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Dal Paron alla sedia di Amsterdam Trent’anni di storia granata
Dal Paron alla sedia di Amsterdam Trent’anni di storia granata
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E-book161 pagine2 ore

Dal Paron alla sedia di Amsterdam Trent’anni di storia granata

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Info su questo ebook

Un

lungo viaggio, che attraversa trent'anni di storia granata, a

raccontare il Toro, dal Paron Rocco, alla sedia di Mondonico ad

Amsterdam.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2021
ISBN9791220327084
Dal Paron alla sedia di Amsterdam Trent’anni di storia granata

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    Anteprima del libro

    Dal Paron alla sedia di Amsterdam Trent’anni di storia granata - Carlo Mia

    info@youcanprint.it

    I QUATTRO MOSCHETTIERI

    Rocco, Giagnoni, Radice, Mondonico

    I quattro allenatori, che hanno caratterizzato la mia vita in granata, sono stati, in rigoroso ordine cronologico: Nereo Rocco, Gustavo Giagnoni, Luigi Radice detto Gigi ed Emiliano Mondonico, che definirei, i miei quattro Moschettieri, dei quali Mondonico, per il suo aspetto guascone, datogli da baffi e mosca sotto il labbro inferiore, è sicuramente il D’Artagnan della situazione. Gli ultimi tre purtroppo, legati anche nel loro triste destino, che li ha visti volare via, tutti nello stesso anno, il 2018. Prima e dopo di questi, non ne ricordo nessuno, che a mio parere, abbia rappresentato appieno, cosa volesse dire essere del Toro, nello spirito, nella voglia di non essere mai sopraffatti, nonostante si incontrassero squadre che avevano giocatori, molto più forti della nostra.

    Ma il tremendismo granata, nostro segno distintivo, riconosciutoci anche dagli avversari, più volte ci ha permesso di prevalere, nonostante il pronostico avverso. Fatta eccezione per il periodo del Grande Torino, dei quali, per ovvie ragioni di età, posso solo averne avuto informazioni da interviste, radio, televisione, libri ed a ragion veduta, non avendo vissuto direttamente il periodo, non sono in grado di fare qualsivoglia commento. Sono stati gli allenatori, che hanno segnato la storia, del Toro nel dopo Superga e soprattutto la mia di tifoso.

    Un lungo viaggio, che attraversa circa trent’anni di storia granata, a raccontare quello che era vero Toro, che va dal Paron Rocco, alla sedia di Mondonico, alzata come un trofeo denso di rabbia ad Amsterdam. Tutti allenatori che hanno allenato al Vecchio Filadelfia, uno stadio mitico, per certi versi mistico, dove si respirava l’aria dei trionfi degli Invincibili, nel quale si carpiva il significato, di cosa volesse rappresentare, vestire la maglia granata, che fino ai quattro allenatori suddetti, per i loro giocatori, ma anche per loro stessi, rappresentava quasi, una seconda pelle. Un luogo che custodiva, la memoria della storia del Toro, nel quale si sentono ancora, l’eco delle urla dei tifosi festanti, che aleggiano come fantasmi dentro al Tempio granata. Fino all’abbandono, come campo di allenamento nel 1993, che portò al degrado dello storico impianto, con la funesta conseguenza dello scempio della demolizione, iniziata il 18 luglio1997, allorchè la prima partedel Filadelfia venne abbattuta. Quella data rappresenta, l’inizio della fine, dello storico stadio, che tanto aveva rappresentato, anche per la stessa città di Torino, un’agonia che terminò il 10 aprile del 1998, quando le ruspe, lo rasero definitivamente al suolo. Grazie al grande cuore dei tifosi, è stato tenuto in vita contro il degrado, che progressivamente se lo sarebbe mangiato, ripulendolo periodicamente e giocando anche delle partite tra tifosi, nei giorni per noi, più significativi, invitando ex giocatori del passato, come Pulici, Claudio Sala, Graziani, Pecci, Salvadori, Zaccarelli, Puja, Fossati, Cereser, Giacomino Ferri, un mastino, che nella sua carriera, marcò anche Platini e Maradona.

    Quando c’era da tornare nel loro stadio, rispondevano sempre presente, per rinverdire così i fasti di un luogo, per noi e per loro sacro, che altrimenti sarebbe morto, magari a favore di un supermercato. Oppure, come meta di ritrovo per le nostre manifestazioni, come quella che è già storia, ossia, la Marcia dell’Orgoglio Granata, che il 4 maggio 2003, invase Torino, allorchè 50.000 tifosi, senza cenni di violenza, nonostante il giorno prima Toro-Udinese 0-1, decretasse la nostra ennesima retrocessione in Serie B, relegandoci all’ultimo posto in classifica. Un pacifico corteo di tifosi festanti, sfilò per le vie della città, toccando i nostri luoghi simbolo, oltre al Fila, la lapide a Meroni in corso Re Umberto, dove fu investito e Superga, per far sentire alto, il loro grido nel cielo, come se si fosse vinto uno scudetto, perché il Toro ed i suoi tifosi, al di la di tutto, erano ancora vivi. Questa è la prova provata, della fierezza di tifare Toro, perché molte squadre sono grandi, ma solo il Toro è leggenda. E dire che anche in linea, con quanto chiedeva in quegli anni la Juventus, di avere uno stadio di proprietà ed alla quale era stato assegnato il Comunale, sembrava fattibile il sogno di rivedere il Toro, giocare in un Filadelfia ristrutturato e ribollente di tifo granata, fatta salva la tribuna liberty, che era sotto la tutela della Soprintendenza delle Belle Arti. Dei diversi progetti presentati negli anni, nessuno è mai andato a buon fine, adducendo scuse come, il piano regolatore e mille altri motivi, tra i quali il più evidente, che erano solo promesse da marinaio. I presidenti che si sono succeduti alla guida del Toro, hanno sempre sbandierato la ristrutturazione del Fila, come un loro cavallo di Troia, per entrare nelle grazie dei tifosi. Tra i tanti, quelli più ambiziosi erano, il progetto di uno stadio con capienza di 15.000 posti, che avrebbe dovuto avere all’esterno, una struttura in mattoni, sulla falsariga del famoso stadio dell’Arsenal di Highbury e all’interno, un salotto come il Louis II di Montecarlo o quello che prendeva ispirazione dall’'Amsterdam Arena,lo stadio dell’Ajax, con la possibilità di avere sugli spalti 30.000 spettatori.

    Oppure anche la versione di un impianto, che avrebbe potuto ospitare 25.000 tifosi e con una successiva modifica, fino a 35.000. Tutte queste opere promesse, se realizzate, avrebbero potuto ricreare la celebre Fossa dei Leoni, con il vantaggio di portare, anche qualche punto in più in classifica.

    Uno stadio che, come quando fu costruito il Filadelfia dal Conte Marone Cinzano, sarebbe stato innovativo, polifunzionale, un po’ come gli stadi edificati in questi ultimi anni, con varie attività di contorno, come il museo, il centro sportivo, il celeberrimo Torinello, rimasto solo sulla carta dei sogni, che avrebbero determinato, sicuramente un aumento dei ricavi. In una delle tante occasioni, per finanziare la costruzione, si era anche trovata la famosa iniziativa, un mattone per il Filadelfia, che coinvolgeva direttamente i tifosi, cioè al costo di 100.000 lire, si poteva acquistare un mattone, che avrebbe portato il nome del benefattore, contribuendo così, a trovare una parte dei fondi, necessari per la ricostruzione.

    Il sogno del Fila è sempre svanito per vari intoppi, burocratici e soprattutto politici, ai quali in ultimo, si aggiunsero le banali scuse, che il sito nel quale si sarebbe dovuto costruire, non era idoneo per la sicurezza, perchè in mezzo alle case, cosa totalmente assurda, perché il Grande Torino, dista non più di 500 mt. e non è sicuramente in mezzo alla campagna o quella che i due stadi, Comunale per la Juventus e Filadelfia per il Toro, fossero troppo vicini e quindi magari oggetto di intemperanze tra i tifosi. Quando non si vogliono fare le cose, la fantasia va al potere. Di quei ruderi che trasudavano storia, vittorie, record, imbattibilità, la creazione del Mito del Grande Torino, trasformato in Leggenda, della formazione per la cavalcata vincente dello scudetto nel ‘75/76, che rinverdiva i fasti degli Invincibili, dei nostri giovani del vivaio, cresciuti all’ombra di quei campioni, rimanevano solo più le parole ed i nostalgici racconti di quel luogo, che il tifoso granata, magari quelli con i capelli illuminati dalla Luna, se non addirittura canuti, considerava essere, anche un po’ il salotto buono di casa sua.

    Nonostante le promesse dei vari presidenti, per la ricostruzione, si sono dovuti attendere vent’anni affinchè sorgesse il Nuovo Filadelfia, che nulla ha a che vedere con il vecchio, conservandone solo il nome e che ne sembra, una sbiadita parodia. Oltrettutto la moda di questi anni, consiste nel tenerlo chiuso per le sedute tattiche, mentre il Vecchio Fila, era sempre aperto ai tifosi, come punto di ritrovo, quello che nelle solite promesse, avrebbe dovuto essere anche il Nuovo Fila, nato per poter ricreare l’atmosfera che si respirava in quei tempi, cosa che è andata totalmente disillusa. Ma poi per nascondere chissà quali segreti tattici, visti i risultati della domenica. Anche se, come ai tempi in cui hanno allenato, Rocco, Giagnoni, Radice e Mondonico, il Filadelfia, veniva utilizzato solo per gli allenamenti, quello attuale, non porta nessun valore aggiunto ai giocatori, in termini di appartenenza al Toro, nel far comprendere la storia di questa gloriosa società, fin dal momento in cui si salgono i gradini, che dagli spogliatoi, portano su di un campo, sul quale, per le gesta di quei straordinari campioni, sono state scritte, pagine indelebili, della storia del calcio italiano. Oggi non ci sono più neanche giocatori che possano raccontare il Toro, del fascino e dell’orgoglio di vestire la maglia granata, che fu di Valentino Mazzola e dei suoi degni compagni o di altri successivi, come potevano essere Bearzot, Ferrini, Pulici o Junior, un brasiliano che ha legato per tre anni, la sua carriera ai nostri colori, dopo aver vinto tutto ciò che c’era da vincere con il suo Flamengo e che viene ricordato al pari degli altri.

    E’ stato, senza dubbio, lo straniero più amato dai tifosi. Tornò, qualche anno dopo, quando Moggi lo chiamò per disputare la Mitropa Cup ed accettò senza esitazioni, perché a chiamarlo era stato il Toro. Questi tanto per citarne alcuni, tra i più rappresentativi. Calciatori che hanno vissuto l’epoca in cui, erano parte integrante della società, prima che venisse promulgata la sentenza Bosman nel 1995, che avrebbe creato gli attuali mercenari del pallone, che baciano la maglia un minuto dopo essere stati acquistati e la rinnegano, un minuto dopo essere stati ceduti e ipocritamente non esultano, se poi fanno il gol dell’ex, alla loro vecchia squadra. Il vecchio Filadelfia era uno stadio unico, oltrettutto di proprietà, grazie all’intuizione geniale ed innovativa per l’epoca, dell’allora presidente granata, il Conte Enrico Marone Cinzano, che nonostante sia stato per soli quattro anni al timone della Società, nella seconda parte degli anni venti, diede una svolta significativa, lasciando un segno indimenticabile nella storia del club. Oltre alla costruzione del Filadelfia, portò il Toro, per la prima volta, a vincere lo scudetto. La sua idea, quella di far arrivare la squadra granata ai vertici del calcio italiano, si realizzò, anche se furono necessari due anni per vincere il campionato.

    Il primo fu revocato ed ancora a distanza di oltre novant’anni, stiamo aspettando l’assegnazione di quello scudetto, per il caso Allemandi, il difensore bianconero e della Nazionale Campione del Mondo nel 1934, che fu la pietra dello scandalo e che nulla aveva a che vedere con la regolarità sia del risultato della partita incriminata, il derby della Mole, nella quale, il calciatore juventino, risultò tra i migliori in campo, come si evince da un trafiletto della Gazzetta dello Sport a firma Bruno Roghi che scriveva:«I torinesi lavorano a maglie fitte, ma Allemandi è imbattibile, interviene, è sicuro e potente», sia del campionato stesso. Fu un caso controverso, in un campionato con molte luci ed ombre, con arbitraggi ed episodi poco chiari. Il presidente della Federazione, il gerarca fascista Leandro Arpinati, fresco di elezione, soprattutto per motivi di opportunismo politico, non ritenne conveniente, assegnare il titolo al Bologna, che arrivò al secondo posto, nonostante ne fosse un acceso sostenitore, perché non voleva che i felsinei, vincessero lo scudetto a tavolino. Quindi fu lo scudetto di nessuno, in quanto nessuno potè beneficiarne. Al contrario di come fatto ai giorni nostri con calciopoli, quando per la revoca dello scudetto alla Juventus e la penalizzazione del Milan, lo stesso venne assegnato all’Inter, giunta terza in campionato, in quello che viene definito, lo scudetto di cartone e che secondo il mio modesto parere, i nerazzurri avrebbero dovuto rifiutare. Bisogna però considerare, senza falsi moralismi, che vincere uno scudetto in quel modo, era un’occasione ghiotta, che ingolosiva molto e credo che tante altre squadre, per non dire tutte, comprese Juventus e Milan, si sarebbero comportante come gli interisti. Per il Toro invece, furono i fatti in seguito, a smentire tutto quanto, ma il particolare momento storico ed i personaggi che lo frequentavano, alla fine costrinsero il Conte Marone Cinzano a farsi da parte, lasciando la presidenza della società granata, per la pressione esercitata anche dagli organi fascisti, che pensavano avesse idee, volte a contrastare quelle del Regime. Probabilmente, se fosse rimasto, con la sua visione moderna, nel vedere l’evoluzione del calcio, la striscia vincente, sarebbe potuta essere anche più lunga e ricca di successi, essendo per l’epoca, un presidente lungimirante, all’avanguardia, un pioniere, che apriva, con la costruzione dello stadio Filadelfia, nuove frontiere a questo gioco, che stava sempre di più appassionando, il popolo degli sportivi italiani e nella fattispecie, quelli granata.

    Un po’ come fece qualche anno, dopo nel 1929, Giorgio Ascarelli, imprenditore,dirigente sportivoitalianoed industriale tessile, che creò una formazione competitiva, al quale dovette però cambiare la denominazione da Internaples, per fondare nel 1926, il Napoli, tutto ciò, per via delle leggi emanate dalla Carta di Viareggio nello stesso anno. Questa Carta in pratica, riorganizzava il mondo del calcio italiano, con l’apertura al professionismo, passando per la gestione della compravendita dei calciatori, in quello che oggi chiamiamo calciomercato, alla ristrutturazione dei campionati, con la nascita dal campionato a girone unico nel 1929/30 e che proibiva, oltre all’ingaggio di calciatori stranieri,

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