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Paura d'amare
Paura d'amare
Paura d'amare
E-book300 pagine3 ore

Paura d'amare

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Info su questo ebook

Frascati, 1798. La giovane Leontina, appena rimasta vedova di un uomo che non amava, giura che non si innamorerà mai più. Ma l'arrivo dell'enigmatico Laurent McGee, artista e dongiovanni, rischia di mandare a monte i suoi propositi...
"Ombre Rosa" è una collana e insieme un viaggio alla riscoperta di un'intera generazione di scrittrici italiane che, tra gli anni Settanta e gli anni Duemila, hanno posto le basi del romanzo rosa italiano contemporaneo. In un'era in cui finalmente si colgono i primi segnali di un processo di legittimazione di un genere letterario svalutato in passato da forti pregiudizi di genere, lo scopo della collana è quello di volgere indietro lo sguardo all'opera di quelle protagoniste nell'ombra che, sole, hanno reso possibile arrivare fino a questo punto, ridando vita alle loro più belle storie d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2024
ISBN9788727061115
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    Anteprima del libro

    Paura d'amare - Roberta Ciuffi

    Paura d'amare

    Copyright ©2003, 2024 Roberta Ciuffi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727061115 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Frascati, 1798 

    Per la miseria! Tu farai come dico io!

    Il grosso pugno di Ugo Donadio si abbatté sul tavolino, facendo tintinnare le fragili tazze di porcellana. Il bricco della cioccolata, ormai vuoto, dondolò pericolosamente. L'uomo lo afferrò, piantandolo sul ripiano con un gesto che conteneva rabbia e violenza appena trattenute.

    Sua moglie emise un gemito strozzato, portandosi le mani al petto. Il suo sguardo, che conservava un'espressione vagamente timorosa anche nelle occasioni più favorevoli, cercò supplichevole quello di Leontina. Curva sul ricamo, la giovane l'ignorò. L'ago ed il filo rosso si muovevano con ritmo e sicurezza sulla tela, seguendo lo schema che lei stessa vi aveva tracciato. Stava lavorando ad un cuscino per la stanza di suo figlio, ma non lo avrebbe mai terminato; questa consapevolezza era l'unica cosa che le facesse mantenere la calma.

    Raimondo, appoggiato alla mensola del piccolo camino, si schiarì la gola, guardando dall'uno all'altro dei suoi familiari. Benché per una volta avesse la coscienza pulita, l'urlo del padre, oltre a sconvolgere la madre, aveva fatto impallidire anche lui. Non era però stato sufficiente a scuotere Leontina, e questo lo preoccupava.

    Lui, meglio di chiunque, conosceva il carattere impulsivo e caparbio della sorella e sapeva che un atteggiamento di silenziosa arrendevolezza non era da lei. Doveva avere qualcosa in mente.

    Si staccò dal camino e si avvicinò al divano. Leontina non diede segno di averlo notato. No, non così, pensò Raimondo. Non avrebbe ottenuto niente se pretendeva di incombere su di lei e minacciarla, alla maniera del padre. Perciò si piegò su un ginocchio, posandole delicatamente le mani sulle spalle.

    Tinuccia, mormorò. Questo arrestò il movimento dell'ago. Raimondo chinò la testa, fino a sfiorarle la guancia con la propria. Non fare la sciocca, Tinuccia. Papà vuole solo il tuo bene. Vedrai che ne sarai contenta.

    Lei ruotò la testa, portando la bocca quasi a contatto del suo orecchio. Lo sciocco sei tu, Raimondo. Dimmi, come sta tua moglie?

    La voce era un sussurro roco, venato di divertimento.

    Il giovanotto si tirò indietro di scatto, come se fosse stato punto. Lauro aveva ragione, sibilò, rabbioso. Tu sei un'arpia.

    Leontina sollevò il capo e lui si trovò sotto la mira di due occhi di un castano chiarissimo, quasi dorato. Sì. Povero Lauro.

    Il divertimento, ora, era più palese.

    Rimasero a fissarsi qualche secondo. Scuotendo il capo, Raimondo andò a mettersi dietro la poltrona della madre, ponendole le mani sulle spalle in un gesto rassicurante. Lei lo guardò di sotto in su, le labbra schiuse in un sorriso incerto, lo stesso che rivolse poi alla figlia.

    Leontina, questa storia mi sta uccidendo, disse, portandosi il fazzoletto agli occhi lacrimosi. Perché ti comporti così male con la tua famiglia?

    Avendo trascorso tutta l'esistenza all'ombra del marito, servendolo e obbedendogli, non riusciva a concepire come chiunque altro potesse non desiderare di fare altrettanto.

    Basta così, esclamò Ugo Donadio, puntellandosi faticosamente sui braccioli della poltrona per alzarsi in piedi. Gli occhi sporgenti si fissarono sulla figlia, ancora curva sul ricamo nell'evidente tentativo di evitare il suo sguardo.

    Tu farai a modo mio. Sei ancora una ragazzina senza cervello, che non sa quello che è meglio per lei. Grazie a Dio il vecchio duca ha abbastanza polso per tenerti in riga. Vieni a salutare tuo padre.

    Docilmente, Leontina allontanò il ricamo e si sollevò in piedi. Era d'altezza media, piuttosto magra, e con le vesti del lutto sembrava veramente una ragazzina vestita da adulta. Malgrado la rabbia che la divorava, si chinò a baciare la destra del padre, mentre l'altra mano le si posava pesante sulla testa. La mano di un dittatore che tiene il suo mondo nel pugno.

    Brava bambina, disse soddisfatto l'uomo, assestandole qualche colpetto sulla nuca. Lo so che vuoi bene a tuo padre.

    Il pensiero che lei osasse veramente ribellarsi gli era inconcepibile, comprese Leontina, osservando i tre attardarsi sul pianerottolo per permettere alla madre di sistemarsi uno scialle sulla testa. Il valletto che reggeva la lanterna attendeva perfettamente immobile, il volto imperscrutabile, celando abilmente il disprezzo per quella gente volgare che era entrata a far parte della nobile famiglia dei conti del Poggio. Solo quando Ugo Donadio iniziò a scendere pesantemente i larghi gradini della scalinata, sollevò gli occhi alla contessa in una muta domanda.

    Lei chinò appena il capo, le braccia strette al corpo per difendersi dal gelo. Non avevano bisogno d'altro per intendersi. Sarebbe stato per quella notte, era confermato.

    Per quanto disprezzasse i Donadio, Mimmo amava e compativa la povera contessa. Per cinque anni l'aveva vista soffrire e trasformarsi, dalla ragazzetta allegra e fiduciosa che era entrata come giovane sposa al Palazzo, in una creatura pallida e desolata, insicura di se stessa, con un'ombra perenne di dolore in fondo ai grandi occhi chiari. Ed ora, non aveva alcun dubbio a chi andasse la sua lealtà.

    In fondo alle scale Donadio brontolò perché la carrozza non era pronta. Mentre attendeva, chiese bruscamente al figlio: Che ne pensi?

    Raimondo si strinse nelle spalle, già stufo di tutta quella storia e un po’ vergognoso della parte che vi stava giocando. Non saprei. Sembra tranquilla. Ma il duca… non è davvero un po’ troppo vecchio, per lei?

    Stupidaggini! replicò con violenza il padre. È appena un po’ più anziano di me. Giusto quello che ci vuole per tua sorella.

    Ma se aspettassimo almeno qualche mese… Potrebbe uscir fuori qualcosa di più… opportuno.

    Il volto disfatto dell'altro si accese di rabbia. Non ho sudato una vita, io, per rischiare di farmi mangiare i soldi da qualche cacciatore di dote!

    Ma, padre, tentò coraggiosamente Raimondo, la dote oramai appartiene a Leontina, lo sapete. Siete stato voi a stabilire così…

    Solo perché volevo tenerla lontana dalle mani di quell'idiota di Lauro! Non potevo certo immaginare che si sarebbe ammazzato, da quell'imbecille che era, lasciando sua moglie padrona di una fortuna. Ma io non ho intenzione di rimetterci il mio.

    Quel che suo padre intendeva dire, in pratica, era che progettava di comprare a sua figlia due mariti con la stessa dote. Ci sarebbe stato da ridere, se la cosa non fosse apparsa tanto squallida.

    È per stanotte, pensò Leontina resistendo alla tentazione di mettersi a correre. Domani sera sarò una donna libera.

    Attraversò rapidamente una serie di stanze, lanciando frenetiche occhiate a tutto ciò che stava per abbandonare. Era entrata in quel palazzo ancora quasi bambina, ingenua ed estatica per la fortuna che le era capitata; eppure, ora che stava per lasciarlo, provava solo esultanza.

    Nella camera di Ferruccio la lampada era ancora accesa. La bambinaia sedeva accanto al lettino, appisolata. Si destò sussultando, sentendola entrare. Signora contessa… S'alzò, cercando di rassettare i capelli scompigliati. Mi dispiace, mi sono addormentata.

    Non importa, la rassicurò. Cercherò di dormire qualche ora anch'io. Ma già sapeva che non ci sarebbe riuscita.

    Si chinò sul figlio e lo baciò sulla guancia arrossata dal sonno. Poi, come spesso le accadeva, quasi inconsciamente alzò lo sguardo al ritratto a grandezza naturale appeso alla parete di fronte. Provò il consueto senso d'amarezza nel constatare quanto i due si somigliassero.

    Solo nel volto, mormorò come infinite altre volte, in quello che era più un proposito che un'affermazione.

    Si accostò alla parete e, tra le ombre della stanza, fissò il bel volto arrogante del suo defunto marito, i lunghi occhi neri, il naso sottile, il sorriso noncurante. Guardando quel ritratto, poteva quasi immaginare di amarlo ancora. Quasi. Ma non aveva più importanza. Lui era morto di una morte ridicola e lei era ormai libera dal suo amore, nonché dal dolore, il dolore costante che era stato il compagno degli anni del loro matrimonio.

    Salutò la bambinaia raccomandandole di tenersi pronta e riprese il suo giro. Ultimamente, con la scusa di risparmiare, aveva collocato altrove buona parte della servitù. La risoluzione era stata approvata dal padre, che l'aveva considerato un segno di frugalità encomiabile, senza rendersi conto che i servitori licenziati erano quelli che avevano favorito Lauro nei suoi bagordi, gli insolenti, le servette sfacciate che l'avevano accontentato, di quando in quando, per qualche minuto di rapido piacere. Erano restati solo i fedelissimi e di questi appena cinque l'avrebbero accompagnata nella fuga, oltre agli indispensabili uomini di scorta. Gli altri sarebbero rimasti a badare al palazzo, che costituiva l'elemento portante dell'eredità di suo figlio, e ad accudire sua suocera, la contessa madre.

    Ma non per molto ancora, considerò Leontina tristemente. La sua salute, sempre precaria, aveva ricevuto il colpo di grazia dalla morte del figlio. Ed ora anche loro l'avrebbero l'abbandonata: lei, ma soprattutto Ferruccio, l'ultima gioia della sua vita.

    Dorme? sussurrò alla cameriera incaricata di vegliare il sonno dell'inferma.

    Leontina, cara, sei tu? La voce flebile della contessa madre era poco più di un sussurro.

    Sì, maman, sono io, rispose la giovane, passando poi a parlarle in francese, come d'abitudine. Non dovreste essere ancora sveglia, sapete? Non vi fa bene.

    Oh piccola mia! Non volevo rischiare che tu partissi senza averti salutata un'ultima volta.

    Leontina si chinò sul letto e, come aveva fatto con suo figlio, poggiò un bacio sulla gota asciutta e gelida della suocera. Aveva bisogno di qualche secondo per riprendere il controllo di sé.

    Non lo avrei mai fatto, mamma, lo sapete, disse poi, con la voce alterata dalla commozione. Inspirò a fondo e batté le palpebre, Ascoltate, mamma…

    Devi partire, la interruppe l'inferma, con tono più risoluto del precedente. È necessario. Non ti devi scusare.

    Lo so, mormorò la giovane, carezzando il dorso della mano abbandonata sulla coperta. Vorrei che poteste venire anche voi.

    Non preoccuparti per me. Ho fatto il mio tempo.

    Una volta, quando Anne Marie diceva cose del genere, la rimproverava; ora non avrebbe avuto senso. Così tacque, continuando a carezzarle la mano.

    Stai solo attenta a mio nipote. È molto prezioso, per me.

    Lo è anche per me, mormorò.

    E stai attenta a te stessa. Sei preziosa anche tu. E ti meriti un futuro migliore di quello che ti ha dato il mio miserabile figlio.

    Mamma…

    Non si poteva attendere che i disordini si placassero?

    No. Ho paura che se aspetto ancora resterò bloccata. Ed allora chi potrà impedire a mio padre di farmi fare quel che vuole?

    Ti fidi tanto di questi francesi? chiese la contessa, lei, la francese, storcendo la bocca.

    Leontina sorrise. Non m'importa nulla di loro, maman. Ma se quel che si dice è vero, io sarò libera. Né mio padre né il cardinale di York potranno più dirigere la mia vita.

    Alla morte di Lauro, Ugo Donadio aveva tentato di assumere la tutela del nipote, ma la vecchia contessa s'era opposta, affermando che era molto improprio che un borghese esercitasse la tutela sull'erede dei conti del Poggio. Così questa era stata temporaneamente affidata al vescovo di Frascati, il cosiddetto cardinale di York. Il quale era un buon uomo, ma non molto fermo di carattere. Quando Leontina era andata da lui a lamentarsi dei progetti paterni sul suo futuro, s'era sentita ripetere la solita solfa del dovere filiale, e della necessità di sottomettersi al volere di chi aveva maggiore esperienza.

    Una volta compreso che da quella parte non aveva niente da sperare, il seme di un nuovo progetto s'era piantato nella sua mente.

    Doveva fuggire. Ma fuggire dove? In un mondo in cui tutto apparteneva agli uomini, dove poteva trovare un luogo in cui essere libera di decidere della sua vita? E proprio allora, come una provvidenziale risposta alla sua preghiera, l'armata francese s'era mossa per invadere Roma.

    Sta' attenta, l'ammonì la suocera con voce flebile. Sono tempi calamitosi.

    Quando mai non lo sono?

    È vero, sospirò l'altra, e Leontina sentì la sua mano rilassarsi. Comprese che forse ora si sarebbe addormentata e, dopo un ultimo bacio, uscì dalla stanza.

    Di nuovo i suoi pensieri tornarono al giorno in cui era entrata in quel palazzo, giovane sposa travolta dall’emozione, incredula della fortuna che le era toccata, spaventata dal suo nuovo ruolo, dalla nuova posizione sociale. E troppo innamorata per essere in grado di ragionare.

    All'inizio aveva sentito così tanta soggezione della madre di suo marito: quella piccola donna francese aristocratica dalla testa ai piedi, col suo italiano smozzicato ancora dopo trent’anni. Invece aveva trovato in lei una madre, sempre pronta a capire e ad aprirle le braccia. Nei momenti di maggiore disperazione lei le aveva offerto aiuto e conforto. Ed ora, stava per abbandonarla.

    Anche la sua cameriera personale vegliava. Pochi, quella notte, si sarebbero concessi al sonno. Leontina la liquidò in fretta. Aveva  bisogno di restare sola e raccogliere le idee. Sedé alla toletta ed iniziò a sciogliere la grossa crocchia di capelli annodata sulla nuca in una foggia austera. Lentamente, lunghe ciocche di ondulati capelli biondo rossiccio scivolarono fino alla vita. Prese la spazzola e ciocca dopo ciocca si dispose a districare inesistenti nodi.

    Privi di controllo, i suoi pensieri scivolarono in un’altra direzione. Povero Raimondo. Sciocco Raimondo. Suo padre arrivava quasi a comprenderlo: la sua forsennata ambizione, la sua brama di riconoscimenti sociali… Cosa ci si poteva aspettare da un uomo che aveva scelto a motto della sua famiglia: 'Con le unghie e col becco'?

    Ma i moventi che facevano agire suo fratello le erano oscuri. Aveva permesso al padre di manipolare e deformare il corso della propria esistenza e ora se ne rendeva complice, per fare lo stesso in quella di sua sorella. Per ambizione, per debolezza aveva consentito a sposare l’unica figlia di un banchiere, una bella e fragile creatura che un diaframma sottilissimo separava dalla follia e che adesso, dopo la nascita di due figlie e di nuovo incinta, era precipitata completamente nella demenza.

    Sospirò, pensando a quelle povere bambine, vegliate sospettosamente nel timore di veder sorgere in loro gli stessi sintomi di follia della madre; alla povera Claudia, impossibilitata anche a por fine alla sua vita infelice, finché non avesse ottemperato al compito di fattrice di un erede maschio. E al povero Raimondo, in fondo… Benché si mormorasse che avesse trovato consolazione tra le braccia di una bella ragazza del popolo, sana e robusta, che di certo gli avrebbe scodellato dei figli privi di tare. Peccato che i bastardi, nel mondo in cui i Donadio scalpitavano per entrare, non avessero diritto d’accesso.

    Leontina si osservò allo specchio con attenzione, studiando le ombre e gli affossamenti che la luce della candela evocava sul suo volto. Era giovane e bella. Intelligente e ricca. Libera. Lei non avrebbe permesso mai più a nessuno di dirigere la sua vita, non ad un padre né ad un fratello, e certamente non ad uno sciocco sentimento romantico.

    Sorrise, legando i capelli in una lunga treccia. Non era tanto ingenua da credere di poter vivere sola, in quel mondo dominato dagli uomini, ma aveva intenzione di trovarsi un marito in base a criteri più razionali di quelli avevano mosso suo padre, o anche lei, la volta precedente. Le occorreva un padre per Ferruccio, e una protezione fidata per se stessa. Questo era l’essenziale.

    Quanto all'amore… non era necessario. Anzi, per quel che la riguardava, era da considerarsi più che superfluo: addirittura nefasto. E avrebbe fatto quanto in suo potere per tenersene lontana.

    Roma, 1799 

    Allora, dov'è questa meraviglia? chiese Laurent MacGee (pittore, libertino, giacobino, e varie altre cose di cui pochi al mondo erano a conoscenza) volgendo attorno uno sguardo di studiata indifferenza. Nel corso dei suoi quasi trent'anni di vita, il giovanotto aveva sperimentato come quel particolare sguardo avesse il potere di provocare nell'animo delle signore un sommovimento molto lusinghiero nei suoi confronti, ed era impaziente di provarlo con la padrona di casa, di cui il suo amico gli aveva detto un gran bene.

    L'indifferenza, abbinata al blu straordinario dei suoi occhi, faceva furore tra le dame italiane.

    Enea Sallustio, che lo conosceva, non si lasciò ingannare da quell'atteggiamento di simulata noia di vivere. Non essere impaziente, l'ammonì. Facciamoci un giro. Le signore non mancano.

    "Ah, perché cittadine non suona attraente allo stesso modo?" ghignò Laurent, esaminando la sala con un'attenzione che il suo sguardo distaccato non lasciava supporre.

    Perché è una parola che puzza di politica, rispose l'altro, chinando il capo a salutare una piccola bionda che gli aveva rivolto un sorriso. E chi ha voglia di mescolare la politica con il bel sesso?

    La sala in cui si trovavano era di vaste dimensioni, ma difficilmente sarebbe bastata a contenere il numero degli ospiti che si stava riversando a Palazzo Cavalli. Era stato un triste periodo, per Roma, quello seguito alla breve occupazione da parte dell'esercito napoletano. Anche se la guerra si era spostata oltre i suoi confini, le condizioni di vita erano molto peggiorate. I francesi avevano inasprito il loro controllo sulla cittadinanza, e il mancato afflusso di derrate alimentari dalla provincia faceva sì che fosse difficile, per i romani, provvedere al più frugale dei pasti. Le occasioni di divertimento non erano frequenti; perciò, chi poteva, non se le lasciava scappare.

    Una signora -una cittadina, si costrinse a rammentare Laurent- accompagnata da un cavaliere a suo parere del tutto inadeguato, gli passò a fianco. Le ciglia scure tremolarono con grazioso artificio, prima di spalancarsi su occhi di un meraviglioso verde acqua.

    Cittadino Maggi, mormorò la bella, soffermandosi a tendergli una mano che lui si limitò a stringere con civile egualitarismo. Non sapevo che foste tornato in città.

    Non potevo assentarmi oltre, rispose lui, con una punta della bocca sollevata in un sorriso ironico. La risposta non aveva alcun significato particolare ed ognuno era libero di interpretarla a piacimento; cosa che la cittadina evidentemente fece, perché le sue guance si colorirono di rosa.

    Oh, disse in un sospiro, mentre le lunghe ciglia tornavano ad agitarsi come ventagli su quei due medaglioni verdi. Capisco.

    Mi sembra di intuire che la cittadina Varzi spasimi ancora per te, commentò Enea, dopo che la coppia si fu allontanata per raggiungere la folla assiepata attorno ad un buffet.

    In effetti spasima molto, replicò l'altro, continuando ad esaminare gli ospiti col suo modo apparentemente incurante. E non ti puoi immaginare di cosa siano capaci quelle ciglia, in certe occasioni. Da far venire il mal di mare.

    L'amico sogghignò. L'ho sempre detto che non sei un vero gentiluomo.

    Naturale che non lo sono.

    Inglese italianato…

    …diavolo incarnato, concluse Laurent per lui. Però io sono franco-scozzese, amico mio. Rammentatene. Non farti sentire da mia madre a chiamarmi inglese.

    Sarà presente, stasera?

    Il giovanotto rise. Lei? Stai scherzando? La molto aristocratica madame Septimanie, della nobile famiglia de la Marck de Bouillon, partecipare ad una festa di giacobini, e data dalla figlia di un mercante, per di più?

    Oh, andiamo. Tua madre non è così codina.

    Enea pronunciò queste parole in tono casuale, ma le sue guance si colorirono, smentendo l'atteggiamento distaccato. Laurent rivolse all'amico uno sguardo d'ironica rassegnazione. Buon Dio, anche lui vittima della sua fascinosa madre?

    Decise di tastare il terreno. È un po’ che non la vedo. Può darsi che nel frattempo abbia mutato atteggiamento. Ma ne dubito.

    Difatti dovresti andare a farle visita più spesso, replicò l'altro, prendendo la palla al balzo. L'ho vista mercoledì passato e si è molto lamentata di te.

    Oh, ma davvero? Il lampo di un sorriso corse per gli occhi blu del pittore, ma non raggiunse le sue labbra sottili.

    Non era nella sua natura fare la morale ad alcuno, e in particolare non intendeva mettere in imbarazzo il povero Enea, che nelle faccende d'amore era piuttosto un sempliciotto. Non che lo biasimasse per essersi infatuato di sua madre. Era lei, piuttosto, che avrebbe avuto bisogno di una sgridata. Sollevando le spalle, si ripromise di passare a Palazzo della Marca per prima cosa, il giorno dopo.

    Septimanie de la Mark de Bouillon McGee costituiva la smentita vivente degli effetti che una vita sregolata può avere sulla costituzione di una donna. Fuggita di casa a quindici anni con Christopher McGee, ultimo erede di una famiglia giacobita ormai quasi povera in canna; madre a neppure sedici, e quindi esule per mezza Europa, talvolta in compagnia del marito e spesso in stato di simil-vedovanza, aveva collezionato nel corso della sua esistenza sufficienti avventure da bastare ad una decina di sue simili. Ed ora, a quarantaquattro anni, non mostrava alcuna intenzione di relegarsi al ruolo di matrona.

    I suoi splendidi capelli erano tuttora biondi come il grano, e gli occhi celesti e tersi come un cielo invernale; il volto di porcellana non rivelava rughe, ed

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