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La piccola città dei sopravvissuti
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La piccola città dei sopravvissuti
E-book461 pagine7 ore

La piccola città dei sopravvissuti

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Info su questo ebook

«Abbiamo bisogno di libri come questo, per non dimenticare.»
Spectator

Una storia vera
Una pagina inedita e toccante della seconda guerra mondiale 

Dopo il successo di un treno per Auschwitz, Caroline Moorehead ci racconta un’altra pagina inedita e toccante della seconda guerra mondiale: la storia degli abitanti di un paesino francese che salvarono migliaia di persone dalle violenze e dalle rappresaglie della Gestapo.
Chambon-sur-Lignon si trova nell’Alta Loira, al centro della Francia. Ebrei, comunisti, partigiani, agenti segreti britannici e americani sono solo alcuni di coloro che vennero fortuitamente messi in salvo dai generosi protagonisti del libro. Moltissimi furono anche i bambini – orfani di guerra o figli di deportati nei lager – che se la cavarono grazie al loro intervento. Grazie a uno straordinario lavoro di ricerca condotto in Francia, Gran Bretagna e Germania, l’autrice tratteggia una commovente epopea fatta di silenzi e complicità, raccontando la coraggiosa scelta degli uomini e delle donne di Chambon-sur-Lignon, che spesso sacrificarono la propria vita per salvaguardare quella degli oppositori dei nazisti.

Ogni pagina è una vita salvata

«La Moorehead ha dovuto maneggiare una gran quantità di materiale, e se l’è cavata con abilità e con un tocco lieve.»
Mail on Sunday

«Abbiamo bisogno di libri come questo, per non dimenticare.»
Spectator

«La Moorehead, biografa e storica, racconta nel dettaglio le drammatiche conseguenze negative della guerra dal punto di vista dei bambini.»
The Times
Caroline Moorehead
Nata a Londra, è giornalista, autrice e attivista per i diritti umani. Ha firmato numerose opere, tra cui la biografia di Bertrand Russell e una storia della Croce Rossa, e ha collaborato con le più famose testate internazionali, tra cui «The Independent», lo «Spectator», il «Times» e la BBC. La Newton Compton ha pubblicato Un treno per Auschwitz e La piccola città dei sopravvissuti.
LinguaItaliano
Data di uscita13 gen 2016
ISBN9788854190023
La piccola città dei sopravvissuti

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    Anteprima del libro

    La piccola città dei sopravvissuti - Caroline Moorehead

    es

    384

    Titolo originale: Village of Secrets

    Copyright © 2014 by Caroline Moorehead

    All rights reserved

    Mappe di Bill Donohoe

    Traduzione dall'inglese di Maria Cristina Cesa e Lucilla Rodinò

    Prima edizione ebook: gennaio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9002-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Caroline Moorehead

    La piccola città dei sopravvissuti

    Una storia vera

    Una pagina inedita e toccante della seconda guerra mondiale

    omino

    Newton Compton editori

    A Ann e Annie, compagne di viaggio

    Le memorie del mondo non sono un cristallo limpido e brillante, ma un mucchio di frammenti, pochi bagliori di luce che rompono il buio.

    Herbert Butterfield

    Quando cerchiamo una spiegazione al comportamento dei Giusti tra le Nazioni, non è che in fondo ci stiamo chiedendo Cosa gli è preso?. Non stiamo, in un senso più profondo, dando per scontato che il loro comportamento sia qualcosa che esula dalla normalità? Agire con benevolenza e altruismo è davvero un atteggiamento tanto insolito e fuori dal comune, così in disaccordo con la natura intrinseca dell’uomo, da meritare una meticolosa ricerca di spiegazioni? È davvero così inconcepibile che un tale comportamento sia una componente naturale della nostra costituzione psicologica, esattamente come quella egoista che siamo più propensi ad accettare come dato di fatto?

    Mordecai Paldiel

    Personaggi principali

    I pastori

    André e Magda Trocmé e i figli Nelly, Jean-Pierre, Jacques e Daniel, a Le Chambon

    Edouard e Mildred Theis a Le Chambon

    Daniel Curtet a Fay-sur-Lignon

    Roland Leenhardt a Tence

    Marcel Jeannet a Mazet

    I soccorritori

    Mireille Philip, che gestisce la rete che porta i bambini in Svizzera

    Georgette e Gabrielle Barraud, proprietarie del Beau Soleil

    Dottor Le Forestier, medico di Le Chambon

    Miss Maber, insegnante d’inglese alla École Nouvelle Cévenole

    Oscar Rosowsky, studente di medicina e abile falsario

    Mme Déléage, che trova le sistemazioni per i bambini per conto dell’ose

    Mme Roussel, cattolica che nasconde gli ebrei a Le Chambon

    Pierre Piton, boy scout che accompagna gli ebrei in Svizzera

    Émile Sèches, proprietario di Tante Soly

    August Bohny, direttore svizzero di La Guespy, L’Abric e Faïdoli

    Daniel Trocmé, direttore della Maison des Roches

    Charles Guillon, sindaco di Le Chambon

    Roger Darcissac, insegnante di Le Chambon

    Marie Exbrayat, proprietaria del negozio di ferramenta di Fay

    Lulu Ruel, proprietaria di un caffè a Mazet, e la figlia Lucienne

    Dorcas Robert, proprietaria del caffè di Yssingeaux

    Virginia Hall, agente soe e oss

    Léon Eyraud, organizzatore del Maquis

    Jean, Eugenie, Roger e Germain May, proprietari dell’Hôtel May

    Jean Deffaugt, sindaco di Annemasse

    I bambini

    Hanne Hirsch e Max Liebmann

    Simon e Jacques Liwerant

    Jacques e Marcel Stulmacher

    Genie, Liliane, Ruth e le ragazze di Roanne

    Pierre Bloch

    Gilbert Nizard con i fratelli e le sorelle

    Madeleine Sèches di Tante Soly

    I Giusti

    Abbé Glasberg, soccorritore a Vénissieux

    Père Chaillet dell’Amitié Chrétienne

    Madeleine Barot, segretario generale della Cimade

    Joseph Bass, del Service André

    I soccorritori ebrei

    Madeleine Dreyfus, dell’ose

    Georges e Lily Garel, del Circuito B dell’ose

    Liliane Klein-Liebert, assistente sociale dell’ose

    Georges Loinger, che porta i bambini in Svizzera

    Andrée Salomon, dell’ose

    Tedeschi e collaboratori

    Ispettore Praly, poliziotto di Le Chambon

    Maggiore Schmähling, comandante del presidio tedesco di Le Puy

    Robert Bach, prefetto dell’Alta Loira

    René Bousquet, capo della polizia di Vichy

    Cronologia

    1939

    1° settembre La Germania invade la Polonia

    3 settembre La Gran Bretagna, la Nuova Zelanda, l’Australia e la Francia dichiarano guerra alla Germania

    26 settembre Il governo francese dichiara fuorilegge il Partito Comunista

    1940

    29 febbraio Viene introdotto il sistema delle tessere annonarie

    21 marzo Reynaud sostituisce Daladier come primo ministro

    13 maggio L’esercito tedesco attraversa Meuse ed entra in Francia

    18 maggio Reynaud nomina l’ottantaquattrenne Pétain vice primo ministro

    24 maggio Le Forze di Spedizione Britanniche retrocedono a Dunkerque

    10 giugno Il governo francese lascia Parigi. L’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna

    14 giugno I tedeschi entrano a Parigi

    16 giugno Reynaud viene sostituito da Pétain

    22 giugno Firma dell’armistizio franco-tedesco di Compiègne (Armistice de Rethondes)

    23 giugno Hitler visita Parigi. Laval diventa vice primo ministro

    1° luglio Il governo Pétain si sposta a Vichy

    22 luglio Il governo di Vichy inizia a rivedere le regole della cittadinanza

    13 agosto I massoni vengono banditi da molte professioni

    27 settembre La Germania richiede il censimento degli ebrei nelle zone occupate

    3 ottobre Primo Statut des Juifs, che definisce l’ebraismo e bandisce gli ebrei da determinate occupazioni

    22 ottobre Gli ebrei di Baden e del Palatinato vengono rastrellati, deportati in Francia e internati

    24 ottobre Pétain incontra Hitler a Montoire

    5 novembre Creazione del Comitato di Nîmes

    1941

    Marzo Vichy forma il Commissariat Général aux Question Juives (cgqj) sotto Xavier Vallat

    14 maggio Prima rafle di ebrei a Parigi

    2 giugno Secondo Statut des Juifs

    22 luglio Le autorità legislative di Vichy sequestrano beni e aziende di ebrei

    29 novembre Vallat fonda la Union Générale des Israelites de France (ugif), presumibilmente per permettere agli ebrei di trattare da sé le questioni ebraiche

    11 dicembre La Germania dichiara guerra agli Stati Uniti

    1942

    20 gennaio La conferenza di Wannsee impegna il Reich nella Soluzione Finale

    4 febbraio Formazione del Servizio d’Ordine Legionario (sol), predecessore della Milice

    1° marzo Inizia il bombardamento alleato della Francia

    19 marzo Vallat viene cacciato dal cgqj, sostituito da Darquier de Pellepoix

    27 marzo Da Drancy parte il primo treno di ebrei per Auschwitz

    29 maggio Nelle zone occupate, agli ebrei al di sopra dei sei anni viene imposto l’obbligo di indossare una stella gialla

    30 giugno Eichmann arriva a Parigi per mettere in atto la Soluzione Finale

    16-17 luglio Rafle di ebrei a Parigi, Opération Vent Printanier. 12.884 persone arrestate

    5 agosto Inizio della deportazione degli ebrei dalle zone meridionali

    10 agosto Lamirand visita l’altopiano del Vivarais-Lignon

    13 agosto La Svizzera chiude le frontiere ai rifugiati ebrei

    Agosto Lettere di protesta da parte dei prelati francesi

    Settembre Il pastore Marc Boegner invita i protestanti a salvare gli ebrei

    8 novembre Gli Alleati sbarcano in Nordafrica

    11 novembre La Germania invade i territori meridionali

    1943

    Gennaio Combat, Libération-Sud e il ftp uniscono le forze nei Mouvements Unis de la Résistance (mur)

    18 gennaio Termina l’assedio di Leningrado

    24 gennaio I tedeschi distruggono il Vieux Port di Marsiglia

    31 gennaio Viene fondata la Milice, con Darnard segretario generale

    16 febbraio Viene introdotto il Service du Travail Obligatoire (sto)

    9 luglio Gli Alleati arrivano in Sicilia

    25 luglio Mussolini è sostituito da Badoglio

    8 settembre I tedeschi subentrano nei départements occupati dagli italiani nel Sud della Francia

    13 ottobre L’Italia dichiara guerra alla Germania

    1944

    22 gennaio Gli Alleati sbarcano ad Anzio

    6 giugno Sbarco del D-Day

    7-10 giugno Massacri di Tull e Oradour-sur-Glane a opera dei tedeschi

    15 agosto Le truppe alleate e francesi sbarcano in Provenza. Inizia la progressiva liberazione della Francia da parte degli Alleati, dell’esercito francese e della Resistenza

    17 agosto L’ultimo treno di ebrei lascia Drancy per Auschwitz

    24-25 agosto Le forze francesi entrano a Parigi. I tedeschi si arrendono

    1° settembre Le truppe francesi raggiungono Le Chambon

    23 ottobre Gran Bretagna, usa e Canada riconoscono ufficialmente il governo de Gaulle

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    Prefazione

    Nella primavera del 1953, «Peace News», il quindicinale indirizzato alla comunità pacifista in America, riportò una storia insolita. Parlava di un pastore protestante, per metà francese e per metà tedesco, di nome André Trocmé che, tra l’arrivo dei tedeschi a Parigi nel maggio del 1940 e la liberazione della Francia nell’estate del 1944, aiutò a salvare dalla deportazione nei campi di sterminio della Polonia occupata cinquemila persone tra comunisti, massoni, uomini della Resistenza ed ebrei.

    Spedito nella remota parrocchia di Le Chambon-sur-Lignon, in cima alle montagne della parte orientale del Massiccio Centrale, il pastore Trocmé, come racconta «Peace News», ispirò così tanto i propri parrocchiani che quelli, illuminati da una sorta di cospirazione al bene, accolsero, nascosero, nutrirono e fecero entrare di nascosto in Svizzera coloro che comparivano sulla lista di morte dei nazisti. Molti di questi erano bambini.

    Mentre iniziava la guerra fredda e si diffondeva il timore di un conflitto mondiale, lì c’era la prova che il messaggio gandhiano di non-violenza poteva funzionare. Una storia simile, inoltre, era un mezzo perfetto nella smania di trovare un senso agli anni di Vichy, dando meno importanza a chi collaborava e celebrando chi resisteva. Come il Vercors, dove il Maquis aveva brevemente stabilito un governo libero, divenuto un simbolo della resistenza eroica, Le Chambon poteva diventare quello della morale altruistica. In questo "pays de grand silence dove generazioni di ugonotti scelsero il silenzio, nel periodo in cui per un non cattolico era pericoloso far sentire la propria voce, «nacque la resistenza non violenta al sistema Hitler-Pétain». Un compiacente prefetto regionale e un buon ufficiale tedesco, insieme a un gruppo di risoluti, ma non sempre prudenti, abitanti del luogo completavano il cast dei personaggi. Non ci volle molto perché la gente iniziasse a utilizzare la frase banalità del bene" per descrivere la modestia e la normalità degli abitanti di Le Chambon, in contrasto con le abusate parole sul male di Hannah Arendt. Subito dopo la pubblicazione della storia su «Peace News», arrivarono elogi, articoli di giornale, memorie, documentari e film che giungono ancora oggi. Nel 1988, Le Chambon divenne l’unico villaggio al mondo a ricevere il riconoscimento dello Yad Vashem come Giusto tra le Nazioni. Era nato un mito.

    C’è un solo problema. Non tutto era come sembrava.

    Molti ebrei e uomini della Resistenza vennero effettivamente salvati, ma di certo non cinquemila e a salvarli non fu la non violenza, ma una grandiosa avventura nata nell’immaginazione e nella collaborazione. Non che non vi siano altre vicende di questo tipo, ma è il fatto che si tratti di un paese così sperduto e che abbia contato sul tacito sostegno di quasi tutti i suoi abitanti a renderla unica. C’era un prefetto abbastanza decente e un ufficiale tedesco non assetato di sangue, ma nessuno dei due può essere descritto come buono. Non ci fu un solo villaggio, Le Chambon, ma un’altra mezza dozzina nell’altopiano del Vivarais-Lignon e tanti borghi delle vicinanze e non un solo pastore protestante, ma ventiquattro, insieme ai membri di altre fedi protestanti, come darbisti e ravenisti, discendenti dei seguaci della Fratellanza di Plymouth, così come cattolici e molti altri che non professavano alcuna religione. Medici, insegnanti, professori universitari, studenti e un gran numero di scout, maschi e femmine, che giocarono ruoli chiave. E André Trocmé stesso fu un uomo molto più sottile, problematico e dubbioso di quando non racconti il mito. Un eroe per alcuni, un mitomane per altri, Trocmé, che morì nel 1971, è diventato un personaggio molto conosciuto.

    Come sempre, la verità, per quello che può essere ricostruito dopo settant’anni dagli avvenimenti, è estremamente più interessante. Il mito ha di molto semplificato la realtà. Ha anche dato il via a un incessante fiume di faide, gelosie, maldicenze, calunnie, dicerie, proteste, contro-proteste e pregiudizi, che hanno messo contro cattolici e protestanti, resistenza armata e pacifisti, civili e maquisards, credenti e agnostici, chi cercava la gloria e chi voleva rimanere in silenzio. Al giorno d’oggi la questione è ancora tanto calda quanto negli anni in cui si è trasformata per la prima volta in una miscela esplosiva di politica locale e rivalità storica. Né ha giovato, nel 2004, la dichiarazione del presidente Chirac che definì Le Chambon «la coscienza del nostro paese».

    Quello che effettivamente ebbe luogo sull’altopiano del Vivarais-Lignon durante quegli anni grigi e terribili dell’occupazione tedesca e del governo di Vichy riguarda di certo il coraggio, la fede e la morale. Ma anche la memoria fallace.

    Parte prima. In fuga

    1. Mea culpa

    Quando Aaron Liwerant portò la fidanzata Sara da Varsavia, dove viveva con i genitori, a Parigi, la Francia era un buon posto per i rifugiati. Il governo li accoglieva, garantiva la naturalizzazione ai molti polacchi, russi, galiziani e rumeni che andavano nelle fabbriche e nelle miniere a occupare i posti di lavoro lasciati vacanti dall’elevato numero di caduti francesi durante la Grande Guerra. La libreria internazionale sulla Rive Gauche vendeva libri e giornali in russo e polacco. I francesi si dimostrarono accoglienti anche nei confronti di tedeschi, austriaci, italiani e spagnoli che arrivavano sull’onda dell’ascesa al potere di Hitler, Mussolini e Franco, alcuni dei quali iniziarono a lavorare nell’agricoltura nelle zone meridionali¹.

    Aaron era un conciatore e Sara rivestiva di seta e a volte di cuoio le fibbie che il marito riportava a casa dal lavoro. La loro prima figlia, Berthe nacque nell’aprile del 1927; un maschio, Simon, seguì nel novembre del 1928. Sebbene sia Aaron che Sara parlassero spesso del giorno in cui avrebbero potuto far ritorno in Polonia, naturalizzarono i propri figli che diventarono così cittadini francesi.

    I Liwerant vivevano in un appartamento di due camere senza bagno, ma con un gabinetto in comune, a Belleville che, insieme al Marais e all’xi, xii e xviii arrondissement, ospitava la maggior parte degli immigrati di Parigi, in particolare le famiglie ebree come la loro che lavoravano le pelli e le stoffe. Anche la sorella di Aaron si era stabilita in Francia e anche lei aveva la cittadinanza francese, ma né lei né Aaron si consideravano osservanti. Essere ebrei nella Francia degli anni Venti e Trenta significava beneficiare dell’eredità della Rivoluzione Francese, che aveva conferito uguali diritti a tutte le minoranze religiose del paese, in un momento storico in cui tale tolleranza era condivisa solo dai nuovi Stati Uniti d’America². I Liwerant si consideravano fedeli e pari cittadini di uno stato repubblicano forte ed emancipato.

    Sebbene in famiglia si parlasse yiddish, Berthe e Simon erano bilingue e si esprimevano correttamente anche in francese. La Francia era la loro casa; anche perché non avevano conosciuto altro, sebbene ascoltassero con interesse i racconti a proposito dei nonni rimasti in Polonia e dei massacri che avevano costretto all’esilio i propri genitori. Dopo la scuola, Simon aiutava sua madre a ricoprire di seta le fibbie del lavoro di Aaron e con le monete da un franco che gli dava comprava francobolli, di solito raffiguranti aeroplani.

    Le elezioni del 1936 avevano portato al potere Léon Blum, ebreo e socialista, con il Fronte Popolare, che accoglieva gli immigrati e faceva molto per migliorare le condizioni dei lavoratori francesi, ma che innescava anche scioperi e confronti violenti. A quell’epoca la Francia aveva la più alta percentuale di stranieri rispetto agli altri paesi, compresi gli Stati Uniti. Ma quando anche lì, tra l’altro relativamente tardi, arrivò la recessione economica mondiale che portò la disoccupazione nelle fabbriche del paese, iniziò l’ostilità dei lavoratori nei confronti di quegli stessi uomini e donne che avevano calorosamente accolto non molto tempo prima.

    Simon aveva dieci anni nel 1938, quando cadde il governo di Léon Blum tra la tanta retorica sui pericoli del mondo ebraico e gli attacchi personali contro l’ebreo Blum, figura proustiana con flosci capelli neri, baffi curati e ghette, cui ci si riferiva come a una sorta di parassita e vagabondo, un pervertito che minava la «sana virilità maschile». Alla continua ricerca di colpevoli per i mali del paese, alcuni francesi iniziarono a vedere nei tre milioni di stranieri, e soprattutto negli ebrei, il perfetto capro espiatorio; dal fiume di antisemitismo e xenofobia che trasudava da pamphlet, libri e articoli che diffondevano voci su società segrete, riti satanici e sovversivi, che si credevano per lo più cancellati per sempre dal dopo Dreyfus, si scoprì che tali sentimenti non erano mai scomparsi, ma erano semplicemente rimasti sopiti. Le parole del vecchio ex primo ministro Raymond Poincaré («Dopo l’Affare Dreyfus l’antisemitismo non sarà più possibile in Francia»), iniziarono a suonare leggermente ridicole.

    Era molto più seducente, sebbene allarmante, ascoltare l’intellettuale monarchico Charles Maurras del movimento nazionalista e di destra L’Action Française, annunciare, che «una sola cosa è morta: ed è lo spirito di semitolleranza accordato agli ebrei… un formidabile à bas les Juifs brucia in ogni petto e trasuda da ogni cuore», o seguire il velenoso attacco del suo collega, lo sciatto Céline, simile a un topo, specialista di malattie infantili. Maurras stesso era basso, balbuziente e con il pizzetto curato; i suoi giovani attivisti, i Camelots du Roi, erano criminali.

    La Francia, concordavano i due, era stata per troppo tempo sfruttata e tradita da nemici interni che, numericamente, parevano una marea. La loro indubbia astuzia verbale prestava alle loro idee una qualche legittimità. Quando, nel maggio del 1939, il governo di Edouard Daladier parlò di «scovare, identificare ed espellere» gli stranieri illegali, c’erano ben troppe persone felici di ascoltarlo³. Membro leader dei radicali, Daladier si era decisamente spostato a destra. L’immigrazione degli ebrei aveva raggiunto un «punto di saturazione». In diecimila avrebbero dovuto essere spediti «da qualche parte». A Belleville, i Liwerant e i loro vicini ebrei, come avevano fatto altre volte, mantenevano un profilo basso sperando che quel sentimento passasse. La dichiarazione di guerra del settembre 1939 non li preoccupò eccessivamente, e nemmeno la drôle de guerre, la Strana Guerra, anche se, prima di emigrare in Sudamerica, lo scrittore cattolico Georges Bernanos osservò che non era assolutamente drôle, strana, ma solo triste. Nell’esercito francese erano arruolati qualcosa come quarantamila ebrei. A marzo, mentre la guerra sembrava in una fase di stallo, il governo passò a un azzimato avvocato con un profondo interesse per lo sport, di nome Paul Reynaud.

    Simon aveva dodici anni nel maggio del 1940, quando venne abbattuta dai panzer la Linea Maginot, l’impenetrabile barriera francese di cemento e ferro. In pochi giorni, l’esercito tedesco fece la sua avanzata su Parigi, preceduto da un’ondata di cittadini terrorizzati e di militari sconfitti, mentre a Parigi il governo si riuniva in forze a Notre-Dame per implorare un intervento divino. Sara aveva appena partorito il terzo figlio, un maschio di nome Jacques. Fuggire per lei sarebbe stato impossibile, ma convinse Aaron a unirsi a quegli otto milioni di persone che lasciarono le loro case prima dell’arrivo dei tedeschi, perché vedesse con i suoi occhi che possibilità potessero esserci per la loro famiglia al di fuori di Parigi. Aaron ritornò presto, raccontando di come era arrivato fino a Orléans ed eluso l’attenzione dei miliari infilando tutti i propri averi in una carrozzina abbandonata, facendo finta che fosse un bambino. Per un po’, mentre gli invasori tedeschi si comportavano correttamente nei confronti del paese occupato, i Liwerant continuarono a sentirsi al sicuro, pur se meravigliati alla vista delle donne tedesche al seguito delle truppe, come segretarie o impiegate d’ufficio, vestite come hostess americane nelle loro «goffe e atletiche figure». Avevano cambiato le w nei loro nomi in v perché suonassero più francesi.

    Come il resto dei francesi, anche Aaron e Sara si sentirono rassicurati dalle dichiarazioni del nuovo leader del paese, il veterano della Grande Guerra, l’ottantaquattrenne Maréchal Pétain, incarnazione distaccata e immacolata dell’eredità della grandiosa vittoria francese di Verdun. Pétain aveva baffi curati, un addome arrotondato e pallidi occhi azzurri e, come a rappresentare un ancien combattant, era sempre a schiena dritta. Condivisero il suo desiderio di un nuovo ordine morale, una Rivoluzione Nazionale, in cui feconde e stabili famiglie potessero redimere gli anni di sperpero e di eccessiva libertà di Blum. Sembrava confortante sentirlo parlare della sua «amata Francia» e la sua decisione di far dono al popolo «della mia stessa persona»; come bambini disubbidienti avrebbero dovuto redimersi attraverso la sofferenza e la mortificazione collettiva. «Avete sofferto…», diceva, «soffrirete di più… la vostra vita sarà durissima». Ai Liwerant piaceva l’idea di un paese in cui la gente tornasse ai campi che aveva abbandonato per una vita di città e facesse più figli, anche se sembrava singolare che i mali che a quanto pareva avevano causato l’ignobile decadenza della Francia fossero ferie pagate, Pernod, tratta degli schiavi bianchi, scioperi, gioco d’azzardo, costumi da bagno, democrazia e la «degradante promiscuità nei laboratori, negli uffici e nelle fabbriche».

    Nel mea culpa che investì la Francia tra maggio e giugno del 1940, con il suo parlare selvaggio di «libertina e fiaccante autoindulgenza», Sara e Aaron erano interdetti dal fatto che nessuno sembrasse chiedersi perché, se il pericolo per quegli errori era la punizione di un dio vendicativo, quello stesso dio aveva però scelto di ricompensare Hitler e le ambizioni naziste. La collaborazione non aveva ancora assunto sfumature di tradimento, ma veniva piuttosto vista come uno sprone a cambiare il modo in cui i francesi venivano scolarizzati, impiegati e governati, con disciplina e rafforzamento della fibra nazionale. Quindi quelle nuove misure avrebbero dovuto riscattare il paese da una «repubblica di donne e omosessuali». Sulle pareti della classe di Simon pendeva un ritratto del Maréchal che si era fatto carico del peso del governo quando avrebbe invece dovuto godersi la meritata pensione; la sua effigie si ritrovava su manifesti, cartoline e monete. Sui francobolli aveva sostituito la tradizionale Marianne. Era dal Secondo Impero che la Francia non ritraeva sulle monete governanti viventi. Nel culto di Pétain, disobbedienza significava tradimento. Venne evidenziata anche la figura di Giovanna d’Arco, altro simbolo di patriottismo, pietà e sacrificio. Quei deliri di uomini come Maurras o Céline, però, si ripetevano i Liwerant, non si applicavano a loro.

    Il 22 giugno, Pétain firmò un armistizio in un binario ferroviario nella foresta di Compiègne che divideva la Francia in una zona occupata, governata dai tedeschi, e una non occupata, governata dai francesi della località termale di Vichy, accettando termini non dissimili da quelli imposti ai tedeschi con il Trattato di Versailles. Fu la prima visita a Parigi di Hitler che si fece delle grasse risate a vedere quel paese di cui ora era padrone. Poi, neanche otto settimane più tardi, comparvero i primi segnali di qualcosa di nuovo e infausto: il 27 agosto, Pétain eliminò le sanzioni per la diffamazione antisemita. A quel punto, non era ancora nei progetti dei tedeschi di creare una Francia a loro immagine fedele al concetto di Judenfrei, libera dagli ebrei, ma piuttosto di trasformare la parte del paese non occupata – un terzo del territorio retto dal governo di Vichy e separato da una linea di confine di 1200 chilometri fortemente sorvegliata – nel luogo in cui spostare tutti gli ebrei indesiderati.

    Dopo aver proibito a chi era fuggito a sud di ritornare a casa propria nel Nord del paese, i tedeschi iniziarono a prendere possesso delle attività abbandonate durante l’esodo e a ordinare alle banche di aprire le cassette di deposito dalle quali sequestrarono oro, valuta straniera e gioielli⁴. Ben presto 4660 aziende di Parigi esposero il bollino giallo del sequestro. Il 3 ottobre, dopo un censimento degli ebrei nella capitale e nei sobborghi, che attestò il numero a 113.462 di cui 57.110 cittadini francesi e 55.849 stranieri, arrivò dal governo di Vichy il primo Statut des Juifs che si trasformò ben presto in un processo di emarginazione e destituzione su larga scala. Era perfettamente chiaro, annunciò Vichy, che gli ebrei «avevano esercitato una tendenza individualistica che aveva portato a una quasi anarchia»⁵. Dovevano essere frenati, puniti. A essere terrificante fu la velocità con cui tutto questo avvenne; e lo spirito che lo guidò, che combinava una sete di vendetta con un appassionato pentimento. Il Vaticano, consultato, fu acquiescente. Per i tedeschi, non avrebbe potuto andare meglio: avevano trovato un paese non solo rassegnato alla sconfitta, ma pronto ad autobiasimarsi per quanto accaduto e ansioso di sistemare e anticipare le mosse per timore che accadesse di peggio.

    Gli ebrei, dichiarò il governo di Vichy – precedendo e superando in questo e in molto altro le richieste tedesche –, da lì in avanti sarebbero stati banditi da determinate professioni e ammessi in numero limitato in altre. Un ebreo, fu stabilito per decreto, era ebreo se tali erano gli antenati di tre generazioni precedenti, o due nel caso di coniugato a una donna anch’essa ebrea. Gli statali, tra cui giudici, impiegati e insegnanti, iniziarono a perdere il lavoro, insieme ad avvocati, fotografi, antiquari, scienziati, costumisti e impiegati nel cinema, infermiere e contabili. Venne dato il potere ai prefetti di incarcerare «gli stranieri di razza ebraica».

    Per aiutare i francesi a comprendere meglio la natura virulenta della piaga ebraica venne prodotto un velenoso film antisemita, Jew Süss, che attirò diverse migliaia di spettatori, così come un presunto documentario sulla famiglia Rothschild durante il quale, a intervalli regolari, i topi riempivano lo schermo e sembravano invadere il cinema⁶. Sulle pagine del giornaletto scandalistico tedesco «Der Stürmer», introdotto in Francia, l’ebreo veniva ritratto come un ometto piccolo, grasso, brutto, non rasato, con la bava alla bocca, il naso aquilino e gli occhi porcini. Da quel momento in poi, per Simon, che faceva parte di una minoranza di bambini ebrei iniziò una lotta quotidiana nel cortile della scuola contro episodi di bullismo. Sebbene fosse piccolo e ci vedesse talmente poco da sentirsi cieco come una talpa, era robusto e nella maggior parte degli scontri non usciva mai sconfitto.

    Non tutte le misure repressive, però, erano dirette agli ebrei. Uno dei primi editti, quello del 13 agosto, interessava i massoni, anch’essi banditi da buona parte delle professioni francesi. Ne vennero indagati sessantamila e licenziati quindicimila. Dopo che, nell’agosto del 1939, Ribbentrop e Molotov ebbero firmato il loro patto sovietico-nazista di non aggressione, molti membri del Partito Comunista francese ed ex appartenenti al Fronte Popolare vennero internati nei campi dal governo Daladier. Dopo l’invasione tedesca, però, non vennero rilasciati ma tenuti lì perché si riteneva che avrebbero causato problemi. Ebrei, massoni e comunisti senza dio, seguaci di Marx e Trotsky o di Rosa Luxemburg, visti come appartenenti a quella cospirazione ebraico-bolscevica, forze oscure dell’anti-Francia, rimasero presto ingolfati in un turbine di paura e persecuzione. In quel momento bastava essere stranieri o avere un accento straniero per risultare sospetti. I francesi, come scrisse il romanziere Henry de Montherlant, stavano facendo mostra della loro vera natura: un misto di inerzia e codardia morale.

    Poi, alla fine di marzo del 1941, il governo di Vichy, su istigazione dei tedeschi che avevano decretato che la Francia non aveva ancora ben compreso «la necessità di una purificazione su larga scala degli ebrei», accettò di «occuparsi della questione ebraica». Pétain nominò un veterano della Grande Guerra ferito alla testa di nome Xavier Vallat, amico di Maurras, direttore del Commissariat Général aux Questions Juives (cgqj), il cui quartier generale era nello squallido Hôtel Algeria di Vichy. Vallat aveva capelli radi e sopracciglia scure e indossava una benda nera sull’occhio. Era un avvocato, cattolico devoto e sfacciato antisemita; parlava del suo antisemitismo come «de l’Etat Français», stato antisemita ispirato dalla dottrina cattolica. «Sono antisemita da molto più tempo di te»⁷, disse a Theo Dannecker dopo che il ventisettenne ufficiale tedesco arrivò a Parigi in rappresentanza di Eichmann, responsabile delle questioni ebraiche per la Gestapo. Dannecker, si sarebbe detto, non era solo cattivo, ma malato. Gli ebrei, dichiarò Vallat, erano «inevitabilmente pericolosi» se non in piccole dosi ed erano culturalmente inammissibili.

    Quello che bisognava fare era confiscare – rubare – le loro proprietà, eliminarli dalla vita economica, sociale e culturale della Francia, canalizzando con astuzia le loro ricchezze nelle mani dei francesi anziché dei tedeschi. Vallat, come dichiarò lui stesso, si considerava «non un macellaio né tantomeno un aguzzino», ma un chirurgo, chiamato a curare il paese «colpito dalla febbre cerebrale ebraica» e da essa ridotto in fin di vita. Il regime antisemita che aveva ideato sarebbe presto diventato il più duro d’Europa, con una speciale forza di polizia, la Police aux Questions Juives. Sia Vichy che i tedeschi erano convinti che gli ebrei francesi possedessero ricchezze da favola.

    Da quando era tornato a Parigi, Aaron aveva continuato a lavorare nella sua vecchia azienda, portando a Sara fibbie e maniglie da rivestire. Un giorno di metà maggio del 1941, mentre tornava a casa, sentì dire che era stato dato ordine agli ebrei di andarsi a registrare presso la locale stazione di polizia. Pensò che la cosa si applicasse a tutti, sia francesi che stranieri e, nonostante i timori di Sara, ci andò tranquillamente in bicicletta, dicendo che da lì sarebbe poi andato direttamente al lavoro. Quella sera, di lui non ci fu traccia. Bussò invece alla porta un poliziotto che disse a Sara di preparare una borsa per il marito e di portarla alle baracche di Porte des Lilas. Il tredicenne Simon andò al posto suo e seppe che il padre, insieme ad altri quattromila, sarebbe stato inviato in un campo di concentramento non lontano da Orléans, costruito per accogliere tutti i prigionieri tedeschi che l’esercito francese si era ottimisticamente aspettato di catturare. Qualche settimana dopo, Sara e i tre figli ebbero il permesso di trascorrere una domenica insieme a lui.

    Non passò molto tempo che Aaron fuggì. Arrivò a casa a notte inoltrata e rimase nascosto da un amico francese. Lui e Sara erano d’accordo che trovasse un passeur, qualcuno che, in cambio di soldi, lo avrebbe aiutato a superare la linea di confine verso la zona non occupata, dove, al momento, pareva che gli ebrei fossero relativamente al sicuro; da lì aveva progettato di arrivare a Lione dove abitavano alcuni parenti. Ancora una volta, fu Sara a costringerlo ad andare, dicendogli che gli uomini erano molto più a rischio rispetto a donne e bambini. A Belleville viveva un autista di camion che trasportava la carne da una zona all’altra. Era disposto a trasportare Aaron in una delle due strette casse che correvano lungo il telaio e che normalmente raccoglievano il sangue degli animali. Il passaggio al sorvegliatissimo confine avvenne senza problemi ma, una volta attraversato, mentre cercava un autobus che lo portasse a Lione, Aaron fu fermato dalla polizia. I suoi soli documenti riportavano il chiaro timbro di "juif". Stavolta, venne inviato in uno dei campi di lavoro per ebrei e internato a sud dove gli venne insegnato il mestiere di taglialegna. Molto di rado gli veniva concesso di far visita a Sara e ai bambini a Parigi dove, per tutto il 1941, ulteriori rafles, rastrellamenti, portarono gli ebrei alla prigionia.

    Per la prima volta, venne catturato anche un piccolo gruppo di ebrei francesi, fino a quel momento convinti che i tedeschi li vedessero con un altro occhio rispetto agli ebrei stranieri e che quello garantisse loro di non avere problemi, che non sarebbe accaduto loro niente. Come avrebbero potuto quelle misure applicarsi a chi apparteneva a rispettabili generazioni di accademici, membri del foro, banchieri e scienziati francesi? Come descrisse in seguito il giornalista e scrittore Philippe Erlanger, quello che stava accadendo era considerato un incidente, una specie di calamità che riguardava gli altri. Il 12 dicembre, vennero arrestati 743 notabili, distinti ebrei francesi, molti dei quali medici e avvocati, tra cui René Blum, fratello di Léon. E, dopo un tentativo di omicidio ai danni di un ufficiale tedesco, vennero fucilati cento ostaggi, rastrellati mille ebrei e la comunità ebraica della zona occupata fu tassata di un miliardo di franchi come punizione. Stava diventando terribilmente chiaro che il presunto stato secolare, di cui si sentivano così visceralmente parte, non avrebbe più protetto nessuno di loro.

    Xavier Vallat, ritenuto troppo tenero e tollerante, venne ben presto sostituito da Darquier de Pellepoix, un uomo che aveva più volte sostenuto la necessità di amputare l’arto della plutocrazia ebraica: a nessun ebreo, disse, si sarebbe stretta la mano. Darquier era meno scaltro e più obbediente di Vallat, un pigro, brutale e rapace bon viveur che aveva intenzione di assolvere con brio e devozione il proprio incarico di rendere esecutiva la politica antisemita dei nazisti di arianizzazione dell’economia, mentre cercava quanto più possibile di ricavarne profitti personali. Proibì agli ebrei di utilizzare il proprio nome – quindi Aaron divenne le Juif Liwerant – e iniziò a raddoppiare lo staff allo cgqj portandolo a mille tra uomini e donne. Dal punto di vista di Darquier, gli ebrei erano nemici storici le cui caratteristiche razziali avrebbero messo in pericolo la Francia.

    A cambiare la vita di Simon fu la stella gialla. Gli ebrei in Polonia erano costretti a indossarla già dal 1939 e alla fine del maggio 1942 arrivò l’ordine di estendere tale pratica a tutti gli ebrei della Francia occupata. La stella, grande quanto un pugno, doveva essere indossata da ogni individuo sopra i sei anni, posizionata in un punto ben visibile del bavero sinistro, e si pagava con un tagliando per l’abbigliamento razionato. Le persone con parentela dubbia furono costrette a firmare certificati di «non appartenenza alla razza ebraica».

    Per Simon la stella gialla era profondamente umiliante, soprattutto da quando la gente gli gridava "sale Juif" mentre andava a scuola, così prese a indossarla solo quando proprio non poteva farne a meno, pur sapendo quanto potesse essere pericoloso. Era il più bravo della sua classe, dopo un inizio mediocre terminato quando gli insegnanti si erano resi conto che aveva una vista scarsissima. Sara riusciva a malapena a portare a casa denaro sufficiente per comprare da mangiare, grazie al fatto che il proprietario dell’azienda del marito, nonostante il divieto di dare lavoro agli ebrei, continuava gentilmente a portarle le fibbie da rivestire. Le restrizioni li stavano confinando. In quanto ebrea, poteva fare acquisti solo tra le tre e le quattro del pomeriggio, quando i negozi erano già quasi completamente sprovvisti di merce, e nel métro poteva viaggiare solo nell’ultima carrozza. Le sale da concerto, i teatri, i cinema, i campeggi, i telefoni pubblici erano vietati.

    In tutta Parigi gli ebrei soffrivano il freddo e la fame, vivevano dei loro risparmi o della cortesia dei loro vicini francesi, essi stessi a corto di cibo, carbone e vestiti ora che i tedeschi consegnavano al Reich la produzione delle aziende francesi e treni carichi di merce partivano quasi ogni giorno dalla Gare de l’Est alla volta di Berlino. Di notte, nella capitale al buio, si potevano vedere le luci delle biciclette brillare come lucciole. Ben presto i francesi si trovarono con poco più di un terzo di quella che era stata la fornitura di carbone prima della guerra. L’inverno del 1939 fu il più freddo dai tempi di Waterloo; quelli del 1940 e 1941 andarono un po’ meglio. Perfino a Vichy c’era pochissimo carburante e i trentamila impiegati civili di Pétain vivevano in una perenne coltre di fumo di legna emesso dalle stufe improvvisate con le canne che uscivano dalla finestra. Si iniziò a preparare il caffè, ovviamente surrogato, con noci, ceci, mele essiccate e lupini; lo zucchero veniva estratto dalla liquerizia, dalla zucca essiccata e dal succo d’uva⁸. In assenza del padre, il tredicenne Simon si sentiva responsabile della famiglia, soprattutto dal momento che Sara parlava francese con un forte accento straniero. La sua salute era sempre stata precaria e la nascita di Jacques le aveva ulteriormente indebolito i reni.

    Nel novembre del 1941, percependo che sarebbe stato utile che gli ebrei partecipassero alla loro stessa distruzione, Vichy ordinò l’istituzione della Union Générale des Israélites de France, la ugif, per coordinare tutte le organizzazioni di sussidio esistenti e che in quel momento erano organizzate in varie entità separate. Alcuni, presentendo che non era che una trappola che avrebbe reso più facile identificare gli ebrei e registrarne gli indirizzi di residenza, scelsero di non prendervi parte e preferirono la clandestinità; altri accettarono, ritenendo che non ci fosse altro modo per aiutare il sempre crescente numero di indigenti. Tra tutti, raccolsero sui loro registri circa quarantamila persone. Dopodiché tutti gli ebrei furono costretti a pagare una decima all’ugif. Fin dall’inizio delle ostilità, i leader ebraici avevano protestato vigorosamente – e invano – contro quelle misure repressive. Molto tempo dopo che la prova dei progetti dei nazisti e della compiacenza del governo di Vichy furono ben chiare a tutti, molti di quei leader continuarono a esprimere il «lucido desiderio di restare sia eccellenti ebrei che eccellenti francesi», ma la loro ansia di restare fedeli a Pétain sembrò bloccarli in un circolo vizioso di docilità e prudenza. Altri provarono a fuggire. In quel momento circa trentacinquemila ebrei avevano fatto domanda per lasciare la Francia, principalmente alla volta di Stati Uniti, Sudamerica e Cina, ma la maggior parte rimase bloccata per via dei costi o degli ostacoli burocratici nell’ottenimento dei visti.

    Anche se Darquier stava subentrando al Commissariat di Vichy, a Berlino proseguivano i meticolosi piani per la deportazione della popolazione ebraica francese. Ormai Drancy, un complesso residenziale in disuso subito fuori Parigi, era diventato una stazione di passaggio per i treni merci che trasportavano gli ebrei

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