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La piccola libreria di New York
La piccola libreria di New York
La piccola libreria di New York
E-book497 pagine7 ore

La piccola libreria di New York

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Info su questo ebook

Tradotto in tutto il mondo
Un piccolo gioiello

Bestseller del New York Times

Quando il suo ragazzo la lascia per l’ennesima volta, Bea James, proprietaria di una libreria a Brooklyn, prende una decisione. Basta uomini, basta cuori infranti, basta dolore. Il suo lavoro le piace e i libri l’hanno sempre salvata, l’importante sarà riuscire a stare lontana dall’altro sesso. Jake Steinmann, uno psichiatra che viveva a San Francisco, è pronto a ricominciare, dopo la fine del suo matrimonio. D’ora in poi ci sarà un unico amore nella sua vita: New York. Bea e Jake si conoscono a una festa in cui sono gli unici single, e quando parlano si trovano d’accordo su una cosa: nessuno di loro due vuole avere alcun genere di relazione sentimentale. Ma la città ha altri piani per loro… 

New York Times bestseller
Tradotto in tutto il mondo
Oltre 200.000 copie

«La piccola libreria di New York è come un incontro con la tua migliore amica, piena di fascino, calore, arguzia e meraviglia: non hai mai voglia di salutarla.» 

«Miranda ha compiuto una nuova magia… Un romanzo frizzante, romantico, e scritto con il cuore.»
Miranda Dickinson
è nata nelle West Midlands e vive in Inghilterra. Lavora come copywriter, collabora con diverse riviste e siti web. I suoi romanzi sono stati tradotti in sette lingue. La Newton Compton ha pubblicato Iniziò tutto con un bacio, Favola d’amore a New York e La piccola libreria di New York.
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2016
ISBN9788854196186
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    Anteprima del libro

    La piccola libreria di New York - Miranda Dickinson

    Capitolo 1

    Ristorante Stromoli, Undicesima Strada, Brooklyn

    «Bea?».

    Altri cinque minuti…

    «Bea, tesoro, perché intanto non ordiniamo? Non penso che…».

    «No, sicuramente lui non…».

    «Shhh! Non vedi quanto è agitata?»

    «Cosa? Ma io sto solo dicendo che…».

    Arriverà. Lo so che arriverà

    «Penso le abbia dato buca».

    «Perché non provi a dirlo a voce un po’ più alta? Credo che il cameriere del ristorante di fronte non ti abbia sentito…».

    «Forse è meglio se aspettiamo ancora un po’…».

    «Il fatto è che non ha dato buca solo a Bea, ma a tutti noi…».

    Bea James chiuse gli occhi sperando che i suoi familiari, riuniti al suo capezzale, la piantassero una buona volta di dare voce ai pensieri che le si agitavano nella testa. Certo, avevano ragione: non poteva negarlo. Aspettavano da quasi due ore, e adesso persino il tranquillo cameriere di Stromoli stava lanciando delle occhiate non troppo discrete all’orologio.

    Ma il padre di Bea non era tipo da farsi zittire così facilmente dalla moglie. Anche se abbassò rispettosamente la voce, Bea sentì ogni parola. «Se non ordiniamo chiuderanno la cucina, tra poco, e finiremo a mangiare da Pete, quello aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. E sai bene cosa mi è successo l’ultima volta che ho preso un panino con il roastbeef lì…».

    Zio Gino e nonno borbottarono qualcosa in suo sostegno.

    «Ha detto che sarebbe venuto», rispose con un sibilo la madre di Bea. «E nello specifico ci ha chiesto di farci trovare tutti qui. Abbiamo rimandato la nostra vacanza proprio per questo. Ora, perché mai ci avrebbe chiesto di venire se non aveva intenzione di presentarsi?». Allungò un braccio sul tavolo verso Bea. «Tesoro, hai controllato il cellulare? Forse ha avuto qualche problema».

    «O forse è solo un cretino, uno schmuck, come pensavamo noi», borbottò la zia Ruby. Ruby fino a quel momento era stata stranamente silenziosa, e sì che non era certo una di quelle signore troppo timide per dire chiaramente ciò che pensano. Bea sapeva che un commento del genere avrebbe aperto un vaso di Pandora.

    «Basta, Ruby! Pensa a Bea, poverina…».

    Mentre fissava con aria di sfida la tovaglia di lino bianca, per sfuggire alle occhiate preoccupate della sua famiglia, Bea sentì che qualcuno spostava la sedia dall’altra parte del tavolo. Qualche secondo dopo, sulla sedia vuota accanto alla sua – quella dove in quel preciso momento avrebbe dovuto esserci lui – si sedette suo fratello. Percepì la sua figura, così familiare.

    «Non viene, eh?», sussurrò Bea, alzando la testa per guardarlo.

    L’espressione di Stewart fu una risposta sufficiente. «Forse è il caso di ordinare, che dici? E se poi Otis dovesse venire, sono sicuro che gli prepareranno comunque qualcosa».

    «Non ci posso credere». Bea era quasi in lacrime. «Gli ho lasciato dieci messaggi in segreteria, ma non mi risponde. Come ha osato farmi questo?»

    «Personalmente, se qualcuno mi facesse aspettare due ore al ristorante, lo prenderei a calci senza neppure guardarlo in faccia». La voce di Ruby coprì il mormorio generale del piccolo ristorante italiano e Bea sentì le risate soffocate di vari membri della famiglia. Basta: Otis aveva perso l’occasione di fare bella figura.

    «Ordiniamo», urlò Bea, e tutti la fissarono. «A quanto pare Otis ha deciso di non farci compagnia. Quindi, è meglio se mangiamo».

    Mentre la sua famiglia guardava i menu, con grande sollievo del cameriere, Bea si alzò. Stewart le afferrò il braccio, ma lei gli fece il sorriso più luminoso che riuscì a tirar fuori, nella speranza di tranquillizzarlo.

    «Sto bene. Devo solo prendere un po’ d’aria».

    In piedi sul marciapiede buio dell’Undicesima, Bea alzò lo sguardo per fissare la pioggia pesante che cadeva dalla tenda di plastica sopra l’ingresso di Stromoli. Finalmente lasciò che le sue lacrime scendessero libere. Aveva desiderato solo una cosa per quella serata: che il suo ragazzo mantenesse la parola data. In fin dei conti era stata un’idea di Otis, non certo sua. E si era impegnato tanto per riunire la famiglia di Bea da entrambi i lati dell’Atlantico… Doveva esserci un motivo importante, se aveva chiamato a raccolta tutta la famiglia James, no? Voleva fare un annuncio e chiedere qualcosa a Bea. Tutti naturalmente erano saltati all’ovvia conclusione. E come poteva trattarsi di qualcosa di diverso?

    Bea aveva investito così tanto in quella relazione. Spesso si era sentita sola, con tutto il peso della coppia sulle spalle. Aveva sempre perdonato Otis: quando non manteneva le promesse, quando i suoi piani le si ritorcevano contro, quando il suo impegno nel rapporto scemava. Certo, avevano i loro problemi, ma non li avevano forse tutte le coppie? Pensò alle persone riunite intorno a quel tavolo da Stromoli: a quel punto senza dubbio stavano ordinando ogni cosa presente sul menu. Erano tutti felicemente sposati, persino la zia Ruby. Il suo coraggioso marito, zio Lou, aveva accettato di stare con lei per quasi quarant’anni di felice vita matrimoniale, fino a che il suo cuore non aveva perso l’ultima battaglia, l’anno prima. Certo, ogni tanto litigavano – le donne della famiglia James erano famose per la loro esuberanza, ma era anche vero che la storia ricordava generazioni su generazioni di relazioni lunghe e fortunate. Bea aveva sperato che quella convocazione generale da parte di Otis fosse il segnale che indicava che presto anche il suo nome si sarebbe aggiunto a quella lista. E la sua famiglia non aveva certo nascosto le proprie speranze: si aspettavano una proposta, il che, considerata l’assenza di Otis, rendeva la situazione ancora più drammatica.

    Bea prese il cellulare e telefonò a Otis per l’ultima volta.

    «Otis, basta. Non so a che gioco stai giocando, e a essere onesta non m’importa. Basta. Non chiamarmi più».

    Attaccò e chiuse gli occhi.

    Capitolo 2

    Zona d’imbarco, aeroporto internazionale di

    San Francisco, California

    «Sei sicuro di aver preso tutto?»

    «Sì. Tutti i beni terreni di mia proprietà che non ho lasciato nel furgone dei traslocatori stamattina, direzione New York, riposano adesso nel mio zaino». Jake Steinmann fece un sorriso tirato mentre la donna accanto a lui si tamponava gli occhi con un fazzoletto di pizzo. «Pam, va tutto bene».

    Pam Lomas, fedele assistente personale di Jack negli ultimi sette anni, scosse la testa. «No, mi dispiace. Non va tutto bene. Niente affatto. Non è giusto che tua moglie ti abbia lasciato così. E non è giusto che tu debba abbandonare tutta la tua vita solo a causa del suo ultimo capriccio. Non puoi ripensarci? Ci sono così tante cose che ti legano a San Francisco, che senso ha andartene adesso?».

    Una parte di Jake era d’accordo con lei. Non era giusto; ma nemmeno tutto quello che era successo nell’ultimo mese gli sembrava giusto. Non doveva essere lui ad andarsene; per quanto ne sapeva, il loro era un matrimonio felice. Ma realisticamente, aveva forse scelta? Certo, sarebbe potuto rimanere nella sua città adottiva e aspettare che Jessica cambiasse idea. Tirare avanti con la sua vita, facendo finta che non fosse irrimediabilmente compromessa dalla decisione di sua moglie di lasciarlo. Ma in fondo sapeva che restare in una città in cui ogni strada, ogni marciapiede, ogni mattone aveva il nome di Jessica inciso sopra, avrebbe rappresentato la sua fine. Meglio curare il suo cuore spezzato dall’altra parte del Paese.

    «New York non è poi così male».

    «Jake, stiamo parlando della East Coast! Lì sei solo un numero, uno dei tanti della metropoli. A nessuno importa di te, a meno che tu non faccia qualcosa in cambio».

    «Sono nato laggiù, ti ricordi? Posso anche avere l’atteggiamento californiano, e un colorito migliore, ma nell’animo sono sempre un ragazzo di New York». Posò la mano sulla spalla di Pam mentre lei si lasciava sfuggire un singhiozzo. «Non preoccuparti per me, ok? Andrà tutto bene. C’è la mia famiglia lì. E anche gli amici che avevo prima di incontrare Jess… non sarò solo».

    Pam alzò lo sguardo per fissarlo, il mascara le colava sulle guance. «Be’, non ho scelta, no? Devo fidarmi di te. Però chiamami ogni settimana. Voglio sapere tutto. Me lo prometti?».

    Lui giurò, e la stretta al cuore fu più forte di quanto avesse previsto. Sul volo che l’avrebbe portato al JFK chiuse gli occhi, sperando che si chiudesse anche la ferita dell’abbandono. Certo, Pam aveva ragione: non era stato lui a troncare il matrimonio, quindi perché doveva andarsene?

    Il problema era che Jessica non notava l’ingiustizia di quella situazione. Si erano visti per l’ultima volta il giorno prima, in un piccolo bar vicino all’ufficio di Jessica, in modo che Jake potesse darle le chiavi della loro casa su Russian Hill. Aveva sperato che quel gesto così conclusivo riuscisse a renderla più comprensiva, oltrepassando le barriere d’acciaio che si era costruita intorno al cuore. Ma anche mentre chiacchieravano educatamente dei programmi di Jake a New York, Jessica pensava solo ad andare avanti con la sua vita. La sua vita, dove non sarebbe cambiato niente, a parte lo spazio extra nell’armadio della camera da letto, e la nuova opzione di affittare la stanza degli ospiti per raddrizzare il bilancio. Il suo lavoro sicuro da interior design, la vita sociale così dispendiosa, la Cabriolet, lo yacht nei fine settimana… tutto sarebbe rimasto uguale. «Così è più semplice», aveva detto, come se stesse parlando di un argomento che in realtà non le interessava affatto.

    Più semplice per te, Jess. Non per me…

    Odiava la leggerezza del suo atteggiamento, il modo in cui aveva sorriso dopo ogni commento frivolo, senza pensare alla sofferenza che gli infliggeva. Jake avrebbe dovuto essere felice che fosse finita. Avrebbe dovuto festeggiare, altroché…

    Eppure, mentre la osservava andarsene su Mission Street, via per sempre dalla sua vita, il suo cuore aveva vacillato. Si era detto che era inevitabile. Dopo tutto, solo sei settimane prima pensava di avere il miglior matrimonio del mondo. Sono ancora sotto shock, decise. Non ho ancora accettato la cosa…

    Ma in quel momento, mentre le luci sulla baia di San Francisco si allontanavano dal finestrino dell’aereo, tutto gli sembrò di colpo così reale. Stava abbandonando la vita che in sette anni aveva costruito con tanta attenzione, senza alcuna garanzia di riuscire a farsene una nuova dall’altra parte dell’America.

    Non sarò solo, aveva detto a Pam per rassicurarla, in aeroporto. Ma mai come in quel momento, a seimila metri d’altezza, in volo sopra la costa della California, Jake Steinmann si era sentito così solo.

    Capitolo 3

    Libreria Hudson River Books, Ottava Avenue, Brooklyn

    Bea guardò il grosso orologio sopra il bancone. Cinque minuti e se ne sarebbe andata.

    La sera precedente aveva intuito che la chiamata era da parte di Otis ancora prima di sentire la segreteria telefonica che prendeva il messaggio, ma si era rifiutata di alzare la cornetta. La voce di Otis sembrava patetica e ipocrita, mentre riecheggiava nell’appartamento in cui si era rinchiusa dopo la tragedia di Stromoli: «Bea, sono io. Mi spiace un sacco. Mi dai la possibilità di spiegarti, per favore? So che ho fatto un casino. E hai tutti i motivi del mondo per odiarmi. Ma non farlo senza concedermi la possibilità di spiegarti tutto. Domani dammi un’ora, e mi farò perdonare, te lo prometto. Posso venire in libreria. Parliamone. Così capirai perché non potevo venire stasera. Poi chiamerò anche la tua famiglia e spiegherò tutto. Sto malissimo, Bea, devi credermi… dannazione, ti prego, rispondi. So che ci sei…».

    Dopo aver infilato il suo vecchio pigiama scolorito ed essersi sistemata sulla sua poltrona preferita – il vestito che aveva messo per ricevere nel migliore dei modi la proposta di matrimonio era appallottolato per terra accanto al letto –, Bea aveva fissato la segreteria telefonica. «Vattene», aveva intimato alla scatola grigia e alla lucina lampeggiante rossa.

    «Ci vediamo domani? Continuerò a chiamarti finché non mi dirai di sì…».

    «Lasciami in pace!».

    «Non sto scherzando, Bea. Se dovrò aspettarti, seduto fuori da casa tua giorno e notte, lo farò…».

    Stanca e distrutta da quella mortificante cena di famiglia, Bea non sopportava l’idea che Otis si presentasse alla sua porta di buon mattino. Non sarebbe riuscita ad addormentarsi in ogni caso, ma un litigio con un fidanzato belligerante l’avrebbe resa un vero straccio la mattina successiva. Ammettendo la sconfitta, aveva risposto al telefono con un grugnito infastidito.

    «Va bene. Ci vediamo domani pomeriggio».

    «Bea, che bello sentire la tua voce…».

    Eh no, Otis. Il trucchetto del cucciolo ferito non funzionerà questa volta… «Alle cinque me ne andrò, quindi o arrivi prima o niente».

    Avrebbe dovuto rifiutare. Ma Bea voleva delle risposte, e voleva vederlo dritto in faccia nel momento della resa dei conti. E adesso, di fronte a un’altra buca di Otis Greene, aveva capito: aveva sbagliato a fidarsi di lui. Otis l’aveva delusa. Un’altra volta.

    «Forse dovresti aspettare ancora qualche minuto, no?».

    Bea si girò per guardare il suo collega, nonché miglior amico. Gli occhi erano sinceri dietro gli occhiali da hipster dalla montatura spessa. «Forse lui sarebbe dovuto arrivare venti minuti fa. Ho aspettato abbastanza, penso».

    Russ storse il naso. «Altri dieci minuti».

    «Cinque».

    «Va bene, cinque. Verrà, Bea. So che verrà. Devi essere paziente. Beata pazienza, Bea…». Ridacchiò alla sua stessa battuta, ma la risata scomparve quando notò la sua espressione. «Scusa».

    Erano soci da tre anni e a quel punto chiunque si sarebbe stancato di battutine così stupide… ma non Russ O’Docherty. Sfortunatamente, il suo partner in affari (e amico da quando lei era arrivata a New York per studiare alla Columbia University) scriveva pezzi comici e si esibiva in piccoli spettacoli nel tempo libero, e Bea (con la sua vita sempre più complicata) era per lui una fonte d’ispirazione costante.

    Bea fece un respiro profondo. Il rassicurante profumo della carta, dell’inchiostro e della cera per mobili le riempì i polmoni. Per lei era l’odore più bello del mondo, l’aroma allettante di una libreria. Il suo sogno era sempre stato quello di possederne una. Per tutta la vita aveva amato i libri. Libri veri, non quelli elettronici. Libri che potevi metterti in borsa e leggere sulla metro. Libri che potevi far finta di consultare in un caffè del tuo quartiere mentre in realtà ti guardavi intorno. Libri in cui potevi tuffarti, accoccolarti e perderti. Libri con cui potevi riempire il tuo appartamento: infilati nelle mensole, sotto i tavoli, pile rassicuranti sul comodino. Se usciva di casa senza un libro, Bea si sentiva nuda, priva di qualcosa. In definitiva, lavorare in libreria voleva dire trovare sempre nuovi amici da portare a casa.

    Amici che non la deludevano mai. Amici di cui poteva fidarsi.

    Sentì di nuovo una stretta al cuore. Se solo fosse riuscita a fregarsene di Otis! Ma lo amava: lo amava da cinque anni, e anche se quel giorno era furiosa come mai prima, sapeva che non appena lui si fosse affacciato alla porta della libreria con i suoi lineamenti affascinanti, sarebbe stata tentata di perdonarlo. Di nuovo. Otis sapeva come convincerla, ed era stata questa sua capacità a salvare la loro relazione molte volte in passato. Bea non poteva negare la chimica che c’era tra di loro, e avrebbe dovuto lottare parecchio per resistergli, quel giorno. Certo, se fosse venuto, naturalmente.

    «Sono… sono solo stanca di tutto questo, Russ».

    Russ le mise un braccio sulle spalle. «Lo so. E hai bisogno di distrarti. Smettila di fissare quell’orologio. Sai, stavo pensando di allestire un angolo caffè lì vicino alla finestra, che ne dici? Insomma, ti viene in mente una combinazione migliore? Libri e caffè, come il cacio e i maccheroni, Cagney e Lacey, New York e l’ansia. Su, ammettilo, l’idea ti ha fatto sorridere…».

    Bea scosse la testa. Russ la conosceva meglio di chiunque altro e le sue battutine sceme avevano il potere di farla stare meglio. «Mi piace l’idea. Pensi che possiamo permettercelo?»

    «Ho fatto un po’ di conti e credo di sì».

    La Hudson River Books era stata un sogno che Bea aveva condiviso con Russ fin dalle prime conversazioni all’università. E ci avevano ragionato in continuazione durante le lunghe lezioni di letteratura inglese, fantasticando su come sistemarla, discutendo tutta la notte degli autori che avrebbero scelto, proseguendo mentre studiavano e nelle pause pranzo, sdraiati sui prati che circondavano gli edifici universitari. Gran parte di ciò che i clienti vedevano oggi, nel piccolo negozietto di mattoni rossi sull’Ottava, era stato pianificato anni prima su tovaglioli di ristoranti, sul retro di appunti di seminari e su vari taccuini riempiti di tutti i loro sogni nel corso degli anni. Russ spesso diceva che l’atmosfera che molti clienti apprezzavano era il risultato della loro passione, nata nei primi anni della loro amicizia.

    Bea sentì un colpo al cuore mentre guardava di nuovo l’orologio. Nonostante la rabbia, avrebbe voluto che Otis tenesse fede alla parola data, almeno una volta. Per lei. Accettando l’inevitabile, afferrò borsa e cappotto. «Basta, ho aspettato a sufficienza. Ci vediamo dopo, va bene?».

    Russ appoggiò la pila di libri nuovi che stava catalogando e superò di corsa il bancone d’acero per bloccarle ogni via di fuga. «Aspetta. Qualche altro minuto, ok? Sono sicuro che c’è un buon motivo se Otis è in ritardo».

    «A me viene in mente un ottimo motivo: non si farà vedere proprio, ecco».

    «Bea…».

    Irritata, alzò una mano per zittirlo. «Smettila di difenderlo! Otis non fa altro che promettere cose che non sa mantenere. Mi ha deluso troppe volte e ne ho abbastanza».

    «Abbastanza di cosa?». Il rumore del traffico all’esterno si riversò nel negozio quando Otis si affacciò alla porta. Controllò l’orologio. «Sì, è vero, sono un po’ in ritardo».

    «Venticinque minuti di ritardo», rispose Bea, decisa ad andarsene schivando l’uomo alto e ben vestito davanti a lei.

    «Bea, fammi spiegare. Non hai idea della fatica che ho fatto per arrivare fin qui. Le strade erano intasate e gli autobus non passavano. Alla fine sono riuscito a prendere un taxi, ma si è bloccato nel traffico e ho dovuto correre per cinque isolati».

    Per essere un uomo sopravvissuto a un viaggio così tremendo, Otis non sembrava troppo infastidito, né senza fiato. Russ sorrise in modo un po’ troppo entusiastico lì in mezzo tra i due. «Bene, bene, vado a prendere del caffè così voi due potrete… parlare». Senza smettere di sorridere, corse fuori dalla libreria, girando il cartello sulla porta da APERTO a CHIUSO.

    «Otis…».

    «Sei bellissima, Bea. Vieni qui…».

    Si avvicinò, ma lei si fece da parte. Il sorriso di Otis era una prova inconfutabile: Bea doveva affrontare quella conversazione con la massima cautela. Non si fidava di lui, o almeno non come prima, e questa volta non voleva dargliela vinta. Anche se le batteva il cuore a vederlo così, tutto elegante nel suo bel completo, i profondi occhi neri che la osservavano…

    Basta, Bea James! Prima deve darti un bel po’ di spiegazioni.

    «Tesoro…».

    «Vai dritto al punto, Otis. Dov’eri ieri sera?»

    «Ho dovuto vedere la collezione di un nuovo artista. La galleria vuole prenderlo prima che ce lo rubi qualche mercante di Manhattan. È un grande affare, non potevo perderlo».

    Allungò un braccio per toccarla, ma lei lo evitò. Era arrabbiata e lui doveva capirlo bene.

    «E non potevi chiamarmi?»

    «Ero nel bel mezzo della trattativa. Ho… ehm… perso la cognizione del tempo…».

    «Hai idea di quanto ha dovuto aspettare la mia famiglia al ristorante? Due ore. E ho fatto una fatica terribile per riunirli tutti dopo quello che è successo l’ultima volta. I miei genitori hanno dovuto addirittura cambiare i loro piani per le vacanze… il loro viaggio da sogno, la trasferta americana che organizzavano da anni… Non hanno l’opportunità di venire a trovarmi molto spesso qui negli Stati Uniti, ma l’hanno fatto perché gliel’hai chiesto tu. Hai la minima idea di quanto sono stata mortificata quando ho capito che non ti saresti presentato?».

    Un’emozione che poteva sembrare simile al rimorso apparve per un momento sul volto di Otis. «Bea, sto cercando di scusarmi».

    «Be’, impegnati di più. Non ti credo, Otis! Avevi detto che avresti fatto le cose per bene, questa volta. Hai promesso che saresti venuto».

    «Lo so, e mi dispiace. Ti sto dicendo che mi dispiace, Bea. Mi spiace di essermi perso la cena ieri e mi dispiace di essere venuto in ritardo oggi. Ma adesso sono qui: cos’altro devo fare?».

    Devi fare molto più di questo, Otis, pensò Bea, molto di più

    Capitolo 4

    Casa di Jake, 826B Jefferson Street, Williamsburg

    Gentile signor Steinmann,

    la mia cliente, la signora Jessica Steinmann, vorrebbe informarla della sua decisione di presentare richiesta di divorzio, per via di divergenze insanabili. Richiedo una risposta da parte sua o del suo legale entro ventotto giorni dalla ricezione di questa lettera. Qualora non avesse alcuna obiezione riguardo alla suddetta azione legale, la prego di firmare il documento che trova in allegato in modo che si possa procedere con gli accordi di divorzio…

    Divergenze insanabili.

    In altre parole, la sua volontà di rimanere sposato alla donna che amava contro il desiderio di Jessica di liberarsi di lui il prima possibile. Qualora non avesse alcuna obiezione – o per dirla meglio – nonostante le sue obiezioni.

    Jake si era aspettato che Jessica andasse dall’avvocato durante il suo primo mese a New York, certo, ma… proprio il giorno dopo? La sua ex era caparbia e determinata, ma questo era troppo anche per lei. Si chiese se avesse già conosciuto qualcuno. Il pensiero gli rivoltò lo stomaco prima di scacciarlo rapidamente. Che avesse un altro o no, non c’era motivo di torturarsi. La lettera dell’avvocato era sufficiente per ferirlo.

    Con un gemito gettò la busta marrone sul liscio parquet di ciliegio del suo nuovo appartamento. I documenti del divorzio erano l’ultima cosa di cui aveva bisogno quel giorno.

    Il suo telefono vibrò. Diede le spalle a quella busta oltraggiosa e andò verso la finestra mentre rispondeva.

    «Jake Steinmann…».

    Una voce familiare urlò in risposta: «Jaaaaky! Come te la passi, bello?».

    Si strofinò gli occhi e gettò uno sguardo a quella cupa giornata di marzo. Williamsburg poteva anche essere un quartiere in ascesa, ma quel giorno gli sembrava più che altro destinato a precipitare in un burrone. «Ciao, bello».

    «Ehi, sembri a pezzi», osservò suo fratello.

    «E tu non hai ancora imparato ad avere un po’ di tatto, Edward. Di’ a Rosie che deve impegnarsi di più con te».

    La risatina di Ed fece sorridere Jake, nonostante il suo umore. In fondo, suo fratello aveva sempre avuto il fastidioso potere di farlo sorridere. «Rosie mi ama per come sono. È per questo che ha in programma di tenermi con lei ancora per un po’».

    «Buon per lei. Come stanno andando i preparativi per il matrimonio?». Il solo menzionare la parola con la m, considerando la sgradita lettera di quel giorno, lo fece sussultare.

    «Ti va una birra?»

    «Non troppo bene, eh?».

    Ed abbassò la voce. «J., sto impazzendo qui. Non sto scherzando, se papà prova a infilare a forza altri parenti a caso tra gli invitati, non sarò responsabile delle mie azioni. Lo sapevi che avevamo una prozia di nome Eunice?»

    «No, non lo sapevo. Sei sicuro che papà non stia facendo infiltrare i suoi amichetti del golf sotto falso nome?»

    «È possibile. Quell’uomo mi ucciderà».

    Jake sorrise davanti alla frustrazione di suo fratello. «Prendila così: almeno papà sta entrando nello spirito dell’unione tra gli Steinmann e i Duncan. Non troppo tempo fa era convinto che tu fossi gay…».

    Il gemito di Ed era identico a quello che poco prima si era lasciato sfuggire Jake. Una cosa bisognava concederla ai fratelli Steinmann di New York: sapevano come lamentarsi. D’altra parte era uno degli strumenti di sopravvivenza del clan Steinmann. E poi, con una famiglia come la loro, ogni protesta verbale era preziosa.

    Jake sapeva quanto aveva sofferto suo fratello per colpa del padre, che non aveva mai accettato la decisione di Ed di allontanarsi dalla tradizione degli Steinmann negli studi psichiatrici, per fare invece il fioraio. In verità, se Ed Steinmann avesse annunciato che si sarebbe fatto crescere i capelli, sarebbe diventato di sinistra e si sarebbe trasferito a vivere in una comune hippy a Goa, suo padre avrebbe reagito meglio. Per anni Joe Steinmann aveva preso in giro la professione del suo secondo figlio, sia in pubblico che in privato: all’annuale raduno natalizio degli Steinmann, ai compleanni e agli anniversari, ai diplomi e alle vacanze estive nella casa di famiglia a nord di New York. Nonostante le donne con cui Ed era stato (ed erano tante), e per quanto avesse fatto carriera, tutto ciò che Joe Steinmann riusciva a vedere era solo il secondo figlio che sfuggiva alla sua vera vocazione. Senza contare che Ed Steinmann in veste di psichiatra – terapeuta dei VIP di New York – sarebbe probabilmente stato un disastro. E senza contare che l’idea di compassione per Ed si riassumeva in una serata a base di birra e una bella partita di baseball. Per anni Joe aveva visto solo il tradimento nelle azioni di Ed, e non l’uomo che suo figlio era diventato.

    Ma Rosie Duncan aveva cambiato tutto. E anche se Jake aveva spostato il suo studio a San Francisco per stare con Jessica ormai da molto tempo, aveva percepito la trasformazione di suo fratello, quando Ed gli aveva confidato che stava iniziando a provare sentimenti seri per una persona specifica. Certo, Jake aveva capito subito di chi si trattasse: quando tornava a New York, la luce che si accendeva negli occhi di Ed non appena si parlava di Rosie valeva più di mille parole. Lavoravano insieme in un negozio di fiori sulla Upper West Side che Rosie aveva ereditato da un anziano polacco (un tipo leggendario, secondo tutti gli aneddoti), e a quanto pareva ogni storia che Ed raccontava a suo fratello non poteva prescindere da quella donna inglese tanto sicura di sé.

    I dettagli su come fossero finiti insieme erano piuttosto confusi nella testa di Jake, ora che ci rifletteva – anche se probabilmente era quella sofferenza sorda e a forma di Jessica che attualmente gli pulsava nel cranio che aveva spazzato via tutto il resto. In ogni caso, Jake sapeva di non aver mai visto prima Ed così tranquillo, così completamente innamorato e così stabilmente felice. E poi Rosie aveva affascinato Joe dal loro primo incontro. In un certo senso, attraverso gli occhi di quella donna era riuscito a vedere il suo secondo figlio per la prima volta. E Jake rispettava Rosie per questo, non meno di quanto la rispettava per il cambiamento che aveva provocato in suo fratello. Aveva molti motivi per ringraziare la sua futura cognata.

    «Potresti usare la tua fidanzata per convincere papà», suggerì Jake. «Se c’è qualcuno che può tenerlo a bada, è lei».

    «Ah, magari gliene parlo. Ma sono serio riguardo a quella birra, Jakey. Non ti ho ancora visto da quando sei tornato, mi manca il mio fratellino. E poi ho bisogno di andarmene da Kowalski’s per un po’. Tra i preparativi del matrimonio e la caviglia gonfia di Marnie quel posto sta rischiando di diventare una bomba a estrogeno. Ahia».

    «Cosa è successo?»

    «Rosie mi ha dato un pugno… Cosa? Sono al telefono, tesoro… Sul serio? J., la mia bellissima futura sposa vuole parlare con te… te la passo…».

    «Ciao, Jake». Gli sembrò che quella voce rassicurante e l’accento britannico corressero lungo il filo per abbracciarlo e Jake si rilassò immediatamente. «Bentornato a casa».

    «Ciao, quasi cognata. Quanto ti sta facendo innervosire mio fratello da uno a dieci?».

    Il gemito di Rosie era piuttosto convincente. Sì, non avrebbe avuto alcun problema a inserirsi nella famiglia Steinmann. «Tra me e te, direi undici. Ti prego, portalo un po’ fuori, va bene? Sto cercando di risolvere le cose con tuo padre e Ed non mi sta aiutando».

    «Va bene. Ma solo perché me lo chiedi tu».

    «Grazie, sei un tesoro! Dimmi, come stai? La casa nuova?»

    «Ancora nuova. E silenziosa. E a quanto pare i traslocatori si sono persi la mia macchinetta per il caffè da qualche parte tra San Francisco e New York».

    «Tieni duro, la troverai». Una pausa drammatica. «Hai avuto altre notizie da Jess?».

    Jake si irrigidì per via della sensazione di vuoto e dolore che ormai gli procurava il nome della sua quasi ex moglie. «In realtà l’ho sentita oggi. Cioè, ho sentito il suo avvocato».

    «Oh, no, Jake! Mi dispiace un sacco. So che sembra una frase fatta, ma se hai bisogno di parlare sono qui».

    Rise. «Sto bene. Penso che toglierti Ed dai piedi per qualche ora sarà un toccasana per tutti e due».

    «Credo proprio di sì. Però chiamami se posso aiutarti in qualche modo».

    «Grazie, Rosie. Lo terrò presente. Me lo ripassi, per favore?».

    Jake sentì borbottare qualcosa mentre suo fratello prendeva in mano il telefono, e si immaginò Ed e Rosie che ridacchiavano, circondati dai fiori nel loro negozietto sull’Upper West Side.

    «Dovrei preoccuparmi per la sfacciataggine con cui la mia fidanzata flirta con te», disse Ed. «Cosa? È palese, Rosie Duncan!». Jake percepì l’allegria nella voce di Rosie mentre commentava in sottofondo, poi Ed rise. «Ha appena detto che se tu fossi stato libero quando lei era single, forse avrebbe scelto un altro Steinmann. Che carina. Allora, andiamo a divertirci o no?».

    Jake si guardò intorno e si trovò davanti lo squallore del suo nuovo appartamento: le tristi scatole di cartone che aspettavano di essere aperte, quell’arredamento sciatto scelto da qualcun altro. Non si sentiva a casa, per niente, e in quel momento pensò che non ci si sarebbe mai sentito. Doveva uscire, prima che quelle stanze silenziose e l’infinita, ininterrotta autoanalisi lo facessero impazzire. «Sì, andiamo».

    Capitolo 5

    Libreria Hudson River Books, Ottava Avenue, Brooklyn

    «Tesoro, voglio davvero farmi perdonare».

    Avevano discusso per quasi un’ora e Bea sentiva che la sua determinazione iniziava a calare. Per sessanta minuti Otis l’aveva fissata negli occhi con quella sua aria sicura e destabilizzante, un’arma che poteva avere effetti disarmanti quando veniva usata al massimo della potenza. Aveva allungato un braccio ed era riuscito a stringerle le dita per qualche secondo prima che la rabbia le facesse ritrarre la mano. Ora era seduto vicinissimo a lei, con un’espressione in volto che la implorava di avvicinarsi. Bea si strofinò gli occhi e rimpianse di non essersene andata dalla libreria prima del suo arrivo.

    «Sono solo così stanca di litigare sempre», disse, i suoi pensieri che diventavano parole prima che potesse fermarli.

    «Anch’io. Ci siamo già passati, e ne siamo sempre usciti».

    «Forse questa volta è diverso».

    Perché la sua vita amorosa era così complicata? Perché, mentre tutti quelli che le stavano intorno trovavano dei partner decenti, lei faticava così tanto? Bea non si considerava una fidanzata esigente, e non aveva mai avuto problemi a incontrare uomini. Eppure, in un qualche punto tra la scintilla iniziale e la stabilità, le sue relazioni cominciavano ad avere dei problemi: crescevano, si aggrovigliavano e si complicavano, finché non si ritrovava con un partner del tutto insoddisfacente, un uomo inaffidabile, in una situazione più simile a uno scontro tra forze di volontà che a una relazione produttiva.

    «Non vedo perché no. D’accordo, ho fatto una cazzata, lo ammetto! Ma possiamo voltare pagina, Bea. Voglio farmi perdonare».

    «Perdonare? E in che modo? Andrai a scusarti di persona con ogni singolo membro della mia famiglia che ha aspettato ore che ti facessi vivo al ristorante, ieri sera?».

    Otis non riuscì a non trasalire. «Se è necessario, sì».

    «I miei genitori sono partiti stamattina. Forse riesci a beccarli da qualche parte a nord di New York, se ti sbrighi».

    «Tesoro…». Si passò con un gesto frustrato le mani tra i capelli scuri e le fece il suo miglior sguardo da cagnolino bastonato. Di solito funzionava. Di solito, Bea si ammorbidiva davanti a quegli occhi.

    Non oggi, Otis, si disse severamente. Oggi ho bisogno di una risposta a tutte le mie domande.

    «E mio fratello avrebbe voluto farti a pezzi. E sì che Stewart è la persona più tranquilla della città».

    Suo fratello maggiore, Stewart, non aveva mai amato il fidanzato di Bea e pensava che sua sorella fosse attratta dagli uomini sbagliati. Certo, per lui era facile parlare. Era così innamorato della sua Celia, una donna un po’ più grande di lui. Da quando si erano incontrati al «New York Times», dove lui lavorava come redattore, firmando articoli con il nome di Stewart Mitchell (il cognome da nubile della madre), e Celia teneva una rubrica di grande importanza, quei due erano diventati praticamente inseparabili. Si erano subito adagiati nel ritmo di una vera, stabile coppia felice. Proprio come ogni altra coppia della famiglia James.

    Fissando il suo ragazzo, strisciante e servile, Bea si sentì di colpo a disagio. Lo amava, ma cosa provava davvero Otis per lei? Lo aveva detto lui stesso: ci erano già passati diverse volte. Certo, dopo cinque anni qualcosa sarebbe dovuto cambiare, no? Bea voleva che lui facesse un passo avanti, che tenesse fede alle sue grandi promesse. Si stava illudendo? Si prendeva in giro da sola? Più guardava Otis Greene, più quel rumore bianco aumentava nella sua testa.

    Tutto questo è ridicolo. Non cambierà mai. Io merito di più.

    Otis si avvicinò, i suoi profondi occhi scuri guardavano il suo volto in cerca di un invito. «Tesoro… cosa posso fare per farmi perdonare?».

    Era stanca. Troppo stanca per salire di nuovo su quella giostra. «Non lo so. Credo di aver bisogno di un po’ di tempo per pensarci bene».

    «Allora prenditi un po’ di tempo. Chiamami quando vorrai continuare questa conversazione». Si era messo sulla difensiva, ma Bea sospettava che Otis fosse contento di avere un valido motivo per non doversi scusare ancora.

    «No, non è quello che intendo».

    «E allora cosa intendi, Bea? Cosa mi stai dicendo?».

    Cosa ti sto dicendo? Bea ci rifletté, il cuore che le batteva all’impazzata. Non voleva ripetere di nuovo quella discussione. Mai più. Lentamente, cercò di fare chiarezza dentro di sé.

    «Sto dicendo…», iniziò, scegliendo le parole come se stesse camminando con attenzione su un campo minato, «… penso che tra noi sia finita. Non facciamo altro che tornare sugli stessi problemi e credo… credo di non farcela più. Devo tornare a essere me stessa, Otis. Non la metà paranoica di una relazione che non va da nessuna parte. Siamo arrivati al capolinea. Mi dispiace».

    Otis sbatté gli occhi. Di solito non andava così: lui si scusava, Bea cedeva, e presto ritornava la serenità. Ma la risposta di Bea mise i bastoni tra le ruote di un meccanismo che aveva sempre funzionato alla grande. Distogliendo lo sguardo, Otis fece un passo indietro. «Se è quello che vuoi».

    Sorpresa dalla forza della sua stessa determinazione, Bea resistette orgogliosamente. «Sì, è quello che voglio».

    Il silenzio nella libreria era più forte e rabbioso del traffico lì fuori, sull’Ottava. Bea si ritirò dietro il bancone. Otis spostò gli occhi sull’alto soffitto, come se si aspettasse di trovare lì le risposte, scritte sul muro. Fuori, la pioggia tamburellava sulle vetrine della libreria e sul mondo subito oltre.

    «Quindi forse è meglio che vada?», la sua era più una domanda che un’affermazione.

    «Dovremmo andarcene entrambi».

    Otis stava per rispondere, ma il rumore della porta che si apriva distolse la sua attenzione. Completamente fradicio, Russ O’Docherty stringeva un portabicchieri di cartone quasi distrutto. Cercò di chiudere la porta senza far cadere le tre tazze di caffè.

    «Scusate se ci ho messo tanto. Là fuori è come un Armageddon…». Smise di parlare quando notò le loro espressioni. «Oh cavolo, non avete ancora finito?»

    «In realtà stavo giusto andando via», rispose Otis, e la leggerezza del suo tono lasciò Bea senza fiato. Prese una delle tazze di caffè e si girò verso di lei. «Chiamami quando sei pronta. Ricordati che ti amo».

    Russ vide il suo amico che se ne andava e alzò le mani sorpreso. «Cos’è successo?».

    Bea si buttò sulla poltrona del nonno dietro il bancone. «Penso che ci siamo appena lasciati».

    Scioccato, Russ corse verso di lei e si chinò al suo fianco, esitante. «Davvero? È che ha detto ti amo. Di solito, non è quello che si

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