Gioco di spie
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Vienna, 1814-15
Mentre a Vienna si decide il nuovo assetto dell'Europa, Sofia Pietra, una celebre cantante lirica soprannominata l'Usignolo di Venezia, viene invitata a esibirsi presso ospiti illustri e potenti. Dotata di impareggiabile bellezza, oltre che di un talento canoro unico, la giovane attira l'attenzione di Leo Aikenhead, un aristocratico inglese che dietro la facciata di irresistibile seduttore cela una pericolosa attività di agente segreto. Scaltro e ligio al dovere, Leo è chiamato a svolgere una delicata missione per il suo paese: convincere quella fanciulla dalla voce d'angelo a spiare lo zar russo diventandone l'amante. Ma come potrà rinunciare a lei se ne è perdutamente innamorato?
Joanna Maitland
Tra le autrici più amate e conosciute dal pubblico italiano.
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Anteprima del libro
Gioco di spie - Joanna Maitland
Immagine di copertina:
Gian Luigi Coppola
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
His Reluctant Mistress
Harlequin Historical
© 2009 Joanna Maitland
Traduzione di Daniela Mento
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5898-586-1
1
Il discreto colpo di tosse del maggiordomo interruppe quello che si stava rivelando un incontro molto promettente.
Lord Leo Aikenhead alzò il capo dal seno nudo della donna che sedeva sulle sue ginocchia e imprecò in modo colorito. Anche se si stava intrattenendo soltanto con una prostituta, per quanto d’alto bordo, non voleva che la sua amante fosse esposta allo sguardo di disapprovazione del domestico.
Leo riabbottonò senza fretta il vestito della donna, così da renderla di nuovo presentabile, e poi si voltò.
Gibson, il maggiordomo, capì che era più opportuno attendere sulla soglia, senza tossire un’altra volta.
«Scusatemi, mia cara» disse Leo alla sua accompagnatrice in tono di rimpianto. «Vorrei tanto continuare il nostro... colloquio, ma temo che il dovere mi chiami.»
Le abbassò l’orlo della gonna e con uno sculaccione la invitò a raggiungere il suo amico William.
«Potrà darvi molto più di me» aggiunse perché la ragazza aveva messo il broncio ed esitava. «È più ricco e ha perso la testa per voi.»
Con una risatina la cortigiana corse via dal salone. Leo si mise a posto la giacca e infine si voltò verso il maggiordomo che fissava impassibile un punto nel vuoto.
«Puoi smettere di fingere di essere cieco, Gibson. Se n’è andata, almeno per il momento.»
«Certo, milord» rispose costui, con tono un po’ sferzante.
Leo si alzò e andò al caminetto. Nello specchio sopra la mensola vide che, nonostante la sua giacca fosse perfettamente in ordine, il cravattone intorno al collo era tutto spiegazzato, come se non se lo fosse tolto prima di andare a letto.
Con molta calma se lo riannodò, tenendo di proposito Gibson sulle spine. Era quello che si meritava dopo averlo disturbato in maniera così inopportuna.
Finalmente, quando ormai il maggiordomo saltellava impaziente da un piede all’altro, Leo gli domandò perché fosse venuto a chiamarlo.
«Vostro fratello è appena arrivato e chiede di vedervi con urgenza. Vi sta aspettando nel salotto piccolo.»
Leo si sarebbe volentieri abbandonato ad altre imprecazioni anche più pittoresche delle precedenti, ma si trattenne. Non poteva trattarsi del fratello maggiore, Dominic, il Duca di Calder, dato che era stato inviato in Russia la settima prima, su ordine del governo. Quindi rimaneva Jack, il minore degli Aikenhead.
Jack era un caro ragazzo, sia Leo sia Dominic gli volevano molto bene, ma le sue follie cominciavano a pesare notevolmente sulle finanze di famiglia. Ormai aveva quasi venticinque anni ed era tempo che si assumesse le sue responsabilità.
Mentre Leo aveva un debole per le donne, Jack dilapidava il suo denaro ai tavoli da gioco. Forse era ora che i fratelli si rifiutassero di pagare i suoi debiti, così avrebbe imparato ad amministrare meglio le proprie sostanze.
Gibson fece per aprire la porta, ma Leo posò una mano sul battente.
«Come ti è sembrato, Gibson? Di che umore era?»
«Non proprio... ehm... tranquillo, come se fosse venuto qui in gran fretta, milord.»
«Ha portato con sé il suo valletto personale?»
«Non ha portato nemmeno una valigia, milord.»
La situazione doveva essere grave se Jack era arrivato da Londra senza nemmeno avere il tempo di preparare una valigia.
Sempre più furioso Leo si diresse a grandi passi verso il salotto blu. «Hai finalmente deciso di venirmi a trovare, giovanotto? Davvero gentile da parte tua degnarci della tua presenza. Conti di restare per molto?»
Gibson, alle sue spalle, richiuse discretamente la porta prima di andarsene.
Jack si era alzato di scatto dalla poltrona accanto al caminetto, appena lo aveva visto entrare. Era vestito come se dovesse andare a un ballo, un abbigliamento del tutto inconsueto per un viaggio così lungo, e la sua giacca era spiegazzata in maniera indecorosa. Leo lo squadrò da capo a piedi con evidente disapprovazione, facendolo arrossire.
«Alla fine il tuo valletto ti ha piantato, a quanto vedo. Non lo posso biasimare.»
Jack aprì la bocca per replicare, ma la richiuse immediatamente. A quel punto il fratello si stancò di scherzare.
«Avanti, siediti e smettila di guardarmi in quel modo. Sei nei guai e si vede. Che cosa hai combinato questa volta?»
Senza attendere che lui rispondesse, Leo andò a un tavolino vicino alla finestra, versò del brandy in due bicchieri e ne offrì uno al fratello. Jack lo vuotò in un sorso solo e glielo restituì perché glielo riempisse di nuovo.
Leo gli diede anche il suo e poi prese posto di fronte a lui, aspettando che si decidesse a vuotare il sacco.
Jack si sedette di nuovo in poltrona, con il bicchiere di brandy in mano. «Questa volta sono davvero nei pasticci» gli confessò. «Temo che nemmeno tu potrai aiutarmi.»
«Lascia che sia io a giudicarlo.»
«Sono andato a giocare a carte con Falstead e Hallingdon, dopo il ballo di Lady Morrissey. C’erano anche altri amici, sembrava la mia serata fortunata.»
Leo fissava suo fratello, che teneva lo sguardo fisso sul pavimento.
«Ho vinto quasi seimila sterline, Leo.» Solo allora lo guardò con occhi da allucinato. «Poi però le ho perse tutte quante... E ho continuato a perdere.»
«Quanto hai perso in tutto?» tagliò corto Leo, sempre più insofferente.
«Trentaduemila sterline» rispose Jack con un filo di voce.
Leo imprecò. «Maledizione! Vuoi rovinarci tutti quanti? Nemmeno Dominic potrebbe darti tanto denaro; io no di certo: è tre volte la mia rendita annuale.»
«Mi dispiace, Leo.»
Quest’ultimo si alzò dalla poltrona stringendo i pugni. Aveva una gran voglia di prendere a pugni Jack. Se lo sarebbe meritato, ma non avrebbe risolto il problema. Andò a versarsi un altro brandy. Questa volta ne aveva bisogno anche lui.
«Quanto tempo hai per pagare?»
«È... È questo il problema. Io...»
«Dannazione, Jack, sei tu il problema!» lo interruppe Leo, incapace di trattenersi oltre. «Continui a giocare e continui a perdere, anche se sai benissimo di non potertelo permettere!»
«Mi dispiace, Leo.»
«A chi devi tutto questo denaro?»
«Non lo conosci. È uno dei segretari dell’ambasciata prussiana. Deve tornare a Berlino fra due giorni, per poi recarsi a Vienna per il Congresso. È per questo che non ho molto tempo per pagare.»
«Intendi dire che vuole i suoi soldi prima di partire?»
Jack si limitò ad annuire.
«Insomma, o troviamo trentaduemila sterline in due giorni o il nome degli Aikenhead verrà disonorato in tutta Europa. E non dire di nuovo che ti dispiace» gli intimò minaccioso.
«Volevo soltanto farti capire che mi rendo conto del danno che ho provocato alla nostra famiglia. Se mi aiuti, ti do la mia parola che non giocherò mai più.»
Leo lo guardò incredulo. Dall’espressione di suo fratello capì che non stava scherzando.
«Manterrò la mia promessa, te lo giuro. Anche se capisco che non è una grande consolazione in un momento come questo.»
Leo riempì di nuovo il bicchiere del fratello. «Me lo giuri solennemente? Non giocherai mai più di quanto potrai permetterti di perdere?»
«Non giocherò affatto.»
«Non ti chiedo di farmi una promessa che non riuscirai mai a mantenere, soprattutto considerati gli amici che frequenti.»
Jack chinò il capo con aria colpevole.
«Mi basta che tu prometta di non scommettere più di quanto puoi permetterti di perdere. Se lo farai, farò il possibile per toglierti dai pasticci anche questa volta.»
Jack tirò un sospiro di sollievo e lo guardò con espressione riconoscente. «Hai la mia parola, Leo, e la manterrò. Troverò un modo per ripagarti, te lo giuro.»
«Farò finta di non avere sentito, Jack. Per te sarebbe più facile andare in America a nuoto piuttosto che riuscire a trovare trentaduemila sterline. Adesso vai riposare. Non voglio che tu compaia davanti ai miei ospiti in questo stato.» Tirò il cordone del campanello, e Gibson comparve così in fretta da indurlo a sospettare che fosse rimasto per tutto il tempo a origliare dietro la porta.
«Accompagna Lord Jack nella sua camera e di’ al mio valletto di fornirgli tutto il necessario, finché si tratterrà qui con noi. È molto stanco, stasera cenerà in camera sua» aggiunse.
Jack sbadigliò in maniera teatrale, per avvalorare la sua presunta stanchezza.
Leo cercò di non ridere. Era difficile rimanere arrabbiato con Jack, per quanto se lo meritasse.
«Se avete la compiacenza di seguirmi, Lord Jack» lo invitò Gibson aprendo la porta.
«Leo, vorrei tanto ringraziarti per...»
«Buonanotte, Jack. Dormi bene» tagliò corto il fratello maggiore.
Quando però se ne fu andato, Leo fu preso dallo sconforto. Trentaduemila sterline erano una somma incredibile. Come aveva potuto perdere tanto in una sola serata?
Cominciò ad camminare nervosamente su e giù per la stanza, meditando sul da farsi. Quel salottino era troppo piccolo: aveva bisogno di aria, di spazio.
Andò in corridoio e sentì le voci dei suoi ospiti. Si erano impossessati della dimora di campagna e per la prima volta in dieci anni, da quando suo fratello Dominic gliela aveva lasciata, si pentì di aver invitato tanta gente. C’erano persone dappertutto, in biblioteca come sulla terrazza. I suoi amici avevano portato le loro amanti e sembrava non esserci un luogo dove potesse starsene in santa pace.
Gibson stava scendendo le scale in quel momento. «Ho accompagnato Lord Jack nella camera cinese» gli comunicò.
«Esco a fare una cavalcata» gli annunciò Leo. «Fammi preparare Jezebel e di’ al cuoco di servire la cena un’ora più tardi del solito.»
Entrambe le sopracciglia del maggiordomo scattarono verso l’alto prima che costui riacquistasse la sua consueta imperturbabilità. «Benissimo, milord. Se qualcuno dei vostri ospiti dovesse chiederne la ragione...»
«Di’ soltanto che sono uscito. Troveranno bene un modo per occupare il tempo, mentre sono fuori» ribatté Leo.
La cena di quella sera era quasi finita quando Leo fece il suo annuncio.
«Mi dispiace ma affari urgenti mi costringono a tornare a Londra prima del previsto. Partirò domani mattina, alle prime luci dell’alba.»
I suoi ospiti reagirono con sgomento. «Siamo qui solo da una settimana» protestarono.
«Partirò io, non voi. Siete i benvenuti se vorrete rimanere, e potrete continuare a godere della mia ospitalità.»
La cortigiana alla sua destra gli accarezzò la manica della giacca. «Non sarà lo stesso senza di voi, mio caro Leo» gli mormorò facendo le fusa come una gatta.
«Non abbiate timore» la rassicurò. «Mio fratello Jack è arrivato ieri sera e farà le mie veci come padrone di casa.»
«Jack?» La voce di uno dei suoi ospiti si levò dal fondo della tavola. «Non siamo venuti qui per giocarci la camicia con tuo fratello. Se torni a Londra domani mattina, ce ne andremo anche noi.»
Si levarono alcuni mormorii di approvazione.
Leo ne fu compiaciuto. Non era da lui mettere alla porta gli amici, ma, se decidevano di andarsene, tanto meglio per tutti.
«Al momento non posso prevedere quando sarò di ritorno» si scusò.
«Gli affari sono affari, amico mio. Ti comprendiamo. Comunque, abbiamo ancora questa notte per divertirci, e ci divertiremo come abbiamo sempre fatto» disse un altro alzandosi con il bicchiere in mano. «Un brindisi per Leo, per la sua ospitalità, per il vino e per le belle donne.»
«Per Leo, per il vino e per le belle donne!» ripeterono gli altri all’unisono.
Quando Leo tornò, dieci giorni dopo nessuno avrebbe potuto indovinare che la casa era stata sede di gozzoviglie. Erano rimasti soltanto Jack e i domestici, non si sentivano più canzoni triviali in giro per le stanze e non si vedevano disegni erotici sui tavolini.
I larici, questo era il nome della tenuta di campagna di famiglia, avrebbe potuto essere la residenza di un vescovo per quanto sembrava sobria e severa.
Jack era seduto in biblioteca e stava leggendo un giornale quando Leo entrò.
«Grazie a Dio sei tornato!» esclamò con evidente sollievo, ma non gli rivolse la domanda che aveva sulle labbra.
«Ho portato con me il tuo valletto e le tue valigie. Le mie giacche hanno un taglio perfetto, ma sono troppo larghe per te. Vai subito a cambiarti, così potremo cenare insieme e poi andare a dormire presto» gli rispose il fratello.
«Non mi dici se...»
«Domani abbiamo del lavoro da fare, Jack. L’ufficio per gli Affari Esteri ci manda a Vienna. Con Dominic in Russia, ho assunto io il comando. Ho scritto a Dieci e ci raggiungerà a Vienna appena potrà.»
Leo e i suoi fratelli erano abili spie del governo inglese. Il nome in codice di Dominic era Asso, Leo era il Re e Jack il Fante. Dieci invece era il nome di Ben Dexter, il quarto membro del gruppo nonché migliore amico del minore degli Aikenhead, che però, a differenza di Jack, odiava il gioco d’azzardo. Suo padre, infatti, era morto in duello in seguito a una lite per una partita a carte.
«Dobbiamo partire subito?» chiese perplesso Jack.
«Appena possibile. Lord Castlereagh, il ministro degli Esteri, è già partito per Parigi e poi andrà a Vienna anche lui.»
«Ma io non posso lasciare l’Inghilterra se...»
«Non ti preoccupare per il tuo amico prussiano, Jack. È salpato per l’Olanda in tutta fretta. Ha dovuto accontentarsi di quello che gli ho dato, senza fare tante storie. Poi ti spiegherò i particolari.»
Jack rimase a bocca aperta.
«Non guardarmi così. Pensa piuttosto a restituirmi la giacca» gli disse Leo.
«Un’altra volta.»
Sofia obbedì, respirò profondamente e ripeté la scala melodica dalla nota più alta alla più bassa, con la massima precisione come esigeva il suo maestro.
«Bene. Adesso cantatela di nuovo partendo da un semitono più alto, se non vi dispiace» le ordinò Verdicchio suonando il tasto corrispondente del pianoforte.
Sofia ripeté la scala incominciando da un semitono più alto, ma dovette cantarla per tre volte prima che il suo insegnante fosse soddisfatto. Verdicchio era molto severo, ma era stato lui a farla diventare una brava cantante lirica e perciò lei si sforzava di seguire sempre i suoi consigli.
Poi salirono ancora di mezza ottava, poco per volta, fino a quando raggiunsero il limite della sua estensione vocale. Era perfettamente intonata, non per niente Sofia Pietra era soprannominata l’Usignolo Veneziano, che non sbagliava mai un acuto. La sua fama ormai andava oltre i confini della Serenissima e stava raggiungendo le altre capitali europee della musica.
Adesso Sofia era ricca e abbastanza famosa, ma non aveva mai dimenticato che cosa significasse essere povera e costretta a vivere nel timore che il maestro Verdicchio la gettasse in strada in mezzo a una strada perché non era riuscita a soddisfare le sue richieste.
«Non perdete la concentrazione!» le raccomandò il maestro.
«Che cosa devo cantare