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Pagine d'amore
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E-book330 pagine3 ore

Pagine d'amore

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Info su questo ebook

1845. Un amore proibito, nella Roma ottocentesca attraversata dal vento del cambiamento.
"Ombre Rosa" è una collana e insieme un viaggio alla riscoperta di un'intera generazione di scrittrici italiane che, tra gli anni Settanta e gli anni Duemila, hanno posto le basi del romanzo rosa italiano contemporaneo. In un'era in cui finalmente si colgono i primi segnali di un processo di legittimazione di un genere letterario svalutato in passato da forti pregiudizi di genere, lo scopo della collana è quello di volgere indietro lo sguardo all'opera di quelle protagoniste nell'ombra che, sole, hanno reso possibile arrivare fino a questo punto, ridando vita alle loro più belle storie d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mag 2024
ISBN9788727061061
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    Anteprima del libro

    Pagine d'amore - Roberta Ciuffi

    Pagine d'amore

    Cover image: MidJourney

    Copyright ©1999, 2024 Roberta Ciuffi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727061061 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Prologo

    Roma, anno 1821 

    La stanza era in penombra e silenziosa. Appena varcata la soglia, Onorata si fermò con la sua piccola offerta di pace stretta tra le mani.

    La puerpera giaceva con la testa affondata tra i cuscini, sul volto terreo ancora i segni del lungo e difficile travaglio. Povera cara, pensò la cognata: che il cielo le risparmi di dover ripetere una simile sofferenza.

    A passi felpati si avvicinò al letto.

    Olga respirava piano, le palpebre dalle venature azzurrine calate sugli inquietanti occhi verdi. Per un istante, un moto d'avversione fece tremare Onorata. Con calma, aspettò che passasse, come s'era abituata a fare in quel lungo anno di cattività. S'accostò alla culla per guardare dentro. La neonata dormiva, esausta quanto la madre. Piccolo tesoro, pensò, intenerita. La mia piccola bambina, tutta mia.

    La puerpera si agitò, le ciglia scure vibrarono. «Chi è?» chiese, sbarrando gli occhi leggermente febbricitanti. Poi, riconosciutala, si rilassò di colpo. «Oh, sei tu.»

    «Come ti senti, mia cara?» mormorò Onorata con voce carica di sollecitudine.

    «Stavo bene, prima che tu entrassi.»

    Le sue labbra tremarono, poi si distesero in un dolce sorriso. «La bambina è bellissima» disse. «Aurelio sarà estasiato, quando la vedrà.»

    «Sì, me l'immagino.» Puntellandosi sui gomiti, Olga si sollevò a sedere. «È arrivato?»

    «No. Gli abbiamo mandato un messaggio, ma Ferentino non è dietro l'angolo.» Ridacchiò come se avesse detto una battuta, meritandosi un'occhiataccia da parte della cognata. «Che cosa triste che non fosse qui a accogliere la sua cara figlia nella nostra famiglia!»

    «Cara figlia, proprio» sibilò l'altra, lanciando uno sguardo di disprezzo in direzione della culla. «Se penso che tutto quello strazio non è servito a niente, avrei voglia di buttarmi dalla finestra.»

    «Ma Olga, per carità! Che dici?»

    Gli occhi di Olga non erano più verdi, ma scuriti dalla rabbia e dall'angoscia. «Mia sorella ha fatto tre figli maschi » disse, poggiando il capo contro la testiera del letto. «Uno dopo l'altro. E proprio a me doveva nascere una femmina.»

    «Ma di certo andrà meglio la prossima volta…»

    «Prossima volta! Dio me ne scampi e liberi!» La donna si fece un rapido segno della croce, sotto lo sguardo compassionevole dell'altra. Poi si portò la mano sulla faccia in una sorta di disperata carezza.

    Naturalmente, ci sarebbe stata una prossima volta. Come sapevano entrambe, era impossibile evitarlo: Aurelio doveva avere il suo maschio, gli Altani il loro erede. A ben guardare, pensò Onorata, c'era per Olga un modo di liberarsi da quel terribile destino.

    «Ti ho portato una tisana» disse, tendendo le mani che reggevano la piccola coppa. «Serve per calmare i nervi e sedare gli ultimi dolori.»

    «Una delle tue porcherie?»

    «Oh, ma è molto efficace, vedrai.»

    Sospirando, Olga allungò una mano e prese in consegna il recipiente. Lo portò alle labbra, inghiottendo una sorsata di liquido. «Ah mio Dio…!» esclamò, torcendo la bocca. «È terribile.»

    «Su, su!» l'incalzò la cognata. «Lo sai che le medicine, più sono cattive…»

    «…meglio fanno. Sì, lo so.» Con un sospiro di rassegnazione, la puerpera incollò di nuovo le labbra alla coppa e bevve fino in fondo. L'altra la osservò con attenzione, dondolando il capo per seguire i suoi movimenti. «Ecco fatto. E speriamo che funzioni.»

    Oh, funzionerà, pensò Onorata. «Adesso mettiti giù, da brava, e dormi.»

    Con insolita docilità, Olga scivolò sotto le coperte e chiuse gli occhi. «La balia…» borbottò, con voce sonnolenta. «Bisogna avvertire la balia.»

    «Sarà fatto. Tu non preoccuparti di niente.»

    Sorridendo, ritirò la coppa, quindi scivolò fuori della stanza, muovendo con grazia i piccoli piedi delicati. Attraversò tutto il lungo corridoio che portava alla sua camera da letto. Sulla porta si fermò, fece scorrere le dita sulla pettinatura, sul collo, sulla veste, per accertarsi d'essere inappuntabile. Voleva essere in ordine, prima di comparire al cospetto del suo Signore.

    Ansante per l'aspettativa, aprì la porta… e si fermò con la mano sulla maniglia, gelata dall'orrore.

    Davanti a lei, al centro della stanza, una donna alta con un grosso ventre gravido si stava raddrizzando faticosamente, le mani sulle reni doloranti. Ai suoi piedi un bauletto dalla serratura scassinata rivelava il contenuto per metà.

    Si chiuse lentamente la porta alle spalle, gli occhi fissi sulla cameriera, che non si degnò di abbassare i suoi.

    «Allora, signorina» esordì l'intrusa in tono canzonatorio. «Ecco che cosa ci tenevate in questo baule. Ho capito perché non mi ci facevate mai mettere le mani.»

    Onorata non replicò, limitandosi a girare uno sguardo interrogativo al grande crocefisso appeso sopra l'inginocchiatoio.

    «Sapete che stavo pensando?» Fernanda inclinò la testa su una spalla, maliziosamente. «Che magari quella è roba che al bargello gli interessa.»

    Onorata guizzò alla cameriera un'occhiata di tale perfidia che l'altra dovette impedirsi di indietreggiare. Poi girò la testa verso la porta. Le era parso di sentir gridare. Solo un giorno prima si sarebbe limitata a sbattere sulla strada quella sgualdrina intrigante, ma quel giorno era passato e adesso non avrebbe potuto più farlo. Il suo viso paffuto si aprì in un sorriso dolcissimo.

    «Mia cara Nandina!» mormorò con accento soave, avanzando nella stanza. «Ti ho sempre voluto tanto bene: lo sai questo, vero?» Scosse il capo e il sorriso s'allargò. «Vedrai che io e te riusciremo a trovare un accordo. Ne sono sicura.»

    Dal Giornale di Fanny:

    12 ottobre 1845 

    Oggi, all'Avemaria, il dottor Viviani ha preso un'ultima volta il polso di mio marito, poi si è alzato, si è sistemato gli occhiali sul naso e ha annunciato che Aurelio era morto. Credo che sia stata una fine serena, dopo tutto. Se la meritava, dopo una malattia così lunga. E anche io. Gli ho chiuso gli occhi e gli ho tirato il copriletto sul viso, poi ho stretto le mani come se pregassi, ma intanto pensavo che ora non lo avrei più sentito chiamarmi e non avrei veduto il suo volto, mai più. Non avrei saputo dire quali sentimenti questa consapevolezza animasse in me, in quel momento. Tanti anni di matrimonio e tutto aveva fine, così tranquillamente.

    «Madre!»

    Fanny sussultò, lasciando cadere la penna sul foglio. Uno schizzo d'inchiostro tracciò uno sbaffo nero sulle ultime righe.

    «Sì? Cosa c'è?» chiese, sperando che la scarsa luce nello studio impedisse di notare il rossore che le aveva ricoperto le guance.

    «Non venite di sotto? Vi stanno aspettando.» Speranza guizzò un'occhiata incuriosita al quaderno che la matrigna, con calma simulata, stava riponendo nel cassetto dello scrittoio. «Che cosa avete lì?»

    «Stavo preparando la lista delle persone da avvertire» rispose, cercando di mantenere la sua freddezza. «Sono molte e non sono certa di ricordarle tutte.»

    «Oh, non state a preoccuparvi» esclamò la ragazza, nel suo caratteristico tono sprezzante. «Ci penserà la zia. Lei si ricorderà di certo.»

    Avvertì la sensazione di calore alle guance farsi più intensa, ma non disse niente. Era abituata alle sgarberie di Speranza e aveva almeno imparato a fingere che non la ferissero. Spense la lampada sullo scrittorio, perché non sperava di tornare più nello studio per quella sera. La figliastra continuò a misurarla con i suoi duri occhi verdi, privi di qualsiasi affabilità.

    Quando Fanny chiuse a chiave la porta della stanza, un'espressione di sospetto le apparve in volto. «Perché chiudete?» chiese. «Che avete da nascondere, là dentro?»

    La matrigna le infilò confidenzialmente una mano sotto il braccio, sospingendola per il corridoio. «Non mi fido a lasciare aperte le camere» confessò, in un bisbiglio complice. «Sai anche tu cosa succede in queste tristi occasioni: spuntano parenti sconosciuti da tutte le parti, pronti ad allungare le mani su ogni cosa. Ho fatto chiudere a chiave l'argenteria e i tovagliati buoni, e consiglio a te di fare lo stesso con le tue cose.»

    Dal modo in cui Speranza strinse le labbra comprese di aver colpito nel segno. Riuscì a fatica a trattenere un sospiro di sollievo. Non le costava alcuno sforzo mentire, anzi, ormai le veniva naturale come respirare. Pensando al rigido moralismo in cui era stata allevata, si chiedeva come fosse riuscita a diventare una bugiarda tanto abile. Per puro istinto di sopravvivenza, forse.

    Le due donne procedettero silenziose, superando una dopo l'altra le stanze che le mani solerti della servitù avevano già preparato per il lutto. Passando per una porta particolarmente stretta e che non poteva contenere entrambe le loro crinoline, Fanny trovò la scusa per liberare la mano dal braccio di Speranza e poi si guardò bene dal rimettercelo.

    Matrigna e figliastra erano di piccola statura e nessuna delle due possedeva uno di quei volti che colpiscono la fantasia di primo acchito.

    I begli occhi di Fanny erano frangiati da lunghe ciglia fitte, ma sfavoriti da un colore castano che in casa si giudicava molto comune. I capelli divisi nel mezzo e annodati sulle orecchie in due crocchie morbide erano d'un biondo così scuro che bisognava vederli alla luce del sole per riconoscerne la sfumatura. Senza infamia e senza lode, non avevano fatto guadagnare alla loro proprietaria neppure un complimento in tutta la sua vita.

    Anche i tratti del volto sarebbero apparsi ugualmente privi di nota, se non fosse stato per quelle punte aguzze degli angoli delle labbra sottili, degli occhi, del mento, perfino del piccolo naso, che conferivano loro un sospetto di caparbietà e impertinenza: peggio ancora, di senso dell'umorismo.

    Ci volevano tempo e buona disposizione per arrivare a giudicare bello quel volto. Quando questo avveniva, però, l'impressione non era transitoria, ma tendeva a intensificarsi con la frequentazione, come se Fanny divenisse più attraente ogni volta che la si guardava.

    I lineamenti di Speranza rivelavano i segni di un maggior carattere, anche se sfortunatamente non di uno buono. Si diceva che somigliasse molto alla madre, morta il giorno della sua nascita, ma, mentre quella era stata piuttosto graziosa, i suoi tratti erano invece un po’ troppo forti. Gli occhi verdi, colore che riscuoteva grande ammirazione in famiglia, non traevano alcun vantaggio da questa dote visto che li animava un'espressione di costante malcontento.

    Un brusio ondeggiante di voci le avvertì che stavano per giungere a destinazione. Dalle porte spalancate sul vestibolo i candelabri irradiavano un alone rossastro fin nel corridoio, dove sostavano, in attesa di essere congedate, due anziane popolane in umili abiti neri.

    Con una punta di rimorso, Fanny si affrettò. Le vestitrici fecero un piccolo inchino a testa bassa, porgendo alla vedova delle condoglianze misurate. Avevano vissuto abbastanza da sapere che, per una donna che avesse di che mantenersi, la morte del marito non era sempre una disgrazia.

    «Qualcuno ha pensato a voi?» chiese Fanny, mentre la figliastra varcava la porta gettando appena uno sguardo di lato.

    Un'occhiata furtiva, poi la più anziana disse in tono secco: «La signorina Onorata».

    Fanny si mordicchiò il labbro inferiore. Non si fidava della generosità della cognata e quelle due poverette traevano l'unico sostentamento per sé e le famiglie lavando e vestendo i defunti, un compito che certo non invidiava loro.

    «Passate da me tra un paio di giorni» disse in fretta, abbassando la voce. «Ma intanto andate in cucina e servitevi di quel che vi occorre. Ce n'è più che a sufficienza per tutti. Dite ad Agata che vi ho mandato io.»

    Le donne si chinarono a baciarle la mano e, nonostante si schermisse, non riuscì a impedirglielo. Dopo un ultimo saluto, si affrettò a entrare nella camera ardente.

    La bara era issata su un catafalco di proporzioni impressionanti, interamente ricoperto di velluto nero e viola. L'aveva ordinato Onorata e Fanny si chiese cosa ne avrebbe pensato Aurelio, che si riferiva sempre a se stesso come a un gentiluomo e avrebbe di certo ambito a un'esposizione sulla nuda terra.

    Dopo essersi fatta il segno della croce si diresse sulla destra, dove sedeva il resto della famiglia. Il catafalco era così alto che non le riuscì di vedere il volto del marito, ma solo il corpo ricoperto dell'umile saio bruno della sua confraternita, veramente fuori luogo, dato che di umile in lui non c'era mai stato nulla.

    Attorno, volti noti e altri sconosciuti, probabilmente frequentazioni d'affari del defunto. Vide il notaio Pirrodda con i suoi praticanti e gli impiegati. Alcuni parenti. Membri della confraternita. Don Silvestro, il parroco della chiesa di Gesù e Maria. Anziani domestici ormai in disarmo. Tra questi notò una donna talmente vecchia che non sembrava possibile avesse trovato la forza di arrivare sin lì. Nonostante l'età e l'occasione, indossava la ricca veste colorata delle ciociare, con grossi orecchini che pendevano dai lobi allungati delle orecchie e una triplice fila di coralli attorno al collo. Fanny si chiese incuriosita chi fosse, ma poi si distrasse vedendo il dottor Viviani seduto poco distante, con gli occhi chiusi come se meditasse. Più probabilmente, stava dormendo.

    D'istinto, fece una smorfia. Il medico non le piaceva: più decrepito che vecchio, usava un gergo astruso e incomprensibile che secondo lei serviva solo a mascherarne l'incompetenza e negli ultimi tempi aveva dato segni evidenti di rimbambimento. Avrebbe dovuto ritirarsi da tempo, ma sembrava che gli Altani non potessero fare a meno di lui: sua cognata, specialmente, lo teneva in grande considerazione.

    In piedi accanto al muro riconobbe l'anziana donnetta che accompagnava Onorata nelle sue visite di carità e le faceva le commissioni. Era la sorella del verduraio che aveva il negozio sulla via e non viveva in casa Altani, ma in quella del fratello. Una strana sistemazione, a parere di Fanny: lei non avrebbe saputo rinunciare alla presenza della sua Lina, che la serviva da quando era ragazza ed era in definitiva la sua unica amica.

    Molte teste si girarono a guardarla, qualcuno le fece un cenno, altri bisbigliarono qualcosa al vicino. Immaginava cosa stessero pensando: il vecchio Altani era sopravvissuto a due mogli, ma con la terza non ce l'aveva fatta.

    Arrivata al suo posto, sedette tenendo sotto controllo la crinolina, che tendeva a sollevarsi. Si fece il segno della croce e unì le mani, pronta alla preghiera.

    «Perché ci hai messo tanto?» le bisbigliò Onorata, mentre Concetta, la figliastra più giovane, si sporgeva per origliare. «Vuoi che pensino che non t'importava niente di tuo marito?»

    Fanny non si curò di rispondere. Non lo faceva mai, ma stavolta trattenne un sorriso, al pensiero che Onorata non si fosse ancora resa conto che le cose erano cambiate e che il suo dominio sulla casa e la famiglia era terminato, morto con Aurelio.

    Non aveva veduto di persona il testamento, ma il notaio Pirodda l'aveva segretamente rassicurata sul suo contenuto. A parte un legato, sua cognata non sarebbe entrata in nulla nella gestione del patrimonio del fratello. Non poté evitare di provare un senso di rancorosa soddisfazione che subito si rimproverò. Non era quello il momento di nutrire sentimenti tanto negativi.

    Speranza si curvò sulla zia, bisbigliandole qualcosa all'orecchio. Onorata lanciò un'occhiata sospettosa alla cognata, quindi si alzò in piedi e andò alla porta di comunicazione con la stanza da letto. Allungò la mano all'interno, afferrò la chiave e la infilò nella toppa esterna, dandole un paio di giri lenti, sonori, indirizzati come monito a tutti i presenti.

    Stavolta Fanny fu costretta a portarsi le mani alla faccia per nascondere il sorriso. Quindi, si sistemò meglio sulla sedia, disponendosi a trascorrere una lunga notte.

    Ogni volta che qualcuno si alzava per accomiatarsi, le fiammelle dei ceri oscillavano come scosse dal vento, allungando ombre tremolanti sulle pareti. Ormai erano rimasti in pochi, nella camera ardente. La maggior parte dei vicini e dei conoscenti aveva offerto le condoglianze e preso congedo. Le ragazze erano andate a dormire. La stessa Onorata ve le aveva spinte, inquieta per la loro salute. Povere figliole, pensò, sistemando il rosario nella tasca della gonna: erano entrambe di costituzione delicata, proprio come lei.

    Si guardò attorno di sottecchi. La sua vecchia balia non c'era più, non aveva notato il momento in cui era uscita. Le teste delle giovani cameriere ciondolavano, le labbra si muovevano a stento nella preghiera. Erano stanche morte: la loro giornata iniziava all'alba, per concludersi solo dopo che tutti gli abitanti della casa erano andati a letto. E, nonostante la notte passata in veglia, la mattina dopo sarebbe stata uguale a tutte le altre.

    Onorata provò un moto di collera per quella che le parve un'insolenza. Ecco in che tempi si viveva: una volta i giovani non avrebbero osato mostrare una simile mancanza di rispetto. Era stata una ragazza ben diversa da costoro, lei!

    La vista degli anziani Agata e Biagio, ancora assorti nelle loro orazioni, non l'addolcì, confermandola nel suo sdegno.

    Girò la testa, per controllare cosa stesse facendo Fanny. La scoprì ben sveglia, con quei suoi irritanti occhi che sembravano sempre sul punto di ridere puntati sul catafalco. Che cosa stava pensando? Intuiva che ora perfino l'ombra di potere che aveva esercitato sulla famiglia era scomparsa? Che non c'era più chi prendesse, anche se raramente, le sue parti? Che era in totale balia della sua volontà?

    Onorata trattenne il respiro, mentre la consapevolezza delle molteplici possibilità future l'aggrediva, facendole girare la testa. Si alzò in piedi. Anche per lei era ora di ritirarsi. Che restasse la vedova a vegliare la salma.

    Scivolò lungo la stanza, dirigendo un cenno alla sua devota Carlina, che la serviva tanto bene. Peccato non poterla tenere in casa, ma non voleva correre il rischio di ripetere un certo errore di tanti anni prima.

    Stremata dalla stanchezza, si diresse verso la sua camera. Le scarpe le facevano male, il busto la soffocava. Aveva bisogno di stendersi sul letto. Per prima cosa però, come sempre, andò a rendere omaggio al suo Signore. Quella sera non si piegò sull'inginocchiatoio, limitandosi a toccare con le manine delicate i piedi accavallati dell'uomo crocifisso.

    Un così bel lavoro, pensò soddisfatta. L'aveva commissionato personalmente a un artigiano ebreo, che di certo non aveva gradito molto l'incarico ma l'aveva eseguito senza far storie né meravigliarsi. Era un Cristo eccentrico, dal volto glabro e paffutello. La servitù pretendeva che somigliasse proprio a lei, alla signorina Onorata, ma nessuno aveva mai osato dirlo in sua presenza. Né qualcuno si era mai stupito che il corpo della scultura fosse interamente coperto da una tunica, perché era noto come la signorina disapprovasse ogni manifestazione di impudicizia.

    Con un gesto stanco, si tolse la cuffia e l'appoggiò su una sedia. Finalmente, pensò. Tanti anni di servitù e finalmente era libera. Il suo piccolo regno ormai le apparteneva per intero.

    Era lì che era nata, nella casa degli Altani di Via Sforza, e non se n'era allontanata che raramente. Suo padre, uomo ricco, commerciante e affarista dalle mille risorse come in seguito sarebbe stato il figlio, non aveva ritenuto che valesse la pena di sprecare denaro per costituirle una dote. Alla sua morte, Aurelio non aveva visto il motivo di discostarsi da questo giudizio. Inoltre, gli serviva qualcuno che s'occupasse della casa e una governante costava.

    Onorata aveva sempre fatto il suo dovere. N'era responsabile nei confronti della sua famiglia e del suo Signore.

    Il primo matrimonio del fratello era stato un disgraziato interludio. Sfortunatamente, Olga era una donna troppo volitiva e autoritaria per accettare il benevolo patrocinio di una cognata più saggia. Ma era morta, lasciandole una bimba da crescere. E di nuovo Onorata aveva fatto il suo dovere, come poi per Concetta, quando anche sua madre era passata a miglior vita. Sempre, sempre, aveva fatto il suo dovere, non s'era mai tirata indietro né risparmiata, anche se a volte quel dovere le era costato tanta sofferenza.

    Da quel giorno, poteva respirare. Fanny non contava nulla. Fino all'ultimo istante di vita, suo fratello le aveva giurato che ogni cosa sarebbe passata in mano sua, come era giusto che fosse, perché lei era un'Altani, una vera.

    Finalmente, era la vera e unica signora della casa.

    Dal Giornale di Fanny:

    Roma, 15 ottobre 1845 

    Contrariamente a quanto mi aveva anticipato il notaio Pirrodda, il testamento è stata un'autentica sorpresa. Come già sapevo, a Onorata andrà un vitalizio. I restanti beni di Aurelio saranno divisi tra le figlie, mentre a me spetterà solo la quota vedovile. Il che sarebbe abbastanza sgradevole, lo ammetto, se non fosse che – e qui sta la sorpresa – sembra che io non abbia affatto bisogno del denaro del mio defunto marito! Secondo quanto stabilito dal contratto matrimoniale – che dodici anni fa firmai senza neppure leggere: e come avrei osato? – tutti i miei beni dotali, in denaro e immobili, sono ancora di mia intera proprietà, privi di vincoli e tutele.

    Buon Dio! Non so che pensare. Fa veramente una strana sensazione essere una donna così facoltosa.

    Non so dire l'emozione che questa notizia ha provocato! Se una bomba fosse esplosa proprio lì, nello studio del notaio, non avrebbe causato altrettanto scompiglio. I termini del contratto erano che la dote sarebbe entrata a far parte del patrimonio degli Altani solo come eredità dei figli viventi: figli miei, nati da me. Niente figli, niente eredità, neppure per Speranza e Concetta.

    Devo ammettere che il nonno ha saputo architettare un bell'imbroglio, come l'ha definito Onorata, per una volta orbata della sua soave dolcezza. Io, al contrario, mi sono comportata molto bene. Non ho affatto mostrato l'esultanza che mi dava questa rivelazione: ho mantenuto invece un contegno molto modesto. E, oh! Quando Onorata ha saputo che avevo ricevuto anche la tutela delle ragazze e del loro patrimonio! Il suo viso è divenuto orribile: tutto rosso, con gli occhi sbarrati e la bocca tirata sui denti… Abbiamo creduto che stesse per avere un colpo apoplettico. È stata la prima volta che l'ho vista perdere il controllo e devo confessare che mi è venuta la pelle d'oca…

    Fanny arrestò il moto veloce della penna e si allontanò dal bordo del tavolo, esaminando criticamente il suo scritto.

    Soffiò sul foglio, controllando che l'inchiostro fosse ben asciutto, poi chiuse il quaderno con decisione e lo infilò nel cassetto dello scrittoio. Si sentiva turbata dalla vena di astio che percorreva quasi ogni pagina di quel diario che, per uno strano impulso, aveva iniziato il giorno della morte di suo marito.

    Sospirando, si alzò in piedi e prese a percorrere il pavimento del piccolo studio a passi veloci, sentendosi come un animale chiuso in gabbia. E in fondo, cos'altro era stata per tutti quegli anni, dal giorno della morte dei suoi genitori? Solo un piccolo animale prigioniero, costretto a saltare agli ordini altrui.

    Si fermò bruscamente e mormorò una rapida preghiera per i suoi cari. Ancora adesso, dopo tanti anni, pensare a loro le suscitava un gran senso di struggimento, unito alla nostalgia per quei tempi lontani in cui era stata la loro unica, amata bambina.

    Il padre di Fanny era stato ingegnere minerario. Il lavoro lo

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