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Miss Boswell e Sua Signoria: Gli amori dei Bawden, 5
Miss Boswell e Sua Signoria: Gli amori dei Bawden, 5
Miss Boswell e Sua Signoria: Gli amori dei Bawden, 5
E-book375 pagine4 ore

Miss Boswell e Sua Signoria: Gli amori dei Bawden, 5

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Info su questo ebook

Lui: ereditiere sprezzante e libertino. Lei: sfrontata figliastra di un locandiere. Non hanno niente in comune, eppure i loro destini si intrecceranno portando non poche sorprese.
"Ombre Rosa" è una collana e insieme un viaggio alla riscoperta di un'intera generazione di scrittrici italiane che, tra gli anni Settanta e gli anni Duemila, hanno posto le basi del romanzo rosa italiano contemporaneo. In un'era in cui finalmente si colgono i primi segnali di un processo di legittimazione di un genere letterario svalutato in passato da forti pregiudizi di genere, lo scopo della collana è quello di volgere indietro lo sguardo all'opera di quelle protagoniste nell'ombra che, sole, hanno reso possibile arrivare fino a questo punto, ridando vita alle loro più belle storie d'amore.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mag 2024
ISBN9788727061313
Miss Boswell e Sua Signoria: Gli amori dei Bawden, 5

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    Anteprima del libro

    Miss Boswell e Sua Signoria - Roberta Ciuffi

    Roberta Ciuffi

    Miss Boswell e Sua Signoria

    SAGA Egmont

    Miss Boswell e Sua Signoria

    Cover image: Freepik

    Copyright ©2000, 2024 Roberta Ciuffi and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788727061313 

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Un doveroso ringraziamento alle care amiche,

    Giusy Valenti e Teresa Siciliano, che si sono prestate

    a leggere questo libro e spulciarne gli errori. Un abbraccio,

    carissime!

    Londra, 1821 

    «Sposarci? Tu e io?» Sylvester Landon scoppiò a ridere.

    Se avesse atteso solo un istante prima di rispondere, si sarebbe reso conto che stava per fare una sciocchezza ma, quando si trattava di donne, non era più abituato a pensarci molto. Dava per scontato che loro, come lui, sapessero esattamente cosa aspettarsi dalla relazione e non pretendessero qualcosa di diverso. Per cui, ancora per un paio di minuti rimase convinto che Celia stesse scherzando: il tempo di finire di sistemarsi la cravatta davanti al grande specchio che copriva quasi per intero lo spogliatoio della stanza da letto padronale di Ashton House, la residenza londinese della Baronessa Vedova Powys.

    Detestava vestirsi senza l’assistenza del suo valletto, ma una certa necessaria delicatezza imponeva che si recasse da solo a quegli appuntamenti. Naturalmente chiunque poteva vedere il suo elegante phaeton High Flyer entrare nel cortile di servizio, sul retro, e dubitava che il suo ingresso nella residenza sfuggisse a occhi curiosi, ma portarsi dietro un valletto avrebbe superato di molto quelle inevitabili falle nella discrezione.

    Sollevando lo sguardo, colse quello di Celia riflesso nello specchio. E il sorriso gli morì sulle labbra. Se mai aveva visto una donna infuriata, quella era la Baronessa Vedova Powys. I suoi occhi mandavano scintille e sulle guance nivee erano fioriti due pomelli scarlatti.

    «Che cosa ci trovi di tanto divertente?» sibilò lei, aumentando in Sylvester l’improvviso senso d’allarme.

    Si girò lentamente, abbassando le braccia. Aveva come l’impressione che presto avrebbe avuto bisogno di usarle per proteggersi. «Era uno scherzo… vero?» chiese, con la voce un po' esitante sul finale.

    «Uno scherzo?» ripeté Celia, avanzando di un paio di passi.

    Aveva un aspetto così minaccioso che lui fu tentato di arretrare. In tempo di guerra aveva talvolta partecipato a delle missioni di spionaggio in cui gli era capitato di correre dei rischi, ma non aveva mai provato quel senso epidermico di disagio, la sensazione che i suoi capelli si stessero drizzando sulla testa.

    «Per te sposare me sarebbe uno scherzo?» proseguì lei, con le labbra serrate tra cui si intravedevano i perfetti denti bianchi.

    A Sylvester venne in mente l’immagine di un gatto infuriato, le zanne pronte ad affondargli nella gola. «Per me è uno scherzo sposare chiunque» tentò di districarsi con un mezzo sorriso. «Almeno, finché il mio caro nonno non si deciderà a passarmi il titolo… solo allora mi metterò in cerca della mia duchessa.»

    Dallo scintillio negli occhi di Celia fu evidente che il tentativo di ammansirla era andato a vuoto. «E per quale motivo dovresti aspettare fino allora? Non stiamo bene assieme?» chiese avanzando con il passo di un felino che avesse puntato la preda. Nonostante la forzata dolcezza della voce, era percepibile una nota metallica che rendeva la domanda minacciosa.

    Sylvester strinse le mascelle e fissò la donna che si stava avvicinando con il più gelido di quegli sguardi che, nel suo ambiente di giovani gaudenti, gli avevano guadagnato la fama di un tizio dal cuore di ghiaccio per cui nulla al mondo meritava attenzione. «Stiamo molto bene» disse con intenzione. «Ma non sono sicuro che questa condizione resisterebbe ad anni di convivenza. Credevo fossimo d’accordo che si trattava solo di un po' di divertimento.»

    Lei era arrivata così vicino che il suo caldo aroma di donna misto a quello del profumo pesante che usava gli fece vibrare le narici per una punta di disgusto. Celia dovette accorgersene perché un lampo d’acciaio le attraversò lo sguardo chiaro. Tuttavia, il suo volto non rivelò neppure un guizzo di fastidio e per un istante Sylvester dovette ammirare il suo controllo.

    «Gli accordi possono cambiare» disse, poggiandogli sul petto la mano dalle dita aperte.

    E anche questo era ammirevole, in una donna che internamente doveva ribollire di collera. Sarebbe stata una buona spia, pensò Sylvester, ma quando lei si allungò come per baciarlo decise di averne abbastanza. Voleva andarsene da quella casa eccessivamente carica di mobili, tendaggi e ninnoli, da quei profumi pesanti e da quella donna che sembrava volerlo avvolgere nella sua ragnatela.

    «Scusami, dolcezza, ma ho un impegno importante» disse, afferrandole i polsi e abbassandoli ai suoi fianchi. Arretrò, tenendola d’occhio.

    D’improvviso lei fu immobile come una statua, respirando in modo inavvertibile, quasi che il trauma di essere stata rifiutata – lei! – l’avesse privata della capacità di ragionare. Sylvester decise di chiarire la situazione, che stava evidentemente prendendo una svolta sgradevole quanto inattesa.

    «Temo che le mie faccende mi terranno impegnato anche in futuro» aggiunse. «Molto spiacente, mia cara, ma devo prendere congedo.»

    Con un cenno secco del capo, si girò e si avviò verso la porta, che aprì e superò appena in tempo per evitare di ricevere una pesante tabacchiera d’oro sulla nuca. Chinandosi con disinvoltura a raccoglierla, fece scattare la chiusura ed esaminò la miniatura all’interno del coperchio: la bella Celia sdraiata su un sofà nella più classica delle pose… a parte che era completamente nuda. Richiuse la tabacchiera e la depose su una mensola laterale del corridoio. Non aveva bisogno, né voglia, di portare con sé un ricordo di quella che era adesso la sua ex–amante. Di sicuro avrebbe infastidito quelle future.

    Mentre camminava verso il retro della casa, dove si trovavano le rimesse delle carrozze che servivano la fila di abitazioni che si allungava sulla via, meditò su quella strana faccenda.

    Come poteva essersi sbagliato tanto? Prima ancora di intraprendere la loro breve relazione, era stato brutalmente chiaro con la Baronessa Powys, perché non sorgessero equivoci. Lei aveva addirittura riso del suo bisogno di esprimere quell’avvertimento.

    «Mio caro» aveva detto, agitando ventaglio e ciglia quasi all’unisono, «credete che dopo tre mariti abbia voglia di procurarmene un altro? Dovete ritenermi una donna di animo eroico.»

    La bella baronessa, che non aveva superato i trentacinque anni, era difatti al suo terzo lutto anche se non sembrava curarsi di rispettarlo a lungo prima di passare a consolarsi con un nuovo marito o un nuovo amante. Nel giro di gaudenti buoni a nulla – come li chiamava il nonno di Sylvester, il Duca di Moreton – era soprannominata la Vedova Nera.

    Cosa poteva aver prodotto quel cambiamento?

    Lo stalliere di servizio portò fuori il phaeton High Flyer e vi aggiogò i due splendidi grigi che gli erano costati un occhio della testa, facendoli girare in direzione dell’uscita dalla via. Sylvester balzò sull’alto sedile e mise in movimento il calessino, la mente occupata da seccanti pensieri.

    In realtà, anche se avesse avuto intenzione di ammogliarsi – e per il momento non era così – non avrebbe mai preso in considerazione la Vedova Nera. Non perché – come sostenevano alcuni di quei buoni a nulla – temesse di andare ad aggiungersi alla fila dei mariti che furono un tempo, ma perché c’era qualcosa nel suo carattere e nel suo atteggiamento che l’aveva costretto ad alzare la guardia. Una vena di… follia. La follia orgiastica e feroce di una baccante. Non era qualcosa che a suo nonno sarebbe piaciuto, nella donna che doveva diventare la duchessa del suo erede. E neppure a lui.

    Aveva già deciso di interrompere il rapporto, anche se non aveva previsto che sarebbe accaduto così in fretta. Né in modo così emotivo. L’emotività era qualcosa che Sylvester Landon non apprezzava.

    Il percorso fino alla sua residenza all’Albany fu breve, rallentato solo dalla necessità di rispondere al saluto di diversi conoscenti che a quell’ora pomeridiana ingannavano il tempo attraversando in carrozza le vie centrali di Londra, per nessun altro scopo che di guardare e farsi guardare.

    L’Albany, in origine un maestoso palazzo edificato a Piccadilly per il primo Duca di Melbourne, nel tempo era stato ampliato e trasformato in un centinaio di appartamenti per scapoli, di dimensioni relativamente ridotte. Quello di Sylvester consisteva in cinque stanze elegantemente arredate e corredate di servitù, rappresentata da un valletto, un cameriere, un cuoco e un tuttofare. Dando sulla corte, era uno degli appartamenti più ambiti e Sylvester aveva ricevuto diverse proposte di venderlo, nei periodi in cui si faceva più forte la voce che i suoi debiti di gioco avessero raggiunto proporzioni insostenibili. Un paio di volte era stato tentato di farlo, ma la sistemazione era troppo comoda perché al pensiero facesse seguito l’azione.

    La residenza era una sorta di enclave dove vivevano esclusivamente gentiluomini soli, che potevano risiedervi nella sicurezza di non essere disturbati da bambini fastidiosi o donne esigenti, poiché l’ingresso era loro vietato. Questo dispensava Sylvester dal ricevere in casa le sue amanti e dal fastidio di escogitare un sistema per liberarsi di loro, quando il motivo per cui erano venute si era ormai esaurito. Inoltre, era molto più comodo che mantenersi nella residenza cittadina annessa al suo titolo, troppo vasta e dispendiosa per le sue tasche, che disgraziatamente non poteva vendere ma il cui affitto gli rendeva bene.

    Quando – si era quasi rassegnato a dire se  – suo nonno gli avrebbe lasciato il posto che gli competeva nella società e nella House of Lords, ci sarebbe stata Moreton Hall ad aspettarlo.

    Suo nonno, il Duca di Moreton, era un uomo di tempra eccezionale. Era sopravvissuto a un paio di attacchi di apoplessia dovuti principalmente alla sua predilezione per i cibi grassi e le amanti giovani e sembrava destinato a vivere per sempre.

    Sylvester portò il calessino alle rimesse e lasciò i cavalli alle cure degli stallieri, quindi attraversò la corte della residenza. Il portone gli fu aperto da un maggiordomo robusto e imponente, un ex–poliziotto, che vegliava sulla tranquillità e l’onorabilità dell’Albany.

    L’uomo chinò il capo in un saluto, cui Sylvester replicò con un: «Buona serata, Atkins. Il collegio è tranquillo?»

    «Come sempre, mio signore» rispose l’altro. «È arrivata una lettera per voi. L’ho consegnata al vostro cameriere.»

    Sylvester storse la bocca. Era raro che la sua posta contenesse qualcosa di interessante. In genere si trattava di lettere di donne che si dichiaravano disperate, o di solleciti di pagamento per indumenti o cavalli. Quanto ai debiti di gioco di cui si vociferava, non avrebbe mai commesso qualcosa di così indegno come lasciar passare più di ventiquattro ore prima di saldarli. Era quello che ci si aspettava da un gentiluomo.

    Il maggiordomo parve avergli letto nella mente, perché aggiunse: «La lettera è stata consegnata da un lacchè di vostro nonno, Sua Grazia il Duca di Moreton».

    Sylvester trattenne un gemito di disgusto. Non un’altra predica sul suo indegno sistema di vita… non da quel pulpito! Mentre il nonno sembrava affetto da una singolare cecità riguardo al proprio sistema di vita, non aveva remore a lanciarsi in sferzanti invettive contro quello di suo nipote, il suo futuro erede… un giorno molto lontano.

    Salì al primo piano, dove si trovava la sua sistemazione, come la chiamavano i gentiluomini residenti. Il suo valletto, Corgin, venne ad aprire. Prima che terminasse di comunicargli la notizia, lo sguardo di Sylvester era già sul vassoio d’argento poggiato sul tavolo laterale. Eccola là, la lettera, tra diversi biglietti che probabilmente contenevano inviti a qualche ricevimento.

    «Grazie, Corgin, sono stato avvertito» disse, afferrando il piccolo plico e dirigendosi verso il salotto. L’uomo chinò il capo e sparì nella hall di servizio con la silenziosità di un fantasma. Sylvester non intratteneva rapporti amichevoli con il suo personale. Anzi, se ci pensava poteva dire di intrattenere rapporti veramente stretti con pochissime persone al mondo. Ma non aveva voglia di contare quante fossero in realtà.

    Si lasciò cadere nella sua poltrona preferita e soppesò la lettera. Leggera. Di solito le prediche del nonno occupavano almeno tre pagine di recriminazioni, scritte su entrambe le facciate… il vecchio taccagno!

    Con un altro sospiro, ruppe il sigillo di ceralacca, scoprendo un foglio singolo. Bizzarro. Una rapida scorsa alla scrittura angolosa che conosceva bene gli fece sollevare le sopracciglia per lo sconcerto.

    Con poche frasi asciutte, il vecchio gli comunicava di aver avuto un’altra sincope, qualche mese addietro, ma di non aver ritenuto di doverlo avvertire per evitare che calasse su di lui come un avvoltoio su una carogna…

    Le sopracciglia di Sylvester raggiunsero quasi la linea dei capelli. Un avvoltoio su una carogna: che immagine suggestiva. E insultante. Ma forse veritiera.

    In seguito alla fortunata ripresa dal suo accidente, il duca aveva deciso di andare a trascorrere la convalescenza in Italia, in una villa sul lago di Garda che aveva affittato per lo scopo. La presenza del nipote non era prevista.

    La lettera terminava senza neppure un saluto.

    Sylvester la rilesse un paio di volte, cercando di intuire i sentimenti del suo unico parente, mentre la scriveva. Ira? Disgusto? Sdegno? O senso di rivalsa, per essere riuscito di nuovo a gabbare la morte e deludere le sue aspettative? In realtà lui aveva saputo di un suo malessere, circa un anno addietro, ma gli era stato detto che non si trattava di nulla di importante e questo era il motivo per cui non si era presentato al suo presunto capezzale. Non aveva immaginato che fosse qualcosa di davvero grave.

    Scosse il capo e piegò il foglio in quattro parti, come se dovesse conservarlo, ma infine lo strappò e ne gettò i pezzi nel camino, dove la mattina dopo Corgin avrebbe acceso il fuoco dandogli la fine che meritava.

    Fu solo a quel punto che un sospetto penetrò nella sua mente. L’improvviso bisogno di matrimonio di Celia… che avesse subodorato qualcosa? Se qualcuno l'avesse informata della precaria salute del vecchio? E di quanto vicino Sylvester Landon si fosse trovato a ereditare il titolo ducale?

    Se così era, l’ignoto informatore era stato troppo frettoloso nel trasmettere la notizia e non aveva tenuto conto della natura ostinata del vecchio duca e del suo attaccamento alla vita.

    Bene, non aveva nessuna importanza, pensò, alzandosi per andare a versarsi il primo bicchiere di brandy della giornata. Di solito preferiva qualcosa di più leggero, come un Madera secco o un Porto, per non rischiare di confondere la mente in previsione di una partita a carte nella serata, ma quel giorno sembrava meritare qualcosa di più forte per sostenere i suoi nervi.

    Andò alla finestra, che dava direttamente sulla corte dove alcuni giovani dandy camminavano chiacchierando e tirando i loro cavalli per la cavezza. Probabilmente erano reduci da una gara e stavano cercando di dare agli animali il tempo di riprendersi prima di portarli nelle stalle sul retro, dove gli stallieri non si sarebbero fatti scrupolo di dar loro una lavata di capo per averli fatti sforzare con la temperatura già elevata di quel giorno di giugno.

    Sylvester bevve un lungo sorso di brandy, le ciglia aggrottate, la mente che si rifiutava di allontanarsi dal contenuto della lettera.

    Quando la barriera che aveva elevato attorno alle proprie emozioni si indeboliva, non poteva fare a meno di dolersi che l’unico parente che aveva al mondo non sembrasse provare altro che astio e repulsione nei suoi confronti. Doveva ammettere che dalla maggiore età in poi aveva fatto la sua parte per rafforzare quei sentimenti, ma questi erano nati molto prima che lui raggiungesse l’età della ragione. In realtà, erano iniziati con la sua stessa nascita.

    Il padre di Sylvester, Sebastian Landon, era stato un figlio cadetto e come tale destinato alla carriera militare che aveva intrapreso in giovanissima età, finendo in India nella Bengal Army, a difendere gli interessi della Compagnia delle Indie per conto della Corona. Non avendo alcuna aspettativa riguardo al suo rango, appena raggiunti i venticinque anni aveva sposato la figlia di un sergente della stessa armata, Rose, nata in India e la cui discendenza non era del tutto impeccabile. Nelle vene di sua madre scorreva sangue indigeno.

    Il vecchio duca si era infuriato, ma la questione non era divenuta rilevante finché il suo figlio maggiore ed erede, John, non era annegato durante il tentativo di attraversare a nuoto l’Ellesponto. Una circostanza singolare, aumentata dal fatto che nessuno era riuscito a trovare un motivo valido per cui si trovasse in quella località, meta di solito di personalità appassionate di arte e letteratura, cosa di cui il giovane marchese non era mai stato sospettato.

    In seguito a questo, Sebastian, sua moglie Rose e il loro figlio neonato Sylvester, erano stati bruscamente richiamati in patria. La sfortuna però continuò a imperversare sulla stirpe dei Landon. Un'improvvisa burrasca in mare provocò l’affondamento della nave su cui la piccola famiglia viaggiava con l’accompagnamento dei suoi servitori. Al posto dell’erede designato, a presentarsi a Moreton Hall furono un’amah indiana con due neonati attaccati alla schiena tramite un’imbracatura. Uno dei neonati era il figlio della donna, l’altro Sylvester Landon, l’unico erede rimasto del Duca di Moreton.

    Per il tempo della sua infanzia che gli era stato concesso di trascorrere a Moreton Hall, e cioè fino ai sette anni, età in cui era stato spedito di collegio in collegio fino alla maggiore età, Deepali, l’amah indiana, e il figlio Ranjan avevano costituito la sola famiglia che Sylvester avesse conosciuto. Suo nonno all’epoca disertava la tenuta di campagna e lui ricordava solo con disagio le rare apparizioni di quel personaggio aspro che faceva commenti sprezzanti sul colore dei suoi capelli o la sfumatura del suo colorito che, secondo lui, dimostravano troppo chiaramente la pecca delle sue origini.

    Oltre a esibire un astio immotivato contro un bambino innocente, il Duca di Moreton non si interessava affatto a lui e la maggior parte dei suoi dipendenti – per non essere sospettati di prendere le parti del piccolo paria – si adeguava al suo atteggiamento. C’era stata una piccola sguattera di cucina che di tanto in tanto gli portava dei dolcetti di nascosto su fino alla nursery e poi gli raccontava storie della propria numerosa e poverissima famiglia, e un giovane aiuto stalliere che l’aveva messo sul suo primo cavallo. Il maggiordomo, Powell, lo trattava con equanime altezzosità, come ogni persona al di sotto di Sua Grazia con cui avesse a che fare. Tutti gli altri mostravano verso di lui il medesimo atteggiamento sprezzante del duca, lo stesso che riservavano alla famiglia di indiani. Bambino com’era, Sylvester ne aveva ricavato la sensazione di essere anche lui uno straniero, un estraneo in patria, senza legami affettivi con l’unica persona del suo sangue.

    La prima volta che era tornato a Moreton Hall dalla scuola, aveva scoperto che quegli indiani – come li chiamavano i domestici – erano stati spediti da qualche parte e nessuno aveva saputo o voluto dirgli dove. La sguattera aveva trovato un posto migliore in un’altra tenuta della zona, mentre lo stalliere era stato licenziato per essersi opposto alla vendita del pony di Sylvester, quello su cui aveva imparato a cavalcare. Da allora non era più tornato alla tenuta per le vacanze. Dapprima aveva trascorso quei periodi a scuola, poi aveva iniziato a essere invitato nelle case dei suoi molti compagni di corso. L’erede di un duca poteva essere sicuro di avere sempre un posto nel cuore della società, anche se non lo aveva in quello di suo nonno.

    Sylvester scosse la testa e poi finì in fretta il suo brandy, respingendo ricordi e rimpianti. Era inutile rammaricarsi per qualcosa che non poteva essere cambiato.

    Andò a posare il bicchiere sul tavolo con i decanter e il suo sguardo cadde sui brandelli della lettera nel camino. Le parole del nonno gli tornarono in mente. C’era qualcosa di strano. Italia, il lago di Garda? Il vecchio non era avaro con i propri piaceri, solo con le esigenze altrui, ma aveva sempre manifestato il massimo disprezzo per tutto ciò che era straniero. Sylvester si sarebbe aspettato che andasse nella zona dei laghi o alla sua piccola tenuta in Scozia, per riprendersi dalla sincope. Forse era solo una stravaganza dovuta all’età. Forse il vecchio stava diventando finalmente senile.

    Si strinse nelle spalle. Pensò al vassoio d’argento, con i biglietti da visita e i messaggi che non si era curato di raccogliere. Di sicuro là in mezzo ci sarebbe stato un invito a qualche intrattenimento passabile, un modo per trascorrere la serata dimenticando un paio di situazioni sgradevoli. Niente di particolarmente selvaggio, però. Non aveva voglia di dare a suo nonno la soddisfazione di tirare le cuoia prima di lui.

    Il ballo di Lady Orwell sarebbe probabilmente stato l’ultimo della stagione e Sylvester riteneva che fosse un gran sollievo. Faceva davvero troppo caldo per simili intrattenimenti e gli ospiti apparivano piuttosto annoiati e stanchi e non solo per la temperatura, la sala affollata, la costrizione degli abiti formali. Probabilmente nei mesi precedenti avevano partecipato a troppi eventi simili a quello e adesso agognavano alle loro case di campagna, chi ne possedeva, mentre gli altri si stavano arrovellando su dove trovare ospitalità per l’estate.

    Rigirandosi tra le dita un bicchiere pieno di champagne tiepido, Sylvester si chiese dove sarebbe andato, lui. La tenuta di suo nonno era fuori questione: dal tono della lettera era chiaro che la sua presenza, anche con il duca assente, non era benaccetta.

    Da circa cinque anni lui stesso possedeva una piccola tenuta non troppo distante da Moreton Hall, ricevuta da un prozio deceduto senza figli, di cui era risultato l’erede più prossimo. Per quanto modesta fosse quella fortuna, aveva scatenato nel Duca di Moreton un accesso di furia tanto forte da procurargli una delle sue sincopi. Che il detestato nipote detenesse un titolo e dei beni che non dipendessero da lui e che non potesse usare per ricattarlo, dirigerlo, manovrarlo, lo aveva reso pazzo di frustrazione.

    Sylvester ghignò senza troppo divertimento, portando il bicchiere alle labbra. La sua attuale posizione sociale non era molto elevata in confronto a quella che lo aspettava in futuro, ma per suo nonno lo era sempre troppo. Si era rifiutato di concedergli un titolo di favore e un appannaggio che superasse quanto gli spettava come eredità di suo padre e vedere il nipote mezzosangue – come lo definiva – in possesso di una posizione in società non gestita da lui e di un minimo di autonomia doveva fargli ribollire il sangue. Veniva voglia di farsi vedere alla House of Lords, una volta ogni tanto, solo per la speranza che la collera facesse definitivamente collassare il vecchio mascalzone. Be', quasi voglia, pensò lanciando un pigro sguardo alle bellezze presenti, alla ricerca di un possibile rimpiazzo per Lady Powys.

    Un modo in cui non aveva intenzione di trascorrere le calde giornate estive, era andare nella sua tenuta, Crenshaw Dell. In cinque anni ci aveva passato forse una decina di giorni in tutto e ne aveva ricavato l’impressione di un luogo privo di un minimo di società civile. No, forse sarebbe andato nel Continente, adesso che era pacificato e si poteva girare con tranquillità. A far visita al suo vecchio amico Lucien de Verville, ora felicemente sposato con Lady Elizabeth – un tempo Bawden – e, a quanto gli diceva in una recente lettera, padre felice di un bel maschietto.

    Una maligna tentazione di presentarsi sul lago di Garda, in quella villa magnificata da Lord Moreton, gli fece stendere le labbra in un sorriso sardonico. Fu solo un pensiero fuggevole, perché, per quanto divertimento potesse procurargli contrariare suo nonno, non pareggiava il tormento di incontrarlo di nuovo.

    In effetti, era molto tempo che non godeva del piacere di vedere il suo brutto muso di dispeptico, pensò, chinando il capo in un saluto in direzione di una graziosa signora della giusta età per aver bisogno di un conforto extra–coniugale.

    «Ehi, voi, Landon!»

    Qualcuno lo urtò alle spalle, facendolo sussultare e causando il traboccare dello champagne dal calice. «Ma che…?» Si girò, sollecitato da un altro spintone.

    Di fronte a lui c’era un giovanotto che per qualche istante faticò a riconoscere. Più che un giovanotto, un cucciolo, pensò, appena uscito dalla scuola… se mai ne aveva finita una. Capelli biondo platino, occhi celesti, pelle chiarissima ora arrossata dall'agitazione. Battendo le palpebre, riconobbe Michael Delaine, il fratello minore di Lord Mitcham, suo frequente avversario ai tavoli da gioco. Non qualcuno che potesse davvero chiamare amico, ma un buon conoscente.

    «Delaine! Che avete, vi sentite male?» chiese, inarcando un sopracciglio, deciso a offrirgli il beneficio del dubbio.

    «Voi siete un mascalzone e un miserabile» affermò il ragazzo, con la voce tremante per la determinazione a essere insultante, un qualcosa che non doveva venirgli naturale.

    Sylvester sorrise e sollevò il calice. «Bene, credo che questo sia sufficientemente noto. Perché sentite il bisogno di rinfrescarmi la memoria?»

    Alla sua replica, l’altro spalancò la bocca e la richiuse un paio di volte. Un’occhiata lanciata di lato portò l’attenzione di Sylvester in un punto della sala dove una dama bionda vestita di un abito blu semitrasparente fissava la scena, gli occhi scintillanti nel volto che faticava a restare impassibile. Celia.

    Reprimendo un’imprecazione, tornò a portare lo sguardo sul ragazzo di fronte a lui. «Credo che abbiate bevuto troppo per stasera, Delaine» disse, nel tono indifferente di un adulto che si rivolge a un imberbe maschio non abbastanza importante da accendere la sua collera. «Capita, ai ragazzi appena usciti dalla scuola. La vita di società può travolgere le menti ancora immature. Vi consiglio di tornare a casa e dormirci sopra.»

    Fece per girarsi ma, dopo una lieve esitazione, l’altro lo afferrò per la spalla e lo strattonò. «Avete insultato una signora che gode della mia protezione» stridette la voce ancora non del tutto formata.

    Ma quanti anni poteva avere? Diciassette? Diciotto? Prima che lui riuscisse a replicare, Delaine continuò: «Vi sfido a rendermene ragione sul campo».

    Tutto attorno a loro si stava formando un capannello di curiosi, felici di godere finalmente di un intrattenimento diverso dai soliti.

    Sylvester colse un lampo di compiacimento negli occhi di Celia. Una cupa corrente d'ira gli scorse per le vene. Baldracca. Doveva essere stata lei a istigare il ragazzo per provocare quella scenata pubblica. Adesso avrebbe dovuto accettare la sfida e…

    Scosse la testa. «No» disse, con decisione.

    «Come?» Sul volto di Michael Delaine si diffuse un’incredulità quasi comica. «Non accettate la mia sfida?»

    «No, mio caro ragazzo, e per due motivi» disse Sylvester, arretrando di un passo per allontanarsi dalla mano ancora protesa dell’altro. «Uno, perché io non voglio rischiare di uccidere o rendere invalido un cucciolo per il piacere di una signora. Due, perché quella signora… è in realtà qualcosa di completamente differente e che voi preferireste non sapere.»

    «Che dite… come osate… non potete insultare…» farfugliò il ragazzo, il volto di un rosso barbabietola. Nonostante la sua esibita furia, stava tremando. Aveva paura e con ragione.

    Non avendo avuto niente di meglio in cui impiegare il suo tempo, Sylvester Landon aveva potuto affinare le sue abilità nella spada e nel tiro, facendosi una solida reputazione di avversario pericoloso per chi volesse sfidarlo. Era anche un pugile abbastanza

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