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La battaglia che cambiò la seconda guerra mondiale: Pearl Harbor
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E-book273 pagine3 ore

La battaglia che cambiò la seconda guerra mondiale: Pearl Harbor

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Strategie, protagonisti, mezzi e armi dell'attacco più celebre della storia

Dopo Pearl Harbor, tutto è cambiato. Fino all’attacco giapponese del 7 dicembre 1941, infatti, gli Stati Uniti non erano ancora scesi in campo, e solo con questa devastante azione bellica la seconda guerra mondiale sarebbe diventata davvero un conflitto globale.
In questo libro, l’autore racconta non solo l’ideazione dell’attacco, la meticolosa organizzazione dei giapponesi e la storia dei suoi protagonisti (uomini, armi, mezzi aerei e navali), ma anche i retroscena che portarono alla disfatta americana. Dal ruolo giocato da diplomazia e intelligence d’oltreoceano all’impreparazione dell’apparato militare statunitense che sottovalutò fino all’ultimo, e nonostante vari indizi, la possibilità di un attacco nemico nelle Hawaii, fino alle “prove” addotte dai teorici del complotto del presidente Roosevelt e alla drammatica catena di errori e di circostanze fortuite che portarono gli USA in guerra. Ma la fama di Pearl Harbor deve molto al cinema che ha contribuito a fissare in maniera indelebile questa tragedia nella memoria comune. E anche se quella che chiamiamo seconda guerra mondiale è stata in realtà una lunga serie di conflitti cominciati in tempi e in luoghi diversi, non può essere trascurato il fatto che il continente asiatico fu teatro delle azioni belliche più tragiche e spettacolari, dove non a caso si compì l’apocalittico atto conclusivo di questo sanguinoso ed epico scontro.

Come sarebbe stata la storia senza Pearl Harbor?

A 70 anni di distanza, la vera storia della battaglia che sconvolse l'America

Tra i temi trattati:

- L’azione bellica nella quale, come disse Winston Churchill, «è doveroso rilevare lo spietato valore professionale degli aviatori giapponesi.»
- La trasformazione del Giappone da paese feudale a moderna potenza industriale capace di sfidare militarmente Russia, Cina e Stati Uniti
- I nuovi “mini-sommergibili” giapponesi e i caccia Zero
- Tora! Tora! Tora! il porto in fiamme e la reazione statunitense
- Un bilancio drammatico
- La teoria del complotto

Roberto Iacopini
62 anni, è un giornalista televisivo della RAI. È stato inviato nelle aree di crisi di Macedonia, Kosovo e Bosnia negli anni delle missioni di peacekeeping, in Afghanistan nel 2002, al seguito della missione ISAF. Studioso di comunicazione e storia militare, collabora con diverse testate giornalistiche. Appassionato di sport e di cinema, è stato direttore artistico delle prime tre edizioni del “Guerre e Pace Filmfest”, una rassegna culturale dedicata al genere bellico e alla geopolitica. 
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854159310
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    La battaglia che cambiò la seconda guerra mondiale - Roberto Iacopini

    190

    Prima edizione ebook: ottobre 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5931-0

    www.newtoncompton.com

    Le illustrazioni delle tavole fuori testo sono di Giorgio Albertini

    Roberto Iacopini

    La battaglia che cambiò

    la seconda guerra mondiale:

    Pearl Harbor

    Strategie, protagonisti, mezzi e armi

    dell’attacco più celebre della storia

    logonc

    Newton Compton editori

    Introduzione

    Per convenzione storica, la seconda guerra mondiale cominciò l’1 settembre 1939 con l’invasione della Polonia da parte dell’esercito tedesco, al quale, sedici giorni dopo, si aggiunse l’Armata rossa sovietica. Eppure, nei suoi primi ventisette mesi, questa guerra fu combattuta quasi esclusivamente da eserciti europei, prevalentemente nel vecchio continente e in Africa.

    Quella che chiamiamo seconda guerra mondiale, infatti, è una lunga serie di conflitti cominciati in tempi diversi e in luoghi lontani. Possiamo paragonare queste guerre agli affluenti di un fiume che lentamente s’ingrossa e straripa su quattro continenti, fermandosi miracolosamente sulle coste del Sud America.

    In Asia, ad esempio, la guerra per il dominio del continente cominciò nel 1931, quando l’esercito giapponese strappò la Manciuria ai cinesi, inaugurando un conflitto che riprenderà ancora il 7 luglio 1937, per concludersi solo con la definitiva resa del Giappone nell’agosto del 1945.

    È dunque il continente asiatico a vantare le fibrillazioni più datate tra quelli in cui venne combattuta la seconda guerra mondiale, ed è anche il teatro dove andò in scena l’atto conclusivo di quel conflitto. Un’altra cosa è certa: solamente con l’attacco giapponese del 7 dicembre 1941 alla base statunitense di Pearl Harbor, nell’arcipelago delle Hawaii, il conflitto si sarebbe allargato a tutto l’emisfero, acquistando a pieno titolo la definizione di seconda guerra mondiale.

    Considerata perlopiù un’aggressione a tradimento, l’azione di Pearl Harbor è stata anche un’impresa militare senza precedenti, che ha avuto per obiettivo una munita base aeronavale situata a una distanza di undicimila chilometri, raggiunta da una poderosa flotta che riuscì a muoversi attraverso nove fusi orari, senza essere intercettata.

    Un’azione bellica, nella quale, come ebbe a dire Winston Churchill, «è doveroso rilevare lo spietato valore professionale degli aviatori giapponesi». Un bombardamento aereo perfettamente pianificato ed eseguito, durato complessivamente poco più di un’ora, che consentì ai giapponesi di assicurarsi, per qualche mese, il totale controllo dell’oceano Pacifico.

    Quando gli oltre trecento aerei dell’aviazione della marina imperiale del Giappone lasciarono il cielo dell’isola di Oahu, la flotta statunitense del Pacifico era stata praticamente annientata. Nell’attacco, gli Stati Uniti avevano perso sette grandi navi da battaglia e una decina di unità navali minori, e quasi duecento aerei erano stati distrutti al suolo.

    Un’operazione da manuale condotta utilizzando anche alcune armi segrete, come i sommergibili tascabili, che però non arrecarono contributi significativi all’attacco degli aerosiluranti e dei bombardieri decollati dai ponti di sei portaerei giapponesi.

    Un azzardato piano concepito dalla mente dell’ammiraglio Yamamoto, il quale pur lavorando al suo successo ne paventava le conseguenze. Un progetto al quale diede il suo contributo il viceammiraglio Nagumo, comandante operativo della flotta che navigò nascosta a tutti, fino alla distanza che consentiva agli aerei di poter andare e tornare da Pearl Harbor. Infine, l’audace attacco aereo era basato sul fattore sorpresa e sullo splendido addestramento ricevuto dai piloti giapponesi. Un’azione coordinata e guidata dai capitani Genda e Fuchida che l’avrebbero raccontata nelle loro memorie di sopravvissuti alla seconda guerra mondiale.

    L’attacco a Pearl Harbor e le simultanee operazioni anfibie condotte nelle isole di Guam e di Wake, a Hong Kong e nella penisola di Malacca, diedero al Giappone l’illusione di poter finalmente realizzare la propria egemonia in Asia e nel Pacifico. Un ambizioso progetto geopolitico, la cui teorizzazione era cominciata negli anni Trenta e il cui primo tassello era stato la conquista della Manciuria, alla quale fecero seguito il fallimentare tentativo di piegare militarmente la Cina e la spinta verso sud, alla ricerca delle risorse naturali fondamentali per alimentare lo sforzo bellico. Tappe di un’espansione destinata a rendere inevitabile il confronto e poi lo scontro con gli Stati Uniti.

    I giapponesi erano persuasi che dall’attacco a Pearl Harbor avrebbero ricavato un vantaggio strategico che gli avrebbe consentito di realizzare un anello difensivo dalle isole Aleutine a nord, fino alla Birmania a sud, contro il quale si sarebbe infranta la controffensiva degli USA. Auspicando la contemporanea vittoria delle forze dell’Asse in Europa, i giapponesi intendevano mettere il governo di Washington di fronte al fatto compiuto, obbligandolo a prendere atto delle conquiste effettuate e a ratificare quella che Tokyo aveva definito la «Sfera di prosperità comune della grande Asia orientale».

    L’affondamento di una parte importante della flotta statunitense nel Pacifico consentì invece al presidente Franklin Delano Roosevelt di far uscire gli USA dall’ambiguo stato di neutralità armata. L’aggressione di Pearl Harbor risultò, infatti, determinante per sgomberare il campo da ogni dubbio e rompere il cauto atteggiamento tenuto fino ad allora dall’amministrazione statunitense. Una sapiente azione di psicologia politica consentì di guidare l’opinione pubblica americana fino a cancellarne ogni residua tentazione isolazionista. Quello che il presidente americano Roosevelt definì «il giorno dell’infamia», avrebbe finalmente messo in moto la poderosa macchina industriale e bellica degli Stati Uniti, consentendogli di combattere «la guerra giusta».

    Un casus belli che nel secondo dopoguerra, e fino ai giorni nostri, avrebbe dato vita a una delle più classiche teorie del complotto. Un piano segreto che sarebbe stato addirittura ordito dal governo statunitense per trascinare gli Stati Uniti in una guerra che l’opinione pubblica rifiutava. È la tesi secondo la quale gli americani, avendo sviluppato la capacità di leggere in chiaro i messaggi cifrati con i quali i giapponesi comunicavano tra di loro, sarebbero stati a conoscenza dell’attacco anzitempo, ma non fecero nulla per contrastarlo, eccetto mettere al sicuro le portaerei.

    È certo che gli americani erano in grado di decifrare, per larga parte, le comunicazioni in codice dei giapponesi, ma questa procedura era complessa, e, seppure affidata a macchine, vedeva sempre in agguato l’errore umano. Tra l’altro, è storicamente appurato che nessuna informazione relativa alla cosiddetta operazione Hawaii, passò mai attraverso i canali diplomatici e militari che gli americani tenevano sotto controllo. Gli indizi di ciò che andava montando furono però tanti e vennero tutti sottovalutati dagli americani, compresi quelli raccolti dai militari sul campo, nelle ore immediatamente precedenti l’attacco.

    Nella realtà, dunque, l’azione di Pearl Harbor rivelò solamente un certo grado di superficialità e leggerezza da parte dei vertici militari e politici statunitensi, che davano credito e consideravano elevatissima la minaccia giapponese, ma non riuscirono a immaginarla possibile in quel luogo e soprattutto in quelle dimensioni. Una drammatica catena di errori e di circostanze fortuite precedette l’attacco che venne utilizzato con cinismo politico dal presidente Franklin Delano Roosevelt come elemento chiave della guerra psicologica, per portare gli Stati Uniti d’America in guerra con il consenso unanime del Congresso e dell’opinione pubblica. Poiché, come ebbe a scrivere a posteriori Winston Churchill, nella sua monumentale opera dedicata alla seconda guerra mondiale: «Un attacco giapponese contro gli Stati Uniti avrebbe enormemente semplificato i loro progetti e i loro doveri».

    Pearl Harbor produsse l’effetto di risvegliare il gigante americano dal suo sonno per avviarlo sulla strada di un nuovo imperialismo soft, esattamente come paventava l’ammiraglio Yamamoto, una carismatica figura di stratega militare che, pur educato ai valori della religione cattolica, appare singolarmente intriso di fatalismo zen e formato all’etica del bushido, il codice d’onore degli antichi samurai.

    L’11 dicembre 1941, quattro giorni dopo l’attacco a Pearl Harbor, Germania e Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti, ottemperando al patto tripartito che però li impegnava solo nel caso uno dei Paesi fosse stato oggetto di un’aggressione militare. Anche in questa espressione di solidarietà c’era un interesse particolare, soprattutto da parte della Germania nazista che aveva visto la propria offensiva nelle steppe russe fermata alle porte di Mosca e che sperava ancora in un attacco dei giapponesi in Siberia per costringere l’Armata rossa di Stalin a combattere su due fronti.

    I giapponesi temevano che Hitler condizionasse la propria dichiarazione di guerra a un’assicurazione di intervento contro l’URSS da parte di Tokyo, ma ciò non avvenne, rivelando per l’ennesima volta come ciascuno dei Paesi firmatari del patto tripartito fosse mosso da un interesse diverso e che tra le operazioni militari condotte da Italia, Germania e Giappone sia sempre mancato un efficace coordinamento strategico.

    Alla lista delle navi affondate o gravemente danneggiate dagli aerei giapponesi, il 7 dicembre 1941, mancavano solamente le tre portaerei che costituivano l’obiettivo primario dell’operazione e che si erano provvidenzialmente allontanate qualche giorno prima dal porto. La Yorktown, l’Enterprise e la Saratoga non solo erano scampate al micidiale bombardamento, ma si sarebbero rivelate determinanti nella battaglia delle Midway, che nel maggio 1942 avrebbe cambiato il corso della guerra nel Pacifico arrestando e costringendo al riflusso la marea giapponese.

    Prima di approfondire la genesi e lo sviluppo dell’attacco giapponese è però necessario affrontare sommariamente la storia del Giappone e il suo grande mutamento, che in mezzo secolo riuscì a trasformare uno Stato feudale in una moderna potenza industriale. Un Paese che dai primi anni del secolo scorso agli anni Quaranta, fu capace di sfidare militarmente grandi nazioni come la Russia, la Cina e gli Stati Uniti.

    «Paese ricco, esercito forte»

    Se la tua spada è troppo corta avanza di un passo.

    Antico proverbio samurai

    Ostacolato dall’assenza di risorse naturali, con un terreno montagnoso che rendeva coltivabile solo il venti per cento del territorio, il Giappone sembrava mancare dei fondamentali prerequisiti per un serio sviluppo economico. La complessa lingua giapponese non somigliava a nessun’altra e ciò rendeva difficili i rapporti culturali, finendo con l’alimentare la falsa convinzione di una particolarità giapponese rispetto al resto del mondo. Questa è la radice del problema per cui in Giappone cominciò a diffondersi un vasto e generalizzato pregiudizio nei confronti dell’Occidente.

    Da quando nel 1542 l’Europa ebbe il suo primo contatto con il Giappone, i rapporti con l’Occidente si sarebbero sviluppati in forma ondivaga, tra qualche momento alto e molti bassi. Dopo un’epoca di contatti relativamente buoni con gli europei, il cosiddetto secolo cristiano che durò dal 1542 al 1640, fecero seguito due secoli di nuova chiusura nell’epoca Tokugawa. Nel 1800, con la rinnovata espansione europea in Asia, l’isolamento giapponese non era già più sostenibile. Nel 1853 l’arrivo della squadra navale americana del commodoro Matthew Calbraith Perry, di cui facevano parte due navi a vapore che sbalordirono i giapponesi, aiutarono a vincere le ultime resistenze isolazioniste. Furono le navi americane che gettarono le ancore nella baia di Tokyo a rendere ineluttabile la modernizzazione del Paese che, ad esempio, si ritrovò a considerare l’importanza della polvere da sparo, della quale aveva fatto a meno per duecentocinquant’anni.

    Il processo di riforme avviato in Giappone nel 1869 dall’imperatore Mutsuhito, con la deposizione del quindicesimo e ultimo shogun, inaugurò quello che andrà sotto il nome di periodo Meiji, o del regno illuminato. Un periodo nel quale il Giappone modificò radicalmente la propria struttura politica, amministrativa e socio-economica. Nel 1871 venne proclamata l’uguaglianza giuridica tra tutti i cittadini e vennero aboliti feudi e diritti feudali. Cominciò così un lungo percorso in cui il potere dell’imperatore si sostituì a quello dello shogun e vennero gettate le premesse per la prima costituzione giapponese del 1889, nella quale venne introdotto un sistema parlamentare con il quale si riuscì a colmare le distanze che sotto il profilo politico e sociale separavano il Paese del Sol Levante dall’Occidente. Emerse e si consolidò allora un ceto intellettuale, amministrativo e militare proveniente dalla casta dei samurai, che assunse posti chiave nella nuova società giapponese.

    L’idea di fondo che muoveva questa nuova classe sociale era che il Giappone doveva essere modernizzato non perché lo chiedessero gli imprenditori, figure peraltro sconosciute nella società nipponica dell’epoca, ma perché lo esigevano i rinnovati e illuminati vertici dello Stato.

    Fu così che prese avvio un processo rivoluzionario verticistico, nel quale l’istruzione elementare venne resa obbligatoria, unificata la moneta, creato un sistema fiscale moderno e un sistema bancario funzionale. Venne introdotto un nuovo calendario e organizzato un esercito moderno basato sulla leva obbligatoria. Esperti della Royal Navy britannica arrivarono per fornire consulenze sulla costruzione di una flotta giapponese, mentre esponenti dello stato maggiore prussiano fornirono supporto e consigli sull’ammodernamento dell’esercito. Gli ufficiali delle ricostruite forze armate imperiali vennero mandati nelle migliori accademie militari all’estero per essere istruiti alle più evolute dottrine strategiche. La marina e l’esercito reclamavano grandi investimenti e, sebbene venisse dato un notevole impulso alla creazione di un’industria nazionale degli armamenti, il Giappone fu per decenni in testa alla classifica dei Paesi importatori di armi.

    Le esportazioni giapponesi del settore tessile, in particolare della seta, crebbero vertiginosamente e così i commerci con l’estero, che poterono contare su una notevole flotta mercantile. Un fervore che in poco più di vent’anni (dal 1890 al 1913) provocò un raddoppio della popolazione cittadina, anche se il numero dei giapponesi che risiedevano in campagna rimase più o meno lo stesso.

    Il grande mutamento durò quarantacinque anni e al termine di questo periodo, la nuova élite dirigente e le grandi riforme varate avevano fatto del Giappone l’unica nazione al di fuori dell’Europa e dell’America del Nord a poter vantare un elevato livello di sviluppo industriale.

    Si trattava di un’economia che però presentava qualche problema nei suoi fondamentali. La produzione di ferro e di acciaio rimaneva ancora irrisoria e il fabbisogno nazionale era soddisfatto dalle importazioni, mentre i capitali necessari agli investimenti rimanevano ancora scarsi e costringevano il governo di Tokyo a chiedere prestiti all’estero, quasi mai sufficienti a soddisfare le crescenti esigenze delle industrie e delle infrastrutture nazionali.

    Era, quella, un’industrializzazione forzata che si innestava in una società che per larghi versi rimaneva ancora di mentalità feudale, nella quale la figura del samurai era ancora mitizzata e godeva di maggior prestigio rispetto a quella dell’industriale borghese. Posto in confronto con i pesi massimi dell’Occidente, il Giappone era ancora un peso leggero che però primeggiava e non aveva rivali all’altezza nel proprio continente. Quando il percorso sulla via della modernizzazione fu completato, il Giappone era pronto a cogliere due ulteriori vantaggi. Il primo traeva origine dalla sua vicinanza geografica al grande continente asiatico; grazie alla sua posizione il Giappone era molto vicino al decadente impero cinese e alla Corea, e queste nazioni erano pronte a cadere nel suo carniere, prima che qualunque altra grande potenza continentale potesse rendere esplicite le medesime mire egemoniche.

    Il secondo vantaggio era, invece, di ordine morale e risiedeva nell’unicità culturale che permeava profondamente la società giapponese nel suo insieme. La disciplina, il codice d’onore dei samurai, la venerazione per lo Stato e la gerarchia erano così sedimentate da aver prodotto una cultura politica nazionalistica tanto orgogliosa, quanto indifferente ai sacrifici che l’esercizio di quel primato avrebbe inevitabilmente comportato per il Paese.

    Al vertice della società giapponese stava l’imperatore, una figura divina e onnipotente, mentre il diffuso patriottismo si traduceva in un vago sentimento di chiusura e quasi di ostilità nei confronti degli stranieri. Una forma di pseudo razzismo che la casta politico-militare sfruttava, nella speranza di farne il propellente attraverso il quale giungere al ruolo di potenza egemone dell’intero continente asiatico. Il rinnovamento introdotto dal periodo Meiji produsse dunque anche l’effetto di ingigantire il ruolo dei militari nella società giapponese, che al motto di «Paese ricco, esercito forte» cominciarono a sviluppare pesanti pressioni sulla politica estera orientandola a esercitare un’influenza sempre più crescente su Corea e Cina, motivo per il quale scoppiò la prima guerra cino-giapponese (1894-1895).

    Quando fu concluso il trattato di pace nel 1895, la Germania, la Russia e la Francia, preoccupate dalla crescente potenza del Giappone, cercarono di limitarne le richieste che invece furono appoggiate dall’Inghilterra. Il governo di Tokyo ottenne l’isola di Formosa mentre la sua marina, che aveva sconfitto quella cinese, si conquistò per la prima volta prestigio e considerazione sia in patria che all’estero.

    In occasione della rivolta dei Boxer in Cina, nel giugno del 1900, il Giappone si guadagnò la reputazione di Paese amico dell’Occidente schierandosi attivamente al fianco delle potenze europee, partecipando all’attacco dei forti di Takou. Un atteggiamento che venne apprezzato in Europa e che nel 1902 consentì al Giappone di firmare un trattato di assistenza con l’Inghilterra.

    Durante tutto il processo di modernizzazione, che si esaurì con la morte dell’imperatore Mutsuhito nel 1912, il Giappone e i suoi militari non avrebbero mai conosciuto una sconfitta e ciò avrebbe finito con il generare nella popolazione una fede assoluta nella superiorità delle forze armate del Paese. Una fede alla quale contribuivano gli elementi morali della religione scintoista e il bushido, il codice d’onore dei samurai: una miscela destinata a diventare il più forte collante nella costruzione del mito dell’invincibilità giapponese.

    La guerra con la Russia

    (1904-1905)

    Il secolo XX si aprì con la guerra tra l’impero russo e quello giapponese, resa inevitabile dal rifiuto dei russi di completare la loro ritirata dalla Manciuria, al termine della rivolta cinese dei Boxer. La Russia aveva bisogno di un porto sul Pacifico che, al contrario di quello di Vladivostok, non rimanesse bloccato dai ghiacci in inverno. Per questo motivo i russi non avevano nessuna intenzione di abbandonare la base di Port Arthur che nel 1898 avevano ricevuto in affitto dalla Cina. La tensione con il Giappone, che contava su una potente marina da guerra e continuava a perseguire una politica estera molto aggressiva, salì ulteriormente di livello quando la Russia inviò proprie truppe in Manciuria e con l’avvio della costruzione di una linea ferroviaria destinata a collegare Port Arthur alla Siberia.

    Nel febbraio del 1904, l’ammiraglio Togo soprannominato il Nelson dell’Est, lanciò un attacco navale notturno alla prima squadra russa del Pacifico alla fonda di Port Arthur. Dieci cacciatorpediniere giapponesi penetrarono nel porto lanciando i loro siluri verso le navi russe, nessuna delle quali fu affondata. Saltato il fattore sorpresa, l’attacco venne interrotto per essere ripreso il giorno seguente, quando a fermare le navi giapponesi furono, questa volta, i cannoni costieri russi. Il Giappone mise sotto assedio terrestre e marittimo il porto e per quattro mesi si susseguirono sanguinosi combattimenti sulla terraferma. Il 10 agosto 1904 la flotta russa riuscì a prendere il largo inseguita dalle navi di Togo che la intercettarono nel Mar Giallo, impegnandola in uno scontro in cui i russi persero una nave da battaglia e due incrociatori, più altre navi gravemente danneggiate che dovettero riparare in porti neutrali dove furono internate.

    Scompaginata la flotta russa, i giapponesi proseguirono l’attacco di terra affrontando le posizioni nemiche trincerate, circondate da barriere di filo spinato e fortemente difese da mitragliatrici Maxim, per cui l’offensiva divenne una sanguinosa anteprima di quanto sarebbe avvenuto da lì a una decina d’anni sui fronti europei della prima guerra mondiale. I tenaci assalti della disciplinata fanteria giapponese ebbero, alfine, il sopravvento e il 2 gennaio 1905 la guarnigione russa di Port Arthur si arrese.

    Nel frattempo, i giapponesi erano sbarcati in Corea superando una forza russa sul fiume Yalu, al confine della Manciuria. Penetrati anche lungo questo confine, i giapponesi, forti di 125.000 uomini, affrontarono un’armata di 158.000 russi che erano stati trasportati dalla ferrovia transiberiana. Lo scontro avvenne a Liaoyang, ma

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