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L'amore al tempo dei mondiali: una storia vintage
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L'amore al tempo dei mondiali: una storia vintage
E-book269 pagine3 ore

L'amore al tempo dei mondiali: una storia vintage

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Info su questo ebook

Estate 1982. L'Italia intera impazzisce dietro al Campionato del Mondo di Spagna. Milly invece sta impazzendo nel tentativo di dare una svolta alla sua vita. Ma come fare, quando si ha un'inconcludente relazione con l'uomo più sfuggente della Terra? Ovvio, spostando il tiro su qualcun altro.
"Ombre Rosa" è una collana e insieme un viaggio alla riscoperta di un'intera generazione di scrittrici italiane che, tra gli anni Settanta e gli anni Duemila, hanno posto le basi del romanzo rosa italiano contemporaneo. In un'era in cui finalmente si colgono i primi segnali di un processo di legittimazione di un genere letterario svalutato in passato da forti pregiudizi di genere, lo scopo della collana è quello di volgere indietro lo sguardo all'opera di quelle protagoniste nell'ombra che, sole, hanno reso possibile arrivare fino a questo punto, ridando vita alle loro più belle storie d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mag 2024
ISBN9788727061382
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    Anteprima del libro

    L'amore al tempo dei mondiali - Roberta Ciuffi

    Roberta Ciuffi

    L'amore al tempo dei mondiali

    Una storia vintage

    SAGA Egmont

    L'amore al tempo dei mondiali: una storia vintage

    Cover image: Midjourney

    Copyright ©2000, 2024 Roberta Ciuffi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727061382 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Questo romanzo è un'opera di fantasia. Qualunque somiglianza dei personaggi con persone reali è da considerarsi puramente casuale. E se qualcuno dovesse riconoscersi in uno di loro… potrei solo dire che avrebbe una bella immaginazione. Quanto agli eventi narrati, sono anch'essi frutto della mia fantasia. Meno il Campionato Mondiale di Calcio del 1982, naturalmente, che è stato davvero vissuto e sofferto da tutti noi, e… vinto in Spagna dalla Nazionale Italiana di Enzo Bearzot.

    Capitolo 1 

    Mercoledì, 30 giugno 1982: il giorno dopo la partita Italia-Argentina

    Era stata una notte spaventosa. Migliaia di scalmanati avevano invaso le strade per ore, urlando cantando e sventolando bandiere tricolori. E per ore io m'ero rigirata senza tregua nel letto, tormentata dal caldo e da quelle voci arrochite, dal frastuono dei campanacci e dai clacson delle auto. Mi ero addormentata a giorno ormai fatto, per essere svegliata solo tre ore dopo dall'imperiosa citofonata di Giangi, bisognoso di compagnia, caffè e sesso. Ora erano le dieci e mi sentivo sfinita dal sonno, col corpo viscido di sudore e impregnato di un odore che non era il mio e che, come avevo scoperto di recente, non mi piaceva.

    In piedi di fronte allo specchio, Giangi mi dava le spalle, impegnato a farsi il nodo alla cravatta con la cura maniacale che metteva anche nelle cose più futili, come riordinare le riviste sui tavolini in un ventaglio perfetto o calzare le gambe di una sedia negli avvallamenti della moquette. Lo specchio mi rimandava la sua espressione, infastidita ma per nulla colpevole.

    «Non capisco perché non posso venire con te» dissi, come avevo già fatto una decina di volte nella settimana precedente. Cominciavo io stessa a sentirmi una ragazzina fastidiosa, alle prese con il primo uomo sfuggente della sua vita.

    Lui si mordicchiò i baffi ma non rispose, limitandosi a guizzare gli occhi di lato come un animale spinto in un angolo.

    D'improvviso, provai un senso di disagio. Nuda sul letto, sotto quegli sguardi circospetti, mi sentii l'avanzo del banchetto del giorno prima. Mi girai, lasciando penzolare un braccio fino a raccogliere da terra il kimono di seta bianca col grande pavone azzurro sulla schiena. Frettolosamente, ci sgusciai dentro, prima di alzarmi dal letto. Non riuscendo a trovare la cinta, mi limitai a stringermelo addosso. «Guarda che non ti darei fastidio» insistetti, incapace di lasciar perdere. Uno dei miei difetti peggiori. «E poi ormai sono in ferie. Che resto a fare, da sola, a Roma?»

    Giangi aggrottò le sopracciglia, ma per il resto le mie parole gli scivolarono addosso senza lasciare traccia. Con aria assente, aprì la valigetta e ne estrasse un'agenda gonfia di memorandum. «Scusami, devo fare qualche telefonata.»

    Ogni interesse nei miei confronti sembrava scomparso, esaurito nella mezz'ora precedente. Sentii che lo stomaco mi si stava rivoltando per l'ansia e la nausea. Torcendomi le mani –in senso figurato, perché in realtà mi servivano per trattenere i lembi del kimono- restai a guardarlo mentre si esibiva nelle sue solite tecniche telefoniche: rassicurazioni melate, rapide repliche e scatti di simulata impazienza. Giangi era un uomo nato per telefonare: guardarlo era uno spettacolo, e di solito me lo godevo. Non quella mattina, però.

    In rapida successione chiamò due direttori di banca, l'ufficio, il suo capocantiere, la madre, il meccanico, il marinaio che s'occupava della barca ormeggiata ad Anzio e infine, con un mezzo sorriso di scusa a mio beneficio, la sua quasi ex-moglie. Terminò la telefonata con un paio di urla e un insulto, prima di sbattere irosamente la cornetta sul supporto. Vi lasciò la mano sopra e quindi rimase qualche istante in silenzio, accigliato e pensoso.

    Ne approfittai per avvicinarmi a lui. Sussultando come se si fosse accorto solo allora della mia presenza, girò la testa e mi fissò con occhi dal celeste sbiadito.

    Giangi è d'altezza media e ha una figura dinoccolata e ossuta che trae in inganno. In realtà è molto forte; fin dall'infanzia ha praticato un numero sorprendente di sport, che per qualche misteriosa ragione non sono riusciti a migliorare il suo aspetto, e di certo non il suo carattere. Quel giorno poi appariva particolarmente debole e stanco, molto più vecchio dei suoi quarantasette anni. I lineamenti del viso rivelavano appieno quell'inclinazione discendente che lui di solito accentuava, aggiungendovi un mesto sorriso che aveva sempre un certo effetto, sulle donne.

    Io sapevo benissimo che tutta quella esibita stanchezza di vivere poteva dissolversi in un istante alla presenza di qualcosa da mangiare o da scopare. Tuttavia, mentre mi avvicinavo a lui, Giangi stirò le labbra proprio in quel sorriso e di colpo anche a me non parve più un ometto di mezz'età e di taglia meschina, smanioso di squagliarsela dopo una scopata frettolosa, ma un eroe perseguitato dalla sorte, malinconico e deluso. Un Ulisse senza Itaca cui far ritorno.

    «Ciccetta mia» mormorò, tendendo il braccio per circondarmi le spalle.

    Mi scostai, infastidita. Quell'irritazione avrebbe dovuto rivelarmi qualcosa sul nostro rapporto. Quando le parolette e i vezzeggiativi amorosi cominciano a sembrare solo stupidi, invece che teneri, allora vuol dire che la fine è vicina. Sfortunatamente, sono testarda. Appartengo a quella genia di persone che, se per sbaglio o sventatezza, accetta un calice amaro, poi si sente in dovere di berlo fino in fondo.

    «Mi avevi promesso che stavolta saremmo partiti assieme» sibilai. Vedendo la cintura del kimono sulla poltrona, mi chinai per annodarla alla vita. Volevo fosse ben chiaro che per quel giorno il negozio era chiuso.

    Giangi sospirò e allargò le braccia in un gesto d'impotenza. «Lo so, lo so!» disse. «Credi che a me non dispiaccia?»

    «Sì, credo proprio che a te non dispiaccia!» gridai, con voce incrinata dalla rabbia.

    «E su, Milly, non fare la stupidina. Si tratta di lavoro, che ci posso fare?»

    Sorrise tristemente, scuotendo la testa. I capelli – un tempo biondi e ora di un imprecisato colore tra il giallo stinto e il grigio - erano accuratamente pettinati all'indietro. Tutta la sua figura era linda e ordinata. Io invece mi sentivo sporca e sciatta, con i capelli appiccicati alla testa dal sudore e il trucco della sera prima. Di colpo la mia rabbia si frantumò. A che serviva? Se anche fossi partita con lui, cosa sarebbe cambiato?

    Giangi aveva un sesto senso per cogliere gli umori altrui. Non sarebbe rimasto a galla tanto a lungo, se così non fosse stato. Immediatamente la sua espressione si fece dura e impaziente.

    «Non sto lavorando solo per me, cosa credi? Tutto quello che costruisco è per noi, per il nostro futuro. Per i nostri figli.»

    Ancora! Stavamo insieme da quattro anni e questi mitici figli tendevano a essere rispolverati a ogni crisi del nostro rapporto, come mezzo per tenermi buona. Un giorno, tra qualche tempo, un domani… Ma io avevo trentasette anni e tra qualche tempo per me poteva significare solo troppo tardi. Inoltre, non ero più sicura di volere qualcosa che mi legasse a Giangi fino a quel punto. Per puro spirito di polemica, però, ritorsi in tono aspro: «Noi non abbiamo figli. E se continua così non ne avremo mai».

    «Be', non sarebbe giusto mettere al mondo un bambino in questa situazione» fece, dandosi un’ultima occhiata nello specchio. «Quando avrò in mano quella maledetta sentenza di divorzio…»

    Storsi la bocca. Parlando di miti… «Non è necessaria una sentenza per avere dei figli» insistetti, testarda.

    Il suo volto si fece rosso. «Allora fai finta di non capire… Lo sai che sono impegolato fino al collo!» Batté col pugno sull'agenda ancora aperta sul tavolinetto. Quando pensava che fossi sul punto di cedere, si permetteva sempre una piccola esibizione di violenza, tanto per ribadire il concetto. «E la mia ex che non mi lascia in pace, mia madre che mi tormenta…»

    Sollevò la mano e se la portò sugli occhi, come se l'emozione gli impedisse di proseguire.

    Sapevo che stava recitando. Conoscevo il copione a memoria, visto che avevamo continuato a rappresentarlo, con pochissime variazioni, per circa quattro anni. E allora perché non gli ridevo in faccia? Perché non gli dicevo di andarsene al diavolo, lui e i suoi insolubili problemi? Perché quello era il nostro copione: l'avevamo scritto assieme, provato e riprovato alla perfezione, e andava recitato fino in fondo. Eravamo arrivati al punto in cui l'eroe disilluso viene confortato dalla giovane – relativamente - amante comprensiva, così gli poggiai le mani sul petto. Purtroppo mi mossi con troppa irruenza e il mio gesto amorevole alterò la posizione della cravatta di un paio di millimetri. Giangi arretrò bruscamente, fulminandomi con lo sguardo; poi si girò verso lo specchio e con movimenti rapidi ripristinò l'ordine violato.

    Si passò la punta delle dita sui baffi e sui capelli, sollevò il mento e vi picchiettò sotto, senza nessun particolare motivo.

    «Adesso scusami, ma ho tanto da fare» disse. «Ho una giornata di quelle… Ti telefono, va bene? Prima di partire. Ciao ciccetta bella, ciao!»

    Mi scoccò un bacio pruriginoso sulla guancia, afferrò l'agenda, la sistemò nella valigetta e si precipitò fuori della stanza. Solo quando udii aprirsi la porta d'ingresso ricordai che non gli avevo parlato dell’affitto arretrato. Gli corsi dietro. «Aspetta! Giangi, aspetta!» Lo raggiunsi presso l'ascensore, impegnato a spingere con impazienza sui tasti. «Devi passare dall'amministrazione del residence» gli dissi.

    «Sì, sì!» Scrollò le spalle, infastidito. «Ci passerò.»

    «Devi farlo davvero. Guarda che siamo già in ritardo di…»

    «Sì, sì, uffa! Fammi andare, dai!» S'infilò nella cabina. La porta si chiuse e l'ascensore partì con uno schiocco simile allo sparo d'un fucile ad aria compressa.

    «Giangi, passaci…» gridai, contro la porta chiusa. Ma ormai era andato.

    Mi allontanai dall'ascensore con l'intenzione di rientrare in casa, e invece, non so come, mi ritrovai seduta sul primo gradino della rampa di scale, i gomiti puntati sulle ginocchia, la testa sui pugni e il cervello momentaneamente in panne. Come mille altre volte, mi chiesi come potessi essere tanto stupida. Avevo quasi quarant'anni e ancora continuavo a illudermi che un rospo si trasformasse in principe azzurro. Mentre cercavo di riscuotermi dallo stato di abbattimento, mi resi conto che sul pianerottolo ristagnava uno strano odore. Inspirai con forza, nel tentativo di identificarlo e scoprire perché facesse risuonare un campanello d'allarme nella mia mente. E poi capii. Fumo! Schizzai in piedi. Sul pianerottolo si affacciavano solo due porte, e una era la mia. L'odore doveva provenire dall'appartamento accanto. Sollevando il kimono per evitare di inciamparvi, mi precipitai a battere i pugni contro la porta blindata.

    «Gisela! Gisela!»

    Nessuno mi rispose. Allora mi sporsi per le scale e chiamai aiuto con quanto fiato avevo in gola. Rientrai di corsa in casa, lanciandomi sul telefono all'ingresso. Alla reception c'era un'oca, che ci mise qualche prezioso minuto di troppo a capire di cosa stessi parlando e alla fine, quando ebbe compreso per bene, si fece prendere dal panico. A quel punto non importava più. Rumori di passi e voci concitate annunciarono che i soccorsi erano arrivati. Sbattei giù la cornetta e uscii di nuovo. Le scale erano state invase da una decina di uomini, senza distinzione gerarchica, dal direttore del residence agli addetti alla manutenzione. Il portiere di giorno, emozionato da tutta quell'agitazione, armeggiava con le chiavi d'emergenza. Infine, emettendo un grugnito di soddisfazione, spinse la porta, che si aprì.

    «Fatto!»

    La piccola torma di soccorritori si riversò nell'appartamento, con me al seguito.

    «Dov'è il fuoco?»

    «C'è nessuno?»

    «Cercate nelle stanze, presto.»

    «Ehi, c'è qualcuno nella camera da letto.»

    «Gisela!» Mi precipitai nella stanza, in tempo per vedere il ragioniere e l'uomo delle pulizie sollevare a braccia uno sconosciuto seminudo. Della mia vicina non c'era traccia.

    «Mamma mia, questo pesa un quintale! Venite a darci una mano.»

    Il direttore si fece avanti e afferrò le gambe dell'uomo, poggiandosele sui fianchi come le aste di una carretta. Anche in quest'incombenza riuscì a mantenere intatta la sua inamidata dignità da preside di liceo.

    «Avanti, fuori di qui o soffochiamo tutti.»

    «Dove lo portiamo?»

    «Da me» suggerii, precedendoli nel corridoio. «È il posto più vicino. Intanto, chiamate un dottore. Avete trovato Gisela?»

    «No, la signorina non è in casa, è partita stamattina presto» spiegò il portiere.

    Gisela era una specie di hostess, o accompagnatrice turistica, non ho mai capito bene. Una tedesca bionda sul metro e ottanta, modello valchiria. Non trascorreva molto tempo in casa; per lo più la incontravo per le scale, mentre era di ritorno da - o in partenza per - qualche esotico posto all'altra parte del mondo.

    Spalancai la porta del mio appartamento per far passare gli uomini. Feci segno di poggiare l’infortunato sul divano del soggiorno. Adagiato sui cuscini, il corpo dell'uomo aveva un aspetto inquietante, così nudo, a parte un paio di boxer bianchi. Era abbronzato, con il torace ampio ricoperto d'una peluria ispida e selvaggia, e i capelli neri ricadenti in ciuffi disordinati sulla fronte. Non aveva addosso un filo di grasso, ma muscoli d'annata accuratamente coltivati; solo un leggero rilassamento attorno alla mascella e qualche piega di troppo attorno agli occhi rivelavano i segni dell'età. Nonostante il frangente, non potei fare a meno di ammirare i gusti di Gisela in fatto di uomini. Non era giusto: perché a me non capitava mai un tipo così?

    Il dottore arrivò: un ometto pelato dall'aria seccata, che si mise a esaminare il colosso esanime, toccandolo appena con le dita, quasi temesse di infettarsi.

    «Che dice, dottore? È morto?»

    «Macché morto» esclamò, levandosi in piedi di scatto. «È ubriaco fradicio, ecco cos'è. Comunque sarà meglio chiamare un'ambulanza, con il fumo non si sa mai.»

    «Già fatto.» La voce del direttore, composta e fredda come sempre, mi fece girare verso di lui. Stava risistemandosi le maniche della giacca, guardando ostilmente lo sconosciuto.

    «Avete trovato la causa dell'incendio?»

    «Sì. Qualche deficiente» e qui le sue labbra si piegarono leggermente per il disprezzo, «ha buttato un mozzicone di sigaretta in un cestino della carta straccia. Non ci sono stati molti danni, per fortuna.»

    Si voltò verso l'assembramento alle sue spalle e inarcò un sopracciglio. «Credo che lo spettacolo sia finito» asserì. «Tornate alle vostre occupazioni, prego.»

    Quando anche l'ultimo dei soccorritori fu scomparso oltre la soglia, si girò verso di me e mi guardò. La cosa mi parve allarmante. E ancora di più quando mi accorsi che il suo viso si andava atteggiando all'espressione melliflua delle persone che stanno per comunicare una cattiva notizia.

    «Signora Poggi, posso parlarle in privato?»

    L'immagine del letto sfatto mi imbarazzò la mente. «Va bene anche qui» risposi, stringendomi con dignità nel kimono.

    L'uomo sul divano sembrava ancora del tutto inconscio.

    «La prego di credere che la cosa m'addolora molto, ma…» Pausa a effetto. Scuotimento del capo. Commiserazione. «Devo chiederle di lasciare libero l'appartamento a breve termine.»

    Boccheggiai per lo sgomento. Allungando una mano verso il tavolo, mi ci puntellai contro; avevo la sensazione che il pavimento stesse ballando. «Come, lasciare libero, perché?»

    Il direttore allargò le braccia e l'espressione addolorata s'accentuò. «Il suo affitto è in ritardo di cinque mesi. Ha ricevuto decine di richiami. A questo punto, mi spiace, ma lei capisce…»

    «Ma l'architetto!» esclamai, sicura che si trattasse di un equivoco. Non era da ridere? Dopo quattro anni con Giangi, ancora pensavo a un equivoco. «È sceso pochi minuti fa, è passato in direzione per saldare… Deve trattarsi di un errore…»

    Gli occhi color fango del direttore si fissarono sui miei, ironici. Scostai una sedia e crollai a sedere pesantemente.

    «Non è passato?»

    «Mi dispiace.»

    Per qualche secondo mi calò addosso una terribile apatia. Poi, facendo uno sforzo, alzai lo sguardo sul direttore, che sembrava in attesa. «Mi dia almeno un po' di tempo per cercare di rimediare. Il mio compagno deve partire per un viaggio di lavoro, ma non appena sarà di ritorno…»

    Lui sollevò le palme davanti alla faccia, come in segno di resa. «La prego» disse, «non renda più penosa la situazione. Non è la prima volta, e avete avuto decine di richiami.»

    Non lo sentii uscire. Quando tornai ad alzare la testa, non c'era più. Ero rimasta sola, con l'uomo ubriaco sdraiato sul divano. Lo fissai per controllare se non stesse rinvenendo e mi resi conto che mi ricordava terribilmente qualcuno. Ero così intenta a cercare di capire chi, che i colpi battuti contro la porta mi fecero saltare per aria. Mi affrettai ad aprire e una coppia di paramedici con la barella esplose all'interno del salotto. L’amico di Gisela venne esaminato rapidamente e quindi portato via, non senza qualche rimostranza da parte degli incaricati. Immaginavo che avessero di meglio da fare che occuparsi di ubriaconi distratti, ma che c’entravo io?

    Rimasta sola, continuai per un po' a guardare la porta chiusa. Mi sentivo priva d’energia, completamente svuotata. Non sapevo che fare. Alla fine mi staccai da lì e andai in cucina. Estrassi dal frigo una delle bottiglie di champagne che Giangi aveva comprato, in caso l’Italia vincesse i mondiali di calcio, poi richiusi lo sportello con una ginocchiata. Nell'armeggiare con la gabbietta di fil di ferro, mi spezzai due unghie. Il tappo esplose d'improvviso e il vino eruttò sul kimono, bagnandomi dal petto in giù. Senza preoccuparmi di cercare un bicchiere, m'attaccai al collo della bottiglia e tornai in camera da letto. Sprofondai sul materasso, la bottiglia stretta sullo stomaco, e gemetti a lungo. Tanto, non c’era nessuno che potesse sentirmi. Come avevo fatto a finire in quel pasticcio? Come avevo potuto permettere che Giangi prendesse il controllo della mia vita? Perché sei una scema, sembrò rispondermi il fondo dello champagne. Scema, ma non abbastanza ubriaca. Non ancora. Mi alzai e andai a procurarmi dell'altro.

    A tutt'oggi, non ho ben capito cosa mi abbia spinto tra le braccia di Giangi, né perché mi fossi incaponita nel proposito di sposarlo. In fondo, al tempo in cui l’avevo incontrato, avevo già avuto le mie esperienze di vita. Mi ero innamorata, sposata, e poi ero diventata vedova. Ero una professoressa di diritto piuttosto

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