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La preda magnifica
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E-book332 pagine3 ore

La preda magnifica

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Info su questo ebook

Una storia di passione sfrenata e sanguinosa vendetta, nell'Italia del XVIII Secolo.
"Ombre Rosa" è una collana e insieme un viaggio alla riscoperta di un'intera generazione di scrittrici italiane che, tra gli anni Settanta e gli anni Duemila, hanno posto le basi del romanzo rosa italiano contemporaneo. In un'era in cui finalmente si colgono i primi segnali di un processo di legittimazione di un genere letterario svalutato in passato da forti pregiudizi di genere, lo scopo della collana è quello di volgere indietro lo sguardo all'opera di quelle protagoniste nell'ombra che, sole, hanno reso possibile arrivare fino a questo punto, ridando vita alle loro più belle storie d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2024
ISBN9788727061153
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    Anteprima del libro

    La preda magnifica - Roberta Ciuffi

    Roberta Ciuffi

    La preda magnifica

    SAGA Egmont

    La preda magnifica

    Cover image: MidJourney

    Copyright ©2007, 2024 Roberta Ciuffi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727061153 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Marche, Stati della Chiesa, 1765 

    «Perché continui a guardare quella stoffa?» chiese Costanza, volgendo lo sguardo dalla pezza color bronzo alla piazza affollata del mercato. «Sei in lutto, sai bene che non potrai indossarla per un altro anno ancora. Certe volte non so proprio cosa tu abbia nella testa.»

    La stoffa era una meravigliosa pezza di raso in seta, dell'identico colore degli occhi di Felicita. O almeno, così sembrava a lei, che non riusciva a smettere di accarezzare il lucido tessuto esposto sul banco della merciaia. Se fosse stato di lunghezza sufficiente, ne sarebbe potuto venire un bellissimo abito. Molto scollato, per permettere il traboccare dei pizzi dorati dell'ultima sottoveste che aveva acquistato prima della morte del povero Federico, e con un piccolo strascico appena accennato.

    Nella mano livida dal freddo, la stoffa produceva un fruscio simile a quello delle foglie dell'olmo le cui fronde sfioravano la finestra della sua camera da letto.

    Felicita sospirò dal desiderio.

    Avrebbe di buon grado commesso un peccato, un crimine, o comunque un'infrazione alle convenienze sociali, pur di possederla. Purtroppo non aveva denaro e la partenza di suo fratello l'aveva lasciata in balia della sorella maggiore e del suo taccagno cognato. Con un secondo sospiro, si staccò dalla bancarella.

    La merciaia, afferrando la pezza per ripiegarla, le lanciò uno sguardo di muta solidarietà.

    Costanza si era già allontanata e, stretta nel suo mantello come in una corazza, percorreva la fila di banchi gettando occhiate sdegnose su questa e quella merce. Ogni tratto del volto spigoloso rivelava che nulla di quel che vedeva incontrava il suo gusto. Tutto era troppo scadente o troppo caro, o inutilmente vistoso. Perfino gli uomini che si toglievano il cappello di fronte a lei, o le donne che accennavano un inchino, avrebbero dovuto astenersi dal consumare la medesima aria che lei respirava.

    La piazza era gremita degli abitanti della cittadina e delle frazioni vicine, accorsi per il giorno di mercato. Nel tentativo di farsi largo per esaminare le merci, i clienti si sfioravano, si spintonavano, ostacolandosi reciprocamente, dando luogo a litigi come a occasionali scoppi di risa. Al passaggio della signora Rastelli, però, la folla recedeva, lasciando un'area vuota che lei percorreva con il naso in aria e lo sguardo fisso avanti, altezzosa come un principe medievale certo del suo diritto di libero passo.

    O come un lebbroso munito di campanella, pensò Felicita, provando un moto di rivolta. Si girò di scatto verso la proprietaria del banco.

    «Ascoltate» disse in fretta. «Se nessun altro ve lo chiede, potreste tenermi quel raso fino al ritorno di mio fratello?»

    Mentre parlava, si accorse di arrossire. Se Costanza l'avesse udita! Lei, la sorella minore del marchese Bencivoglio, vedova recente e imparentata con Ettore Rastelli, suo marito, il maggior possidente locale, chiedere un favore a una venditrice di piazza! Il cuore le batteva come se davvero stesse commettendo un crimine.

    La donna di fronte a lei, infagottata in uno scialle riavvolto almeno tre volte attorno al corpo, aprì la bocca in un gran sorriso, che rivelò una dentatura annerita e rada.

    «Non vi preoccupate, marchesina. Ve lo faccio consegnare al Castello da mio figlio, senza che quella se n'accorge.» Unendo le labbra, produsse una piccola esplosione in direzione della figura imponente della signora Rastelli, ormai dall'altra parte della piazza semicircolare. «Me lo pagate quando torna il marchese.»

    Felicita non poté trattenersi dal ridere. Con un cenno di ringraziamento, si affrettò sulle tracce della sorella. Era assieme esilarata e vergognosa per quel che aveva appena fatto. Esilarata per essere riuscita a svincolarsi dalle strette maglie del moralismo di Costanza e vergognosa per trovarsi ancora nella necessità di farlo, alla sua età.

    Se solo Federico non fosse morto tanto presto. Se solo, nei pochi anni del loro matrimonio, non fossero stati tanto scriteriati e privi di buonsenso. E se i suoi suoceri avessero mostrato un po' più di comprensione, integrando la sua misera rendita almeno per amore delle nipotine!

    Sospirò di nuovo, superando una dopo l'altra le bancarelle del mercato con la testa girata in modo da evitare la vista delle merci e altre tentazioni. Quanto le sarebbe piaciuto poter spendere con larghezza, come una volta, all'inizio del suo matrimonio! Provava una terribile nostalgia di quegli anni disinvolti e allegri, privi di preoccupazioni.

    Una nostalgia più intensa, doveva ammetterlo, di quella che provava per suo marito.

    Il prossimo trimestre avrebbe dovuto essere più accorta e usare maggior discernimento nell'amministrare la sua rendita. Ma le bambine avevano bisogno di scarpe e, con l'inverno alle porte, non c'era stato modo di posporre l'acquisto.

    «Allora, hai finito di sognare?» l'accolse la sorella, fissando con ostilità le sue guance rosee. Era davvero irritante che né sole né gelo potessero modificare quella splendida carnagione di pesca. «Quando ti deciderai a crescere?»

    «Ritengo di essere cresciuta abbastanza» rispose lei dondolando allegramente la testa, come per sottolineare la distanza che la separava da quella della sorella. «Già così, in tutto il paese non c'è un uomo che possa guardarmi negli occhi.»

    L'altra inalberò il naso lungo e perfettamente triangolare, che Felicita definiva a vela latina. «Io non me ne vanterei, se fossi in te. Gli uomini non amano le donne alte.»

    Oh, le amano, le amano, pensò lei con ironia. A ogni modo, era troppo presto per pensare agli uomini. Doveva ancora scontare quasi dodici mesi di lutto.

    Una folata di vento gelido investì la piazza, strapazzando i mantelli dei passanti, facendo tintinnare le conche appese al banco del ramaio e trascinando rotoli di nastri sull'acciottolato. Per un istante tutti si immobilizzarono, occhi e labbra strette, corpi rigidi per contrastare la forza del vento.

    «L'inverno è proprio arrivato» gridò un gentiluomo grasso, agitando il tricorno di cui era appena tornato in possesso. Le sue gambe magre ponevano in ridicola evidenza la sporgenza del ventre, ma l'espressione del viso rivelava una tale bonomia che Felicita gli sorrise di rimando.

    «Hai visto?» fece con soddisfazione. «Al notaio Leccesi piaccio.»

    Era contenta di avere ancora tre abiti invernali imbottiti di pelliccia. Aveva dimenticato quanto potesse far freddo, alla Rocca, e la furia del vento, che una volta la esaltava, adesso la spaventava un po'. Doveva comprare dei vestiti caldi per le bambine. Maria Vergine, crescevano come spighe. Ormai gli indumenti dell'anno precedente erano completamente inutilizzabili.

    Abituati all'inclemenza del clima, i paesani ripresero ad affollarsi davanti alle bancarelle. Era giorno di mercato, un'occasione che non si sarebbe ripetuta per altri quindici giorni. Ci voleva altro che un po' di vento gelido per distoglierli dagli acquisti.

    «Hai trovato quel che cercavi?» chiese Felicita, lanciando un'occhiata al banco della merceria per controllare se la pezza di raso si trovasse ancora là. Non rammentava per quale motivo quella mattina la sorella avesse deciso di affrontare la piazza affollata.

    «Non ho trovato proprio niente» replicò l'altra, tirando su col naso. «Com'era prevedibile. La tela da lenzuola ha raggiunto dei prezzi indecorosi, neppure fosse intessuta d'oro.»

    Questo significava che la loro lisa biancheria da notte avrebbe visto la rifiorita di svariate pezze di rinforzo multicolori. Oh, beh, almeno quella non c'era nessuno che potesse vederla. Non come quegli orrendi rammendi che la sorella esibiva sulla sua biancheria personale. E dire che Ettore aveva tanti di quei soldi che avrebbe potuto farcisi seppellire… il che era probabilmente proprio quello che avrebbe finito per fare.

    Forse poteva vendere gli orecchini di diamanti, pensò Felicita pigramente. Le bambine avevano più bisogno di vestiti che lei di gioielli e poi le sarebbe rimasto abbastanza denaro per pagare la pezza di raso. A quella, ora, non avrebbe rinunciato per niente al mondo. Chissà se aveva scarpini ancora in buono stato per accompagnare l'abito che vi avrebbe ricavato, tra…

    Buon Dio, un anno!

    Emise un piccolo sbuffo tra le labbra, che però le attirò l'attenzione della sorella.

    «Insomma, Felicita, smettila! Sospiri quanto un'ebrea!»

    «Forse perché ne ho altrettanti motivi» si lagnò, d'un tratto di malumore.

    Oh, i bei tempi dei balli e delle partite a carte! Dei lievi corteggiamenti e delle passeggiate in barca… Sarebbero mai tornati? Ne dubitava. Per lei, ormai, il tempo della gioventù era trascorso. Quando si fosse risposata – com'era inevitabile ‒ avrebbe dovuto tenere in conto ben altre cose che il proprio divertimento. Aveva due figlie, adesso, due bambine che necessitavano della mano ferma di un uomo dabbene… come lei.

    Si conosceva abbastanza per sapere che, da sola, o anche accompagnata a qualcuno sul genere del suo precedente marito, avrebbe finito per ricadere nelle follie del passato. E non doveva, non doveva assolutamente.

    Ma era proprio un gran peccato!

    Chinò il capo, seguendo la sorella attraverso la folla che si apriva al loro passaggio come se temesse di contagiarsi. Un grido la scosse, facendola girare in direzione di Porta Roma. Altri la imitarono, fermandosi di botto e allungando il collo per scoprire cosa stesse succedendo. Una venditrice ambulante con un voluminoso cesto sulla testa bloccò la marcia di Costanza, costringendola a fermarsi.

    «Sarà una rissa» disse quella, girandosi verso la sorella minore. «Meglio che ci affrettiamo.»

    Ma d'improvviso camminare era divenuto impossibile. La folla, prima sparsa per tutta la piazza, era venuta addensandosi sui lati, sgombrando il centro.

    «L'uomo bestia, l'uomo bestia!» gridò una voce di ragazzo, terminando in una risata stridula.

    «Vergine del cielo com'è brutto!»

    «Di chi stanno parlando?» chiese Felicita, rivolta alla sua vicina, una popolana con un bambino in braccio e due attaccati alle gonne scure: una vedova anche lei, si sarebbe detto.

    La donna rispose senza guardarla, fissando gli occhi colmi di avida curiosità sul centro della piazza. «Ieri Rodolfo, il taglialegna, ha visto uno straniero nei boschi. Ha detto che sembrava una scimmia, mezzo uomo e mezzo bestia.»

    «Che domineddio ci protegga» borbottò Costanza, facendosi il segno della croce. «Questa deve essere opera del demonio.»

    «Eccolo, eccolo!»

    Felicita traballò, sotto la spinta di decine di persone che cercavano di farsi avanti per ammirare il prodigio. Per recuperare l'equilibrio, compì qualche passo precipitoso. La punta di uno dei suoi stivaletti andò a infilarsi nell'orlo della lunga gonna. Con un senso di vertigine, comprese di essere sul punto di cadere. E fu così che si ritrovò per la prima volta a posare gli occhi sul selvaggio uomo dei boschi. O meglio, a crollare ai suoi piedi come una ridicola pupattola di stracci.

    «Oh, per la miseria» borbottò, atterrando sull'acciottolato. Un suono lacerante l'avvertì che l'orlo della gonna si stava strappando, là dove si era incuneato lo stivaletto. Ci mancava solo quello…

    Era così seccata, che quasi non badò alle mani maschili che stavano tentando di aiutarla a rialzarsi, finché un boato d'orrore non la costrinse a sollevare la testa.

    «Lascia stare la signora, animale!»

    Qualcuno si pose con violenza tra lei e l'uomo che la sorreggeva, con l'effetto di farla piombare di nuovo per terra. La folla la circondò, premendo ai lati, impedendole la vista di quanto stava avvenendo.

    «Insomma, volete darmi una mano?» gridò, allungando le braccia. Di colpo si ritrovò in piedi, spinta come da un'ondata di marea, con il mantello rovesciato di lato e il cappello fuori posto.

    Un volto d'uomo anziano la ispezionò ansiosamente. «Le ha fatto del male? L'ha morsa?»

    «Chi avrebbe dovuto mordermi?»

    «Quell'uomo selvaggio l'aveva afferrata. Ma siamo riusciti a salvarla, ha visto?»

    «Sì, come no, mi avete salvato proprio bene» replicò irritata, tentando di sistemarsi il cappello. Scrollò vivacemente le spalle, per costringere gli altri ad allontanarsi e farla respirare. «Allora, dove sarebbe questo figuro?» chiese.

    «Eccolo, signora!» gridò un ragazzo, trionfante, accaldato. «L'abbiamo immobilizzato.»

    Ai suoi piedi, ginocchioni, giaceva un uomo. Gli tenevano strette le braccia dietro la schiena curva, che sussultava come quella di un animale terrorizzato.

    «Beh, non mi sembra tanto tremendo» mormorò Felicita, a disagio. Era solo un uomo, dopotutto, e nessuno avrebbe potuto negarlo. Avanzò di qualche passo, incuriosita.

    «Attenta, signora, può essere pericoloso!»

    «A me sembra che l'abbiate reso inoffensivo.»

    A breve distanza, dal corpo dello sconosciuto emanava un tanfo di sporcizia e malattia. Lei strabuzzò gli occhi, resistendo alla tentazione di allontanarsi di corsa, perché non capitava di frequente, dopo tutto, di incontrare un uomo selvaggio.

    I lunghi capelli di costui erano incrostati di sporcizia e di quello che sembrava sangue secco. Anche la camicia era macchiata di sangue e così i piedi nudi, lividi e gonfi di vesciche.

    Il cuore di Felicita si strinse di compassione.

    «Poveretto. Che ne farete, adesso?»

    Questo provocò un po' di sconcerto, perché nessuno vi aveva pensato. «Potremmo buttarlo in carcere» disse uno, alludendo alla cella annessa al palazzo comunale, in genere inutilizzata.

    «E poi, chi gli baderebbe? No, la cosa migliore sarebbe portarlo fuori del paese, metterlo sulla strada e lasciarlo lì.»

    «Come un cane randagio» approvò qualcuno.

    «E se attaccasse qualche donna sola? Avete visto cosa ha fatto alla marchesina, no?»

    Il quesito generò un subbuglio che poteva facilmente sfociare in qualche gesto di violenza. Gli uomini che tenevano imprigionato lo sconosciuto lo strattonarono, spingendogli le braccia verso l'alto come per somministrargli un tratto di corda, facendolo gridare di rabbia e dolore.

    «Fermi, cosa fate?» Incapace di sopportare quella vista, Felicita si spinse ancora più avanti.

    «Vieni via, pazza!»

    Fattasi largo tra la folla, Costanza l'aveva afferrata per un braccio e tentava di allontanarla. Se ne liberò con uno scrollone che fece precipitare la sorella addosso al signore anziano che aveva collaborato alla sua liberazione.

    «Non fategli del male» disse. «Non vi ha fatto niente.»

    Tutto il suo corpo era invaso dal dolore. Delle fitte atroci gli trapassavano il costato, come se qualcuno l'avesse accoltellato. La sua pelle bruciava e in qualche punto nascosto c'era qualcosa che pulsava, scatenando ondate di sofferenza che si alternavano a brevi istanti di tregua. Aveva l'impressione che la febbre gli avrebbe fatto esplodere gli occhi dalla testa. Mosse la lingua ma si rese conto di non riuscire a parlare. E tuttavia, quando le ondate passavano, comprendeva le parole che gli sconosciuti si stavano scambiando, sebbene i suoni non fossero proprio come avrebbero dovuto… qualunque cosa questo significasse.

    Gli sconosciuti gli avevano fatto male e gliene avrebbero fatto ancora, questo riusciva a capirlo. Pensavano che lui fosse pericoloso. Potendo, avrebbe riso. L'unica cosa che si sentiva in grado di fare, era buttarsi su quella pavimentazione di ciottoli aguzzi e lasciarsi morire, finalmente in pace. Tutto quel che voleva era che il dolore avesse termine.

    «Pazza, vieni via!»

    La voce della donna, più furiosa che spaventata, gli fece aprire gli occhi. Gli erano ancora tutti attorno, formando una barriera difensiva contro l'orrore che lui era diventato.

    «Non fategli del male. Non vi ha fatto niente.»

    Rovesciò la testa, cercando di scorgere, al di là di quelli che lo circondavano, la provenienza delle prime parole gentili che rammentasse di aver udito. La luce gli ferì gli occhi, facendolo mugolare dal dolore. Dovette impedirsi di raggomitolarsi su se stesso per proteggersi da quell'assalto. Si agitò e questo convinse coloro che lo imprigionavano a somministrargli un altro strappo alle braccia. Stavolta urlò.

    «Basta, basta!»

    La donna era così vicina che ne sentiva il profumo. Odorava della lavanda che di certo riponeva nei suoi cassetti, e di violetta, e di pulito. L'avvolgeva un'aura di calore e di buono, che gli straziò il petto dal rimpianto e gli fece scorrere le lacrime sulle guance. Si protese in avanti, tentando di alzarsi per guardarla, ma non fu necessario: lei si era inchinata su di lui e cercava i suoi occhi. Aveva un'espressione ansiosa sul volto rosato, e i suoi capelli erano neri e ricciuti, mezzo sciolti. Per un istante questo fu tutto quanto riuscì a vedere. Poi notò una bocca rossa che si muoveva, formando parole.

    Cercò lui stesso di dire qualcosa, qualunque cosa potesse indurre quella creatura gentile ad aiutarlo, anche se sapeva di non meritare alcun aiuto al mondo. Ma dalla sua bocca uscì solo un mugolio incomprensibile.

    «È l'uomo lupo!» gridò qualcuno, mentre attorno la gente riprendeva a agitarsi.

    Spaventato che lei fuggisse, sbarrò le palpebre per attirare la sua attenzione. Aiutami! gridava il suo sguardo. Te ne prego. Te ne supplico.

    In quel momento non aveva neppure consapevolezza di chi fosse, ma sapeva, chissà come, che stava formulando quella richiesta per la prima volta nella sua vita.

    L'uomo aveva un aspetto davvero spaventoso. Rassicurata dal numero di persone che lo tenevano stretto, Felicita si abbassò per guardarlo in volto. Era difficile farsi un'idea dei suoi lineamenti, conciati com'erano di sporcizia e tumefatti. Tuttavia si rese conto che nulla nel suo abbigliamento induceva a pensare che avesse trascorso la vita tra i boschi. Non aveva scarpe né calze, ma i calzoni e la camicia, sebbene sudici e stracciati, sembravano di buona fattura. E lei era ben in grado in riconoscere un indumento maschile di qualità. Esitò, oscillando tra l'istinto di fuggire via e la curiosità che la spingeva a trattenersi.

    Lui la stava fissando con un'espressione che, per quanto rammentasse, nessuno le aveva mai rivolto: di angoscia mista a supplica, come se chiedesse aiuto e assieme disperasse di riceverne. Neppure le sue figlie neonate le erano mai apparse tanto indifese. Le sue iridi erano azzurre, tra le sclere arrossate. La barba rossiccia che gli ricopriva le guance era ispida ma sembrava priva di parassiti, come pure i capelli. No, non era un uomo dei boschi. Ma fu l'incerto tentativo di sorriso che si stava aprendo su quel volto devastato a convincerla. L'uomo aveva i denti più belli e sani che avesse mai veduto e non credeva proprio che intendesse usarli per morderla.

    «Smettete di tormentare questo poveretto» ordinò, in tono autoritario. «Non ha fatto del male a nessuno, a quanto mi risulta.»

    «È pericoloso!» replicarono più persone, scandalizzate.

    «Io non me ne sono accorta.» Tornò a sistemare il cappello, notando per la prima volta che la sua pettinatura era crollata, incorniciandole il volto di una sorta di covone sfasciato di riccioli neri. «Oh santa vergine» sbuffò. Poi, rivolta agli uomini: «Prendete questo disgraziato e portatelo al Castello. Non vedete che è malato? Ha la febbre alta, ed è ferito. Ha bisogno di cure».

    Scoppiò un coro d'unanime sdegno e riprovazione. La signora doveva essere pazza, o sconsiderata, questa era l'opinione comune. Questa era l'opinione anche di Costanza, che, ripresasi, si aggrappò con le mani al braccio della sorella, scuotendola.

    «Come ti viene in mente, quell'essere, al Castello, con i tuoi figli, con i MIEI figli!»

    «Oh, insomma, Costanza, smettila!» replicò Felicita, liberandosi della stretta senza difficoltà. Era talmente irritata con tutta quella gente stupida che si sentiva in animo di sfidare il mondo, le convenzioni e addirittura l'autorità costituita. Figurarsi sua sorella. «Dov'è finita la tua carità cristiana? Non ricordi l'insegnamento di Nostro Signore?» l'arringò severamente.

    «Signora bella, la carità è per gli esseri umani, non per le bestie!» urlò qualcuno di rimando.

    «Non dite sciocchezze. Questo è un essere umano come voi, solo molto malato. Non vi viene in mente che potrebbe essere stato assalito dai briganti? Non vedete quanto sangue ha perso? Ma cosa avete nel cuore, vento di tramontana?»

    La voce irritata della signora zittì ogni altra, nella piazza. A guardarlo bene, in effetti, lo straniero non sembrava poi così animalesco. E i panni che vestiva non erano certo pelli d'animale ma avevano tutta l'aria d'essere frutto delle mani di un sarto. Sentendo che il favore della folla oscillava e presto non sarebbe più stato con loro, gli uomini che lo trattenevano si ritrassero, lasciandolo andare.

    Le braccia dello sconosciuto crollarono sull'acciottolato, come se avesse perso la capacità di controllarle. Al pensiero della sua sofferenza, Felicita avvertì una morsa nel petto.

    «Avanti, aiutatelo ad alzarsi» ordinò, ravviandosi i riccioli dietro le orecchie. Avrebbe voluto mostrare un aspetto più maestoso, in quel momento in cui tutti pendevano dalle sue labbra, e invece somigliava probabilmente a una servetta che avesse appena intrattenuto il suo amante. «Al Castello avremo cura di lui.»

    «Manderò a chiamare il dottor Zacchei» disse il signore anziano che poco prima si era gloriato di averla salvata. Ora appariva piuttosto imbarazzato.

    «Sì, chiamatelo» rispose con studiata indifferenza, ma finendo per arrossire miseramente, come le capitava sempre quando si nominava il dottore.

    «No, no e no! Tu non commetterai questa follia!»

    Le proteste di Costanza caddero nel vuoto: sembrava che d'improvviso nessuno le badasse più, quasi fosse diventata invisibile. Gli uomini che poco prima lo avevano tormentato, aiutarono lo straniero ad alzarsi. Quando fu in piedi, ci si rese conto che non ce l'avrebbe fatta a camminare da solo, così lo sorressero per le braccia. Ma le sue gambe tremavano talmente che furono costretti a sollevarlo e trasportarlo, quasi fosse già il cadavere che con tutta probabilità sarebbe divenuto ben presto.

    «Sei una pazza scriteriata» sibilò Costanza alla sorella. Era furibonda. Vedeva bene che non poteva mettersi contro l'intera città, soprattutto se era in gioco la sua reputazione di donna caritatevole e devota.

    «No, sono solo una buona cristiana» replicò l'altra virtuosamente, soddisfatta di avere, per una volta, gli argomenti per sconfiggere quella madonna infilzata.

    «Davvero? E l'assisterai tu, quel… quell'animale pervertito?»

    Felicita si bloccò, quasi inciampando di nuovo nel vestito. «Io?» chiese, sbalordita. «Perché dovrei farlo io? Ci sono i domestici…»

    «Ah no, mia cara!» Costanza l'azzittì, trionfante. «Visto che ti sei presa questa bega, adesso te la sbrogli da sola. Io non permetterò che nessun domestico si avvicini a quell'essere, ci siamo intese? A quel punto la vedremo, quanto vale la tua carità.»

    Seguendola mogia verso casa, Felicita fu colta dal dubbio che la sua vittoria le sarebbe costata più di quanto fosse disposta a pagare.

    La torre circolare, costruita allo scopo di difendere per conto dell'imperatore un territorio per la maggior parte spopolato, risaliva al nono secolo e costituiva il nucleo di Castello Bencivoglio. A ridosso di quella fortezza originaria erano stati aggiunti vari fabbricati più adatti a fungere da abitazione e una cinta muraria tanto vasta da consentire anche alla popolazione odierna del paese di rifugiarvisi all'interno, in caso di bisogno.

    Sebbene mostrassero ormai scarsa somiglianza con i bellicosi antenati che avevano fornito truppe al soldo dell'Impero, e sebbene l'aspetto diruto della cinta rispecchiasse le condizioni delle loro attuali finanze, i Bencivoglio continuavano a essere la famiglia più in vista del luogo e il Castello il loro punto di forza.

    Gli abitanti del paese che per qualunque motivo venissero invitati a varcarne il cancello, si sentivano insigniti di un onore che non avrebbero mancato di vantare presso i loro compaesani. E questo benché fosse accaduto spesso che i marchesi non avessero di che pagare i loro conti

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