Un nome dal passato
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"Ombre Rosa" è una collana e insieme un viaggio alla riscoperta di un'intera generazione di scrittrici italiane che, tra gli anni Settanta e gli anni Duemila, hanno posto le basi del romanzo rosa italiano contemporaneo. In un'era in cui finalmente si colgono i primi segnali di un processo di legittimazione di un genere letterario svalutato in passato da forti pregiudizi di genere, lo scopo della collana è quello di volgere indietro lo sguardo all'opera di quelle protagoniste nell'ombra che, sole, hanno reso possibile arrivare fino a questo punto, ridando vita alle loro più belle storie d'amore.
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Anteprima del libro
Un nome dal passato - Maria Masella
Un nome dal passato
Cover image: MidJourney
Copyright ©2012, 2024 Maria Masella and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788727148274
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
1
Genova
1869
Era inverno. Sul selciato c’era ancora qualche pozzanghera lasciata dalla pioggia del giorno precedente. L’aria sapeva di mare perché il vento tirava da scirocco.
A molti avrebbe dato noia, ma a Marco piaceva la sua città anche nei giorni di mezza luce, ora scuri di nuvole basse, ora con lame di luce che brillavano sull’ardesia dei tetti.
Genova diventava una sinfonia di grigi.
Qualcuno trovava banale, se non addirittura triste, quel colore che per Marco era invece intrigante, misterioso.
Lei aveva gli occhi grigi ne era certo, pur non essendo riuscito a vederla da vicino!
Erano grigi e cangianti come cielo e mare in burrasca.
Non era solo per quegli occhi misteriosi che si stava trattenendo in città più del previsto, ma anche per i bei capelli ramati e il personale elegante.
Aveva una bocca che invitava ai baci.
Non indossava l’abito più alla moda e neppure era adorna di gioielli, eppure, appena Marco era entrato nel salone da ballo degli Spinola, ne era stato subito attratto.
Era accaduto tre sere prima, ma l’emozione non si era ancora smorzata.
Aveva cercato di contrastarla, dicendosi che era una sciocchezza, che lui non era più un ragazzetto da farsi abbagliare da un bel faccino. Sapeva anche di doversi tenere alla larga da una passione amorosa, perché aveva già abbastanza problemi; l’amore, corrisposto o no, gli avrebbe impedito di restare lucido e calmo, come invece doveva.
Tornava a Genova dopo dodici anni di lontananza. Era partito che era poco più di un ragazzo, e adesso era uomo fatto. Aveva trentaquattro anni. A volte gli sembrava impossibile: il tempo era scivolato via, senza che se ne fosse accorto, un giorno dopo l’altro.
Era tornato per restare.
Aveva bisogno di riappropriarsi della sua città, di rivederne i colori, di risentirne la lingua brusca, di essere nuovamente Marco Morante, perché a Londra il suo nome aveva un suono diverso.
Ma prima dell’ultima tappa aveva voglia di godersi un po’ di libertà, perché a casa di suo padre non sarebbe stato padrone di sé. Non sarebbe stato facile ritrovarsi sottomesso, dopo essere stato indipendente per anni, nel bene e nel male.
Aveva lasciato la città nel ’57, da allora sembrava che le cose andassero un po’ meglio, come aveva subito notato. Molte botteghe avevano riaperto e ai moli c’erano navi, anche quei nuovi piroscafi; ma soprattutto c’erano più visi sorridenti in giro.
L’unico che non aveva voglia di sorridere era lui, e neppure ne aveva motivo. Perché aveva accettato di tornare? Era convinto di aver troncato ogni rapporto con suo padre, Matteo Morante, perché la partenza da Genova era stato soltanto l’ultimo atto di una sequenza di contrasti sempre più laceranti.
Camminava per le vie ritrovate dopo una lunga lontananza e continuava a chiedersi perché era tornato. Per penare ancora?
A Londra aveva la sua vita, un lavoro, amici. Eppure in un momento di debolezza, dopo avere scoperto per caso da un capitano chiavarese che suo padre era gravemente ammalato, gli aveva scritto. Non era stata una vera lettera: soltanto poche righe per comunicargli il suo recapito londinese.
Non aveva previsto una risposta, invece dal sassolino si era formata una valanga che gli aveva travolto la vita. Presto era arrivata una breve lettera di risposta in cui il padre gli confermava le precarie condizioni di salute. Aggiungeva che, purtroppo, non poteva badare agli affari come avrebbe voluto, e così le proprietà di famiglia ne stavano risentendo.
Quasi senza accorgersene, lettera dopo lettera, Marco si era ritrovato a Genova. Poche ore di viaggio e avrebbe raggiunto il punto da cui era partito tanti anni prima giurando di non tornare mai più.
Arrivato in patria la settimana prima, aveva esaurito lo slancio e, invece di riprendere subito il viaggio verso Chiavari e la proprietà di famiglia, si era attardato a cercare vecchie conoscenze. Fra le altre aveva incontrato Emilio: uno Spinola, nientemeno!
Era per mettere a tacere i dubbi sull’opportunità di un ritorno a casa, e anche per distrarsi, che aveva accettato di buon grado il suo invito a un ballo.
Erano stati buoni amici intorno ai vent’anni, nonostante la disparità di ceto e di mezzi, poi i casi della vita li avevano separati, perché Emilio era uno Spinola e il suo nome aveva peso e potere, mentre Marco era soltanto il figlio di un possidente rivierasco.
Erano rimasti in contatto epistolare e, quando Emilio aveva saputo del suo ritorno a Genova, l’aveva invitato al ballo per il suo fidanzamento. Il matrimonio si sarebbe celebrato in forma rigorosamente privata, a San Luca, la chiesa gentilizia degli Spinola, ma il futuro sposo aveva voluto quel ballo a palazzo come pubblico attestato che la famiglia accettava la sua Livia.
Un ballo. Perché no? Marco apprezzava sia la buona musica sia il ballo, se poteva stringere fra le braccia una bella dama. Emilio gli aveva assicurato che non sarebbero mancate. Eleganti e adorne di gioielli, come esigeva un invito a Palazzo Spinola, che era più una reggia che un palazzo patrizio.
Ci sarebbe stata anche buona conversazione, perché gli Spinola amavano circondarsi di uomini e donne intelligenti.
Così Marco aveva fatto rinfrescare il suo abito da sera e aveva controllato che la camicia fosse impeccabile. Sapeva di avere un bell’aspetto e gli piaceva mostrarsi nel modo più appropriato, ma non amava le eccentricità.
Era arrivato a Palazzo Spinola per l’ora che Emilio gli aveva indicato, evitando anticipi imbarazzanti e ritardi da prima donna. Era entrato e aveva riprovato le emozioni di quando, non ancora ventenne, aveva varcato quella soglia per la prima volta, anche se da allora aveva avuto l’occasione di essere ricevuto in residenze altrettanto imponenti.
A Genova lo spazio era prezioso e la sfida per gli architetti era sempre stata quella di far sembrare ampie le sale e le gallerie che non potevano esserlo e renderle ugualmente sontuose ma non troppo cariche.
Palazzo Spinola era un esempio di vittoria dell’architettura sugli spazi.
Emilio l’aveva accolto da amico fraterno e aveva voluto fargli conoscere Livia, la promessa sposa. — È una donna, non una giovinetta. Sarà il secondo matrimonio, per lei — gli aveva spiegato. — Si è sposata giovanissima e dopo neppure un anno era vedova. La tradizione avrebbe voluto un fidanzamento in sordina, ma sono troppo felice che abbia acconsentito a sposarmi e desidero che tutta Genova sia testimone della nostra felicità.
Dopo Livia c’erano state altre presentazioni, poi era cominciato il ballo, aperto dai due festeggiati. A poco a poco altre coppie si erano unite.
Era stato mentre si guardava attorno cercando una dama appetibile che Marco l’aveva vista.
2
Tre giorni prima
Marco si stava guardando attorno quando la vide.
Era seduta un po’ in disparte, accanto a un’altra donna: sembravano coetanee e affiatate, insieme non per caso. Le coppie che volteggiavano nella sala gli impedivano di vederla bene come avrebbe voluto, e forse fu proprio l’iniziale curiosità insoddisfatta a spingerlo a cercarla con lo sguardo.
Sembrava davvero appartata; parlava soltanto con la donna che aveva accanto e con un uomo sulla trentina in piedi dietro di loro, come se scortasse entrambe.
Marco cercò di avvicinarsi, ma fu ostacolato sempre da qualcosa o qualcuno.
Per cortesia si trovò a invitare una giovane cugina di Emilio, piuttosto insipida, ma per fortuna silenziosa, che era anche una discreta ballerina.
Poi dovette invitare un’altra parente dell’amico, di mezz’età e non silenziosa come la precedente. Lo intrattenne raccontandogli quanto lui già aveva saputo dall’interessato, cioè la grande passione che aveva spinto Emilio a prendere come moglie la figlia di un semplice avvocato, senza neppure un filo di nobiltà. In più, vedova!
Marco sopportò: Emilio gli aveva raccontato quanto aveva dovuto battagliare per far accettare Livia alla sua famiglia che, pur essendo di un ramo cadetto, voleva ugualmente imporgli una moglie diversa, una all’altezza degli Spinola
. Per fortuna non sono l’erede!
aveva concluso Emilio, e ora Marco, sentendo la lunga tirata della parente, capiva meglio il sollievo dell’amico.
Sarebbe stato divertente ascoltare le lagnanze della sua compagna, se quel ballo non gli avesse impedito di avvicinare la donna che tanto lo incuriosiva.
Che una simile bellezza se ne stesse in disparte non era normale. Ogni tanto Marco riusciva, volteggiando, a lanciarle un’occhiata.
Indossava un abito marrone, con pochi ornamenti; soltanto qualche passamaneria color crema. Non era tagliato all’ultima moda, ma quel colore così caldo, come le castagne, era perfetto con i capelli ramati e pieni da affondarci le mani e le labbra.
Gli occhi invece erano grigi di burrasca.
Marco le si stava avvicinando quando si ritrovò a dover fare da cavaliere a un’altra dama, una giovane civetta che stava provando le proprie armi. Ma almeno quelle innocenti schermaglie non gli impedivano di vederla bene, perché pochi minuti dopo il suo desiderio fu esaudito: l’uomo che era sempre stato con lei e la sua compagna le porse la mano, e lei si alzò e lo seguì fra i ballerini.
Non era una bellezza seduta! Era alta e slanciata, ben fatta, agile e svelta di passo. Probabilmente aveva gambe lunghe e snelle.
Era anche molto controllata nei gesti.
Il suo abito era davvero un po’ fuori moda: ormai tutte le signore avevano adottato gonne lunghe dietro e corte davanti, spesso sollevate da elaborati ornamenti, tutto per mostrare le scarpine da ballo. La gonna della sconosciuta, invece, sfiorava completamente il pavimento di marmo. Forse stava in disparte per il disagio di indossare quell’abito.
Se era così, era una sciocca. Sarebbe stata bella anche vestita con un sacco.
Meglio senza niente!
Marco controllò quel pensiero inopportuno, rispose disinvolto a una domanda impertinente della sua compagna di ballo e si girò prevedendo di trovarsi faccia a faccia con lei, perché il set era finito.
Le avrebbe chiesto un ballo.
Ma lei non c’era più.
Marco vinse l’impulso di non riaccompagnare al suo posto la civetta, lasciandola sola per andare in fretta a cercare la donna che tanto lo intrigava.
Sapeva di essere molto impulsivo, facile a infiammarsi, ma con l’età e l’esperienza aveva imparato a controllarsi. Quasi sempre, almeno, tanto che alcuni, superficialmente, lo credevano freddo, inglese più di un inglese
, senza sapere che dentro ribolliva anche quando mostrava un viso impassibile.
Del resto, era sicuro che l’avrebbe rivista. Forse si era allontanata con il suo cavaliere per un rinfresco.
Invece non era ricomparsa.
Anche la sua compagna era sparita.
Come se fossero state un sogno, un’illusione.
3
Marco infilò le mani in tasca, stringendole a pugno. Era un gesto poco elegante. Pensava a quanto era stato stupido a lasciarsela sfuggire: si sarebbe preso a schiaffi.
Prima con discrezione e poi con maggior decisione, aveva domandato ad altri invitati se la conoscessero, ottenendo soltanto dinieghi.
Non aveva chiesto nulla a Emilio, dicendosi che non voleva importunarlo, ma la realtà era che temeva di passare per uno che non sa farsi avanti con una donna che gli piace.
Da quella sera il suo umore era peggiorato. Prima di tornare a casa e affrontare suo padre doveva trovare il modo di calmarsi.
Lei era bella? Chissà quante ne avrebbe incontrate più belle di lei.
Se lo ripeteva da tre giorni. Imboccò Strada Nuova, sentendosi stupido come un adolescente alle prese con il primo infelice amore e ripetendosi che la sua era soltanto curiosità per una donna diversa dalle altre.
Raddrizzò le spalle e guardò avanti. Quando vide a pochi passi di distanza i due inglesi con i quali aveva scambiato qualche parola sul piroscafo, allungò il passo. Gli erano sembrati cortesi e innamorati dell’Italia. Uno dei due aveva già visitato alcune città durante il suo Grand Tour e faceva da cicerone all’altro, ma per entrambi era la prima visita a Genova.
Forse avrebbe potuto far loro da guida, si disse Marco che conosceva bene la sua città, anche se per molti anni ne era stato lontano.
All’improvviso una piccola mendicante si accostò ai due con la mano tesa. Li sentì ridere, li vide scostarla come fosse un essere disgustoso e sentì uno dei due fare un commento nella propria lingua.
— Italiani pigri e straccioni!
Marco si sentì bollire il sangue. E chi aveva ideato e costruito le bellezze che quegli inglesi sprezzanti venivano ad ammirare? Gli italiani erano straccioni perché per secoli erano stati depredati, con una scusa o con l’altra.
Quei due non avevano mai visto come i loro connazionali vivevano negli slums londinesi o nelle catapecchie delle tenute? O in quali stanzette stavano confinati i domestici che loro vedevano sempre in livrea?
Cercò di non cedere alla collera, per non raggiungerli e dir loro cosa pensava.
No, non era cominciato bene il ritorno in patria.
Forse sarebbe stato più saggio non trattenersi a Genova e proseguire direttamente verso Levante. Verso casa; anzi, verso la casa di suo padre.
Forse sarebbe stato meglio non tornare affatto.
Girò sui tacchi e quasi si scontrò con Ninchi, che aveva conosciuto durante la tratta Marsiglia-Genova.
4
Era soltanto metà pomeriggio e, pur essendo la camera ben esposta, era già stato necessario accendere il lume.
Giovanna teneva d’occhio Lisa che, china sulla culla, vezzeggiava il piccolo Paolo. La tenue luce della lampada le illuminava i capelli castano scuro dai riflessi ramati. Era una scena commovente. Un pittore, uno di quelli nuovi, come Signorini, che non dipingevano soltanto soggetti storici e mitologici, avrebbe potuto tradurla in un quadro e intitolarlo Amor materno
.
Eppure non era Lisa la madre del neonato. Era proprio uno spreco che una donna così non avesse figli.
— Sei proprio brava con i bambini — commentò Giovanna. — Dovresti averne di tuoi: saresti una madre meravigliosa.
Lisa si chinò a ravviare i capelli scomposti del piccolo Paolo, sperando di nascondere all’amica l’improvviso rossore che, lo sapeva, sarebbe apparso subito sul suo volto. — Per avere dei figli ci vuole un marito — rispose, cercando di parlare con indifferenza. Con gli anni aveva imparato a controllarsi, a sembrare fredda; ma quando vedeva un neonato, le sue belle difese crollavano. Poteva soltanto sperare che l’amica cambiasse discorso.
— Ebbene, dov’è il problema? Sposati. — Giovanna posò una mano sotto il mento di Lisa e le sollevò il viso alla luce della lampada. La carnagione era chiara e perfetta, i lineamenti ben cesellati e non aveva una ruga, ma gli occhi erano tristi. — Sei bella, non è giusto che tu non abbia una famiglia tua.
— Ho quasi ventisei anni, Giovanna mia, e non ho un filo di dote. Ormai è troppo tardi per il matrimonio. O mi vorresti sposata con un attempato vedovo brontolone pieno di acciacchi?
Giovanna scoppiò a ridere.
— Non essere sciocca! Non dirmi che non sai come ti guardano gli uomini. Anche al ballo sei stata ammirata.
Lisa socchiuse gli occhi e trasse un lungo respiro. — Al ballo non sarei dovuta andare. Se ho accettato l’invito di Livia, è stato soltanto per non offenderla, ma non era il mio posto. — Ignorò la decisione con cui l’amica scuoteva il capo. — Lisa Cecchi a Palazzo Spinola! Il mio vestito da ballo dimostrava tutta la sua età. Mi avranno guardato e riguardato per quello, chiedendosi cosa ci faceva una donna così fuori moda a uno dei balli più importanti della stagione.
— Se ti guardavano, non era per criticare l’abito. E ti avevo offerto…
Lisa posò un dito sulle labbra dell’amica. — Lo so e te ne sono grata; mi avresti procurato un abito adeguato, ma preferisco di no, senza offesa. Sei già stata così gentile ad accompagnarmi e coprirmi con zia Amalia.
— Avresti dovuto dirle dell’invito di Livia e importi.
— Sì, ho sbagliato a ricorrere all’inganno pur di andare dicendo che sarei rimasta fino a tarda sera da te. Non ho mai sopportato le menzogne.
— A volte sono necessarie. Non è stata neppure una menzogna. Cosa le hai detto? Che avresti passato la serata con me, perché mio marito era fuori e io gradivo la tua presenza. Hai passato la serata con me e mio marito era realmente fuori, a scortare noi due.
— Da noi si dice rigirare la frittata! — esclamò Lisa, e scoppiò a ridere. Per un attimo il suo viso acquistò un colore rosato e le brillarono gli occhi.
— Hai penato anche per ottenere quelle poche ore e mi dispiace che per colpa mia siamo rimaste così poco. Soltanto un ballo hai fatto, e con il mio Piero.
— Però ho ascoltato buona musica e guardato danzare; è stato un vero piacere — commentò Lisa.
— Guardare? Tu dovresti vivere, non guardare la vita degli altri. Esci, conosci gente. Il mio Piero dice che sei molto attraente e lo ripete così spesso che se non fossi sicura del suo amore sarei anche gelosa. Tu sei sempre stata la più bella di noi due; anzi, di noi tre. Lo so e lo sai anche tu.
— La bellezza conta poco, Giovanna. — Lisa lanciò un’occhiata al piccolo Paolo. — Si sta addormentando. È un tesoro.
— Davvero! Ha fatto i capricci per tutto il giorno, e se non fossi venuta tu a salvarmi non so come avrei fatto. L’hai preso in braccio, gli hai fatto due coccole e si è calmato all’istante. Ma non credere di riuscire a farmi cambiare discorso. Devi costruirti una famiglia tua.
— Dai miei parenti sto benissimo — la assicurò Lisa, cercando di sembrare convincente.
— Sì. Come una governante non pagata.
— Sei ingiusta: se non fosse stato per loro, non avrei avuto una casa. Mi vogliono bene, anche se siamo soltanto lontani parenti. — Fece una pausa. — Che cos’avrei dovuto fare sei anni fa? I miei genitori erano morti all’improvviso, di tifo. Non avevano messo da parte neppure un soldo, forse pensando di avere ancora tanti anni davanti.
Giovanna si chinò per sistemare meglio la copertina sulla culla del suo ultimo nato e ripeté quello che tante altre volte aveva detto all’amica. — Ti saresti dovuta trovare un marito, e senza faticare tanto.
— No! — esclamò Lisa. Subito si rese conto di avere replicato con una foga sospetta, e cercò di rimediare. — Un matrimonio soltanto per sistemarmi non lo farò mai. I miei genitori si volevano bene. Un matrimonio senza amore, senza affetto, è una prigione. — Scosse il capo, incapace di aggiungere altro.
— Certo che è difficile innamorarsi se non si frequenta neppure un giovanotto e se ci si veste da zitella prima del tempo.
Lisa lisciò la gonna dell’abito grigio scuro che indossava. — Il mio vestito è comodo e caldo. Non sarà elegante, ma è adeguato alla stagione e al mio stato.
Ma non era facile far tacere Giovanna. — Una corazza, ecco cos’è! Uno schermo per nascondersi. — Posò le mani aperte sulle spalle dell’amica. — Lo so, hai amato un uomo e lui è morto poco prima delle nozze. Da allora sono passati sette anni, però. Anche le vedove, quelle vere, si risposano. La vita deve continuare. — La sua voce si fece più dolce. — Dimentica il passato e permettiti un nuovo amore. Se insisto, è perché ti voglio bene. Come a una sorella; anzi, di più, perché le sorelle le hai in sorte e le amiche si scelgono. — Lisa annuì.
— Ecco, ora fai segno di sì. Non sono scema e so che lo fai solo per farmi contenta, così la smetto. Siamo amiche da sempre, e mi dispiace vederti sola.
— Ma non sono sola. Ho te, i tuoi bambini, gli zii e mia cugina Serenella. — Lisa trasalì e si alzò. — Serenella! Devo andare, si è fatto tardi. Ci sono ospiti a cena.
Giovanna scosse il capo e sospirò. — Così la aiuterai a vestirsi e a pettinarsi, anche se hanno una cameriera che però dovrà occuparsi di tua zia Amalia.
— Non mi pesa aiutare Serenella. È giovane, ha tutta la vita davanti.
— E tu saresti una vecchietta?
Lisa si strinse nelle spalle, prese il mantello e lanciò un’ultima occhiata al piccolo che dormiva. — Ora devo proprio andare, Giovanna. Domani verrò ad aiutarti un po’.
— Preferirei che tu approfittassi del poco tempo libero per divertirti: potresti fare una passeggiata, magari lasciarti corteggiare da un bell’uomo.
Lisa, poco convinta, fece segno di sì, perché era inutile discutere con Giovanna, che voleva sempre avere l’ultima parola. Lei doveva andare a casa, e non soltanto perché era tardi: restando, avrebbe rischiato di dire quello che non doveva.
Se aveva deciso di chiudere con l’amore e di non pensare più al matrimonio, aveva i suoi motivi. Motivi che non poteva condividere neppure con la sua amica più cara; anzi, con la sua unica amica. Aveva fatto i suoi errori e aveva una colpa grave da scontare.
Per lei, per colpa sua, un uomo era morto: non doveva dimenticarlo.
Uscì in fretta e, appena fuori, si avvolse meglio nel mantello e tirò su il cappuccio. Era già buio. A gennaio la sera calava presto anche quando il tempo era bello.
Soltanto poco prima di arrivare alzò gli occhi al cielo, che era di un blu zaffiro, non ancora nero, ma non dava più luce, nonostante la sottile falce di luna.
Ecco, questa era l’ora in cui sentiva maggiormente la mancanza di una famiglia davvero sua.
Scosse il capo: no, non doveva lasciarsi prendere dalla malinconia. La sua vita non era meravigliosa, ma avrebbe potuto essere molto peggiore. Cos’avrebbe fatto se i Lanza, lontani cugini da parte di madre, non l’avessero accolta in casa loro? Sarebbe diventata la dama di compagnia di qualche vecchia signora scorbutica, o una governante, o una domestica… E queste erano le alternative migliori.
In fondo l’unica professione onorevole per una donna era diventare moglie e madre, come Giovanna. E come sperava di diventare Serenella. Già da due anni la madre si guardava attorno cercando un buon partito fra le sue numerose conoscenze. Dall’autunno, da quando Serenella aveva compiuto diciotto anni, ogni due o tre settimane il padre o il cognato invitavano a cena qualche giovanotto con i genitori: famiglie perbene con cui avevano rapporti d’affari. Sembravano averne una scorta inesauribile.
D’altra parte, durante l’inverno il modo migliore per trascorrere la serata era attorno a una tavola e in buona compagnia. O partecipando a un ballo…
Le era sempre piaciuto ballare, tutti dicevano che era un’ottima ballerina.
Serrò le labbra. Ecco, aveva per un attimo abbassato le difese e i desideri pericolosi si erano fatti avanti.
Tutta colpa dell’invito di Livia. Non sarebbe dovuta andare, e di nascosto dai Lanza, poi. Era stato come ritrovarsi in una favola: il palazzo era splendido dietro l’austera facciata. La musica, le luci, gli abiti alla moda erano stati inebrianti.
Si era guardata attorno il meno possibile, cercando di passare inosservata, consapevole del suo vecchio abito. Era sempre stata vanitosa, ed era stato questo difetto a portarla alla rovina.
Al ballo aveva cercato di scomparire, aveva sempre tenuto gli occhi bassi, riuscendo a scoraggiare sul nascere qualsiasi tentativo di essere avvicinata, ma di uno aveva sentito le occhiate insistenti e curiose.
Per fortuna lui era all’estremità opposta del grande salone e lei, con un po’ d’attenzione, gli aveva quasi sempre nascosto il viso. Ma lo sconosciuto la guardava. Non occhiate sfacciate, quelle che spogliano, e neppure avide di sapere perché una come lei era stata invitata a uno dei balli più importanti della stagione. No, l’aveva guardata come per scoprire la vera Lisa, e lei questo non poteva permetterlo.
Un ballo, tanti anni prima, era stato l’inizio della sua rovina; non sarebbe stato un altro ballo a toglierle la poca serenità raggiunta a fatica.
Appena Giovanna, ancora fresca di parto, aveva manifestato il desiderio di ritornare a casa dal suo bambino, lei aveva subito colto l’occasione per sfuggire a quello sguardo indagatore.
Giovanna le aveva proposto di restare, con il marito come scorta.
— Hai fatto soltanto un ballo, e con Piero. E ti è sempre piaciuto ballare… — aveva insistito.
Lei aveva rifiutato con decisione e, dopo un frettoloso saluto a Livia e al suo futuro marito, era finalmente uscita. Da Giovanna si era cambiata, tornando la solita Lisa e, arrivata dai Lanza, aveva tirato un respiro di sollievo.
Aveva scontato la sua uscita clandestina perché per tutta la notte