La cucina romagnola di mamma Malvina
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Anteprima del libro
La cucina romagnola di mamma Malvina - Luciano Minghetti
LA CUCINA ROMAGNOLA
DI MAMMA MALVINA
Cinquantanove ricette per l’emigrante
in italiano
Prefazione
Questo piccolo-grande patrimonio dei mangiari che Mamma Malvina ha lasciato in eredità a Luciano, possiede il dono dell’autenticità. Il racconto dei piatti è semplice, essenziale, elegante, onesto e nel contempo autorevole ed espressione di materna sapienzialità.
Essendo datato, non risente, vivaddio, della invasiva e banale stupidità di tanti spadellamenti televisivi dei giorni nostri, né della insulsaggine di tanta imperante pubblicistica, divorata da massaie e consumatori frettolosi e superficiali; sia i primi che la seconda sono pervase da sottaciuti automatismi mercantili, da mercato globale
per capirci, che trita e distrugge tutto: cultura, identità e la memoria dei nostri territori.
Nelle pagine del testamento di Malvina, si respira l’allegra e pulita aria di famiglia e di un paesino romagnolo, la cui peculiarità è frutto dell’antica cultura della sopravvivenza, ormai lontana, che ha grandemente caratterizzato la vita di mamme e nonne, attraverso una cucina povera, intelligente, dignitosa di chi ha mangiato … la fame, superando le stagioni più difficili.
Le risorse predilette erano quelle del mondo contadino, delle campagne russiane: orti; frutti; erbe; animali dell’aia; rigaglie e frattaglie; i mangiari con i legumi dei lunghi inverni; le uova e le frittate con le erbette dei campi in primavera; il pane fatto in casa di una volta alla settimana; i ripetitivi mangiari dei giorni feriali dell’anno; i piatti della domenica; i dolci rituali, celebrativi di rari momenti di festa; i memorabili piatti e le specialità delle grandi feste familiari e dell’anno. A tutti Malvina riusciva a conferire un profilo accettabile e di notevole dignità gastronomica, grazie ad un’amorosa bravura: pensate vi sono persino la besciamella, le lasagne al forno, i passatelli in brodo, i cappelletti e i tortelloni, il bollito di manzo, le cotolette, gli involtini, il brodetto di pesce, il fritto misto di verdure, le medesime impanate, i carciofi ripieni, i fagiolini lessati con besciamella; e tanti fantasiosi dolci evoluti da laboratorio di forno o pasticceria di paese.
La lontananza dei mangiari della mamma (quella provvisoria, ma soprattutto quella che ti riserva l’esistenza) che, come diceva Tonino Guerra, rincorriamo tutta la vita perché ci venivano preparati con paziente amore e ci hanno fatto crescere e star bene per tanti anni; quella lontananza li ha fatti amare ancor di più e ha fatto emergere la necessità del cuore e della mente di fissare ed evocare quei mangiari in un quadernetto, per portarli con sé, come spiega Luciano nella sua introduzione, celebrandoli altresì come una suggestiva e privilegiata testimonianza di cibo, guarda caso fedele sia alla tradizione familiare che all’identità romagnola che appartiene a tutti i conterranei.
Graziano Pozzetto
Introduzione
Si tratta di una raccolta minima, essenziale, di ricette semplici, non troppo impegnative, di cucina romagnola, praticabili da tutti con un minimo di buona volontà, che mi feci dettare da mia madre prima di recarmi in Giappone, nel 1978.
È un doveroso omaggio a lei, Malvina, figlia di una bracciante e di un garzone di campagna, la maggiore di quattro fratelli, che ha vissuto la fame e la miseria con molta dignità, una precaria nel lavoro per tutta la vita, un’esperta tessitrice, un’operaia e una cuoca, semplice, poco incline alle contaminazioni moderne, una donna che ha dato l’anima per la sua famiglia e ha allevato i suoi figli a suon di tagliatelle al ragù, stufati, frittate, coniglio arrosto, pollo alla cacciatora, polpette con patate fritte, verdure cotte e preparate in giardiniera, cipolline sott’olio, succhi di frutta, marmellate, crostate, tutto rigorosamente fatto in casa
, con le sue mani robuste, da grande instancabile lavoratrice.
Terminata la 4ª elementare (dato il grave analfabetismo dell’epoca il suo era già un piccolo traguardo) venne mandata a servizio presso la casa di Livio ‘d Frazchinè, un commerciante di vini ed altri prodotti. Dalla donna di casa, Gilda mi pare si chiamasse (credo fosse la zia di Tino Babini), ebbe modo di apprendere e praticare la cucina tradizionale e, dati i tempi difficili per tutti, imparò anche l’arte dell’arrangiare qualche piatto con le rimanenze di cibo dei pasti precedenti non potendo talvolta ricorrere a materie prime, peraltro non sempre disponibili.
Dopo il matrimonio, la cucina di mia madre incrociò quella di nonna Elvira che ricordo densa di sapori e profumi dell’orto. Paste asciutte condite con soffritto di cipolla e pomodoro, più raramente con ragù di carne; stufatini di ogni genere con molte patate, poca carne e sugo in abbondanza per intingere il pane che a quei tempi veniva prodotto una volta alla settimana, conservato nel tracantó (mobile a tre lati posizionato nell’angolo libero della stanza) e razionato giornalmente da mia nonna per farlo bastare per sette giorni; poche verdure, se non quelle di stagione, in particolare ricordo zucchine, melanzane e, soprattutto, pomodori; patate a volontà, servite fritte o lessate; poca frutta, uva e prugne in particolare, spesso spigolate nei campi col permesso del contadino; dolci rigorosamente solo nelle occasioni celebrative (carnevale, Pasqua, Natale, compleanni, ecc.).
Ci fu poi un breve periodo in cui mia madre lavorò presso la ditta Antonelli che predisponeva i polli per la vendita; parte dello scarto di lavorazione veniva portato a casa, a turno, dalle lavoranti; ricordo in particolare le budella di pollo che mia madre affidava, come trofeo di guerra, a mia nonna che procedeva subito (il frigorifero a quei tempi non esisteva in casa nostra, come in quasi tutte le case) ad una lunga ed attenta pulizia, lavandole e rilavandole, in una bacinella d’acqua, rigirandole una alla volta con l’aiuto di un fuso che si usava per filare, risciacquandole a lungo infine in acqua fresca corrente tirata su dal pozzo artesiano azionando a mano la leva sagomata di una grossa pompa di ghisa. Nonna Elvira preparava poi uno stufatone di budella, patate e pomodoro fresco o conserva, a dir poco invitante (il compianto Tino Babini di Russi mi ha spesso ricordato che, nelle tavole dei poveri, la fame sostituiva l’antipasto!), un piatto entusiasmante, ricco e succulento che ci propinava per due o anche tre giorni consecutivi. A proposito di nonna Elvira (donna assai energica e radicale nelle sue idee ma di animo nobilissimo), mia madre mi ha raccontato in più di un’occasione un episodio che si ripeteva frequentemente:
«Da mangiare ce n’era poco per tutti e io, che tornavo dal lavoro affamatissima, sentivo nonna Elvira che chiamava a gran voce le ragazzette vicine di casa: Maria, Silvana, venite che è pronto da mangiare!
. Io mi arrabbiavo moltissimo: È già poca per noi
, esclamavo irritata. Perché loro ne hanno meno di noi!
, era la risposta di nonna Elvira».
Così si viveva un tempo, quando il canto del gallo o l’abbaiare del cane del vicino ti facevano compagnia. C’era allora più solidarietà fra le persone e le famiglie di quanto non ne avrebbe portato il boom economico degli anni ’60-‘70. Non lo dico per nostalgia del tempo che fu, ma come semplice constatazione. Come è possibile che il benessere economico abbia potuto consumare le buone abitudini del passato?
A mia madre e a mio padre ne ho fatte passare di tutti i colori. Prima con la contestazione politica giovanile, poi con la militanza sindacale, e infine con l’abbandono del posto di lavoro sicuro
per proseguire gli studi all’università; secondo loro non ne facevo una per il verso giusto perché ciò che avrei voluto fare contravveniva spesso alla regola del che cosa dirà la gente.
A ben pensarci, non mi sono quasi mai piegato a quella logica, se non per gli aspetti della buona educazione e del vivere civile. Per il resto, la gente se ne sarebbe fatta una ragione!
Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quando decisi di trascorrere un anno in Giappone, per completare gli studi: quella volta scoppiò il finimondo. A mitigare la situazione intervennero due circostanze. La prima: avevo trovato una ditta presso la quale sarei potuto andare a lavorare quando avessi voluto; la seconda: ancora più rassicurante fu la decisione di sposare Roberta e di partire assieme, come fosse stato un viaggio di nozze un po’ più lungo del solito.
Però, un anno intero senza la cucina alla quale ero abituato da oltre venticinque anni e l’incognita del cibo giapponese mi creavano qualche ansietà. Mi venne così l’idea di chiedere a mia madre di dettarmi alcune sue ricette che potessero essere praticabili in Giappone, pur in una situazione arrangiata, dunque non troppo complicate ed elaborate dal punto di vista della preparazione, della disponibilità delle materie prime e delle attrezzature necessarie. Comprai un block notes (lo conservo gelosamente, con le pagine ingiallite) e scrivendone alcune ogni sera arrivai a 59 ricette. Lei, Malvina, poveretta, me le dettava angosciata e ogni tanto si metteva a piangere disperatamente.
«Perché piangi, cosa c’è?», le chiedevo. «C’è che se mi chiedi le ricette vuol dire che non torni più a casa da quel maledetto posto così lontano», rispondeva lei, soffiandosi il naso con il fazzoletto.
Io cercavo, invano, di rassicurarla. Ci riusciva solo mio padre Leo, al ritorno dalla consueta serale partita a carte nel circolo repubblicano. Lui non sembrava disperato; aveva frequentato l’Avviamento Professionale di Russi e aveva maturato uno spirito moderno, di grande interesse verso la scienza e la meccanica in particolare (con gli amici amichevolmente sfoggiava la conoscenza di alcuni termini tecnici meccanici anche in francese!).
Mi dava l’impressione di condividere (non apertamente per non aggravare lo stato di angoscia di mia madre), il mio spirito di curiosità che, come avevo cercato di spiegargli, non nasceva dal sogno di un’avventura, ma da una scelta che avrebbe dovuto servire per migliorare le mie opportunità di lavoro. Stavo facendo quello che lui non era riuscito a fare (almeno così ho sempre creduto, anche se non ne abbiamo mai parlato, del resto, non lo avrebbe mai confessato apertamente); forse per questo, non ha mai contrastato questa mia scelta che oltretutto incideva non poco sul bilancio familiare.
Durante l’anno vissuto in Giappone con Roberta, mia madre ogni tanto mi telefonava: sentirsi al telefono, da distanze così lontane, alleviava la sua disperazione per un figlio emigrato; ogni mese mi spediva un pacco viveri (come del resto aveva fatto durante i 15 mesi del servizio militare), per la paura che mi mancasse qualcosa: parmigiano, prosciutto, biscotti, crostate e altre cose fatte da lei.
Il block notes con le ricette di cucina non riuscimmo ad utilizzarlo se non nelle rare occasioni in cui avemmo degli ospiti in casa.
Servì invece a Roberta che, per sopravvivere in quella situazione difficile, organizzò lezioni di cucina italiana per i giapponesi.
Dopo 12 mesi, alla stazione ferroviaria di Russi, quando mi vide magro fino all’osso (pesavo appena 55 chili!) si rimise a piangere: «E mi tabach! Com a t’àj ardót! In t’à dè gnit da magné, par furtóna che a t’ó mandè caicvél me!»
(Figlio mio! Come ti hanno ridotto! Non ti hanno dato niente da mangiare, per fortuna ti ho spedito qualcosa io!).
Ci riabbracciammo tutti quel giorno e ricordo che fu una festa talmente grande che la posso confrontare solamente con quella che si fece il giorno in cui tornammo a casa dal Perù con Alberto.
Il ritorno all’antica cucina della Malvina mi fece rapidamente riprendere il peso forma e ricordo che, pur con alcune varianti più espressamente moderne (tra cui l’uso della pentola a pressione), la sua cucina è rimasta tale e quale fino ad una settimana prima di partire,