologia dei leader e del popolo russo è cruciale tenere a mente che nel corso della lunga storia della Madre Russia, il suo vasto impero è stato attaccato più volte dai vicini. Tali sfide non provenivano solo da ovest, ma anche da est e da sud. In più di un’occasione, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Germania, Finlandia, Svezia e l’impero ottomano avevano messo alla prova i vasti confini russi.

    Occorre inoltre sottolineare che la Russia non è una nazione omogenea. La marcata diversità di gruppi etnici, nazionalità, religioni, linguaggi e culture (soprattutto nel periodo di massima estensione dell’impero) ha condotto a significativi dissensi e opposizioni intestine. Oggi, in seguito alla dissoluzione del vecchio impero sovietico e all’indipendenza di quindici nazioni, dal Baltico al Pamir in Asia centrale, l’ottanta per cento della popolazione della Federazione è di etnia russa, ma vi sono anche corpose minoranze composte da tatari, ucraini, baschiri, ciuvasci, ceceni e armeni, che risiedono all’interno dei confini del Paese.

    Le guerre cambiano la storia, ecco perché i loro protagonisti le combattono. I conflitti trasformano le nazioni, modificano i continenti e, qualche volta, spostano l’asse del potere globale per le generazioni a venire.

    Gli orrori delle guerre religiose durante l’epoca delle crociate hanno lasciato un’eredità amara, la cui eco in Medio Oriente risuona ancora ai giorni nostri. Le guerre di Qin Shi Huang non ci hanno lasciato solamente il suo mausoleo con i suoi guardiani, l’esercito di terracotta, ma hanno anche dato vita all’impero che è la Cina moderna. I conflitti napoleonici hanno plasmato l’Europa del

    XX

    secolo, mentre le guerre di conquista spagnole ai danni degli imperi azteco e inca hanno gettato le basi del Sudamerica, così come hanno fatto le guerre coloniali anglofrancesi in Africa, Asia sudorientale e nel subcontinente indiano.

    Anche il fronte orientale ha lasciato un lungo retaggio. È stato il teatro cruciale di una guerra che ha dato forma all’Europa postbellica e ha portato alla guerra fredda, ed è stato il preludio del precario stallo politico tuttora in corso tra Stati Uniti, Russia e Cina. Nel

    XXI

    secolo il mondo ha appena fatto il suo ingresso in una nuova era di incertezze e ansie, e i semi delle attuali tensioni sono stati gettati sui campi di battaglia del conflitto più sanguinoso della storia.

    Qualche volta le guerre sono giuste, ma non sono mai nobili, mai pulite. Sono bestiali, lo scioccante ritratto del gelido cuore di un’umanità che mostra il peggio di sé. Eppure vi si possono anche trovare esempi di coraggio, eroismo e sacrificio. Non sono mai semplici da comprendere o da spiegare.

    La guerra sul fronte orientale, combattuta tra il 1941 e il 1945, che ebbe inizio con l’Operazione Barbarossa alle prime ore di domenica 22 giugno 1941, fu l’epitome della barbarie umana lasciata libera di esprimersi su una scala senza precedenti. Tuttavia fu anche lo straordinario esempio della forza e della risolutezza dello spirito umano, del potere della volontà collettiva e della fiducia nel bene comune. Condusse a una vittoria stupefacente, ma a un terribile prezzo.

    I dati che riguardano i caduti lasciano senza parole. Le perdite militari tedesche, così imprecise da dover essere arrotondate alle centinaia di migliaia, arrivarono ai 5,1 milioni. Altri 4,5 milioni di persone vennero catturate e la maggior parte non fece mai ritorno a casa. Le perdite dal lato sovietico furono persino più ingenti. Le circostanze erano a tal punto caotiche che le stime variano tra gli 8,7 e i 10 milioni. Altri 5,7 milioni di individui vennero fatti prigionieri e la maggior parte di essi fu giustiziata, morì di fame o perì nei campi di lavoro. I dati che riguardano i civili sono se possibile ancora più incerti, ma si pensa che i morti siano stati venti milioni, forse addirittura venticinque. In tutto persero la vita quaranta milioni di persone, approssimativamente i due terzi delle morti globali della seconda guerra mondiale. Il conflitto costò più vite, tra civili e militari, di qualunque altro della storia.

    La guerra sul fronte orientale, che i russi chiamano grande guerra patriottica, fu segnata dall’estremismo ideologico, dall’odio razziale, da atrocità difficili che si fatica persino a descrivere, e da battaglie tra le più aspre e sanguinose mai combattute.

    Sin dal suo scoppio, era nelle intenzioni del Führer tedesco, Adolf Hitler, che la sua offensiva fosse una Vernichtungskrieg, una guerra di sterminio. Riteneva che, per tener fede al proprio destino, la Germania avesse bisogno di un Lebensraum, uno spazio vitale, e che per risolvere la questione ebraica si dovessero eliminare quegli ebrei che Hitler odiava così tanto. Il suo era un disprezzo patologico. Li riteneva responsabili delle ordalie del Paese ed era convinto che fossero al centro di due ideologie che detestava: il bolscevismo dell’Unione Sovietica e la socialdemocrazia di Europa e Stati Uniti. La sua campagna aveva anche una necessità pragmatica: gli serviva il petrolio per alimentare le sue macchine da guerra, e l’Unione Sovietica ne aveva in abbondanza.

    Hitler descriveva i vasti terreni fertili in Oriente come l’India tedesca e parlava di Selvaggio Est, in analogia con

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