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Questa volta si fa a modo mio
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E-book363 pagine5 ore

Questa volta si fa a modo mio

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller La vendetta delle single

Lo stesso giorno in cui Jenny scopre che le rimangono pochi mesi di vita, si accorge che suo marito ha una relazione con una collega. Per lei è davvero troppo. Considerando anche due figli adolescenti, una madre lagnosa, le amiche troppo prese dalle loro vite e un lavoro sempre più stressante… bisogna dire basta! Jenny desidera solo tenere segrete entrambe le sue scoperte e riprendersi la sua vita, godendosi ogni momento, come quando era più giovane e spensierata. Basterebbe solo tornare indietro di qualche anno… Per esempio, rivivendo gli istanti di pura gioia come quelli del suo venticinquesimo compleanno, in cui nessuna preoccupazione era tanto cupa da riuscire a toglierle l’ottimismo. Così organizza un’enorme festa a tema anni ’90, con l’unico obiettivo di ritrovare la spensieratezza che sente di meritare. Riuscirà a tenere nascosti i suoi segreti abbastanza a lungo da godersi la festa?

Un’autrice N°1
Bestseller negli Stati Uniti

Impara a vivere la vita godendo al massimo di ogni attimo

«Uno straordinario omaggio alla bellezza e al coraggio. Un romanzo imperdibile.»

«Provocatorio, emozionante, commovente e profondo. Da leggere assolutamente.»

«È stato meraviglioso farsi ispirare da questo libro.»

Tracy Bloom
Ha cominciato a scrivere quando ha lasciato l’Inghilterra per trasferirsi con suo marito in America. Pur di non dedicarsi alle faccende domestiche, ha scoperto la sua propensione per le commedie romantiche con uno spiccato humour inglese. Dopo il successo inaspettato del suo esordio che ha raggiunto il primo posto nelle classifiche britanniche, ha deciso di dedicarsi interamente alla scrittura. La Newton Compton ha già pubblicato La vendetta delle single.
LinguaItaliano
Data di uscita3 mag 2019
ISBN9788822734068
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    Anteprima del libro

    Questa volta si fa a modo mio - Tracy Bloom

    Capitolo 1

    Vent’anni dopo

    «Un tavolo per tre?», domanda la cameriera all’ingresso del ristorante, in piedi di guardia accanto al cartonato di un cactus.

    «No, quattro». Mi volto. «Dov’è Ellie?», chiedo a Mark.

    «Vuoi davvero mangiare qui?», ribatte lui con uno sguardo talmente sprezzante che mi giro di nuovo verso la cameriera, pronta a scusarmi per la maleducazione di mio marito. Ma lei è impegnata a consegnare a George un menu da colorare e un barattolo pieno di matite.

    «È vero, è un po’ basso per avere quindici anni!», esclamo, allungando una mano per intercettare lo scambio. Non è colpa di George se ancora aspetta la pubertà. Certo sarebbe meglio se non nascondesse il viso sotto il cappuccio della felpa, almeno eviterebbe di essere scambiato per un pupetto che ha ancora bisogno di una distrazione artistica durante i pasti. Sono troppo zelante nel mio slancio protettivo e finisco per far cadere il barattolo di colori dalle mani di quell’idiota della cameriera, sparpagliandoli sul mosaico di piastrelle blu e bianche del pavimento.

    George borbotta qualcosa.

    Mark sbuffa.

    La cameriera resta sbalordita.

    Nessuno mi aiuta quando mi piego per raccogliere i pastelli.

    «Che ci fa mamma a terra?», sento che chiede Ellie quando riemerge da ovunque si fosse rifugiata per evitare di essere vista in compagnia della sua famiglia.

    «Le ha fatto cadere di mano le matite», le risponde Mark con un sospiro.

    Mi accorgo che il pastello giallo gli è rotolato accanto al piede e rischia di provocare un infortunio potenzialmente pericoloso. Lo lascio dov’è.

    «Mi dispiace», mi scuso, alzandomi e consegnando un mucchietto di colori spezzati tra le mani della cameriera. «È solo un po’ basso», aggiungo, tirando giù il cappuccio dalla testa di George e scoprendogli la parte posteriore del collo, di un rosa acceso.

    «Volete seguirmi?», chiede la cameriera, afferrando quattro enormi menu mentre attraversa tutto il ristorante a passo sostenuto e va in direzione dei tavoli più in fondo.

    La inseguo per chiederle se possiamo sederci nella parte anteriore. Insomma, ho bisogno di vedere le lucine a forma di cactus. E voglio stare vicino al bar, dove c’è più movimento, dove posso restare seduta a guardare gli altri che si divertono, nel caso io non dovessi divertirmi affatto.

    «A dire il vero non serviamo cibo in quell’area», risponde mentre posa con cura gli enormi menu su un tavolo in un angolo buio affacciato sul nulla.

    «Ma io vorrei sedermi là», ribatto in tono di sfida, guardandomi intorno per vedere se Mark può essermi d’aiuto. Invece lui, Ellie e George non si sono nemmeno accorti che mi sono mossa, tutti presi dai cellulari o, nel caso di George, dall’umiliazione subita.

    La cameriera mi guarda e appoggia le mani sui fianchi. Sì, sui fianchi.

    «Serviamo cibo solo in quest’area», ripete.

    La fisso a mia volta. Una parte di me vorrebbe arrendersi subito, andare a casa ed etichettare l’intera serata come una pessima idea. Ma è il mio compleanno. Voglio almeno tentare di cenare piacevolmente in compagnia della mia famiglia prima che… be’, prima che le cose non siano mai più le stesse. Prima di scaricare addosso a Mark, nel giorno del nostro ventesimo anniversario, la notizia che… ecco, che potrebbe esserci in me qualcosa di sbagliato. Qualcosa di tragicamente sbagliato.

    «Voglio un tavolo da cui si possano vedere le lucine a forma di cactus», le dico in quello che spero sia un tono autorevole.

    «Certo». Fa spallucce.

    Mi accorgo di trovarmi in una situazione di impasse nella sala sul retro di un ristorante messicano.

    «Ci dia un tavolo nella parte anteriore o ce ne andiamo», pretendo. La voce mi trema leggermente, è un segno di debolezza. Trattengo il fiato.

    Lei mi guarda e sospira… ed è un sospiro che vuol dire sì.

    «Dovrò andare a chiedere al capo se posso aprire un’altra area», spiega, andandosene impettita e lasciandomi da sola.

    Mi affretto a raccogliere gli enormi menu e vado velocemente verso la parte anteriore del ristorante. Se ci sedessimo prima del suo ritorno, non potrebbe farci più nulla.

    «Che sta facendo la mamma?», sento che chiede Ellie per la seconda volta.

    Nella foga di averla vinta a tutti i costi non mi sono accorta che gli altri tre membri della famiglia si sono finalmente degnati di unirsi a me e camminano in direzione opposta alla mia lungo un altro corridoio.

    «Ci sediamo davanti», spiego, rallentando appena. «Svelti, da questa parte», grido da sopra la spalla.

    «Ma qualcuno potrebbe vederci se ci sediamo là», sento che si lamenta Ellie.

    Quando Mark, Ellie e George mi raggiungono, mi sono già accaparrata quello che a mio parere è il miglior tavolo del locale. Schiena al muro, proprio sul davanti, di fronte al bar, dove riesco a vedere tutto ciò che succede. Almeno fino a quando non prendiamo in mano i menu, che mi oscurano del tutto la visuale, nonché gran parte della luce.

    «Perché diamine sei voluta venire qui?», brontola Mark da dietro un doppio strato di carta plastificata. «Saremmo potuti andare da Sebastian. Avevo detto che ci avrei pensato io. Non devi neanche prenotare per venire qui. Non ricordo quando è stata l’ultima volta che ho messo piede in un ristorante dove basta presentarsi per avere un tavolo. Ti immagini cosa ti direbbero se ci provassi da Sebastian?».

    Ricordo l’ultima volta che ho accettato di andare da Sebastian con Mark. Era la festa di Natale della sua azienda. Il cibo scarso (pretenzioso e insipido) e la terribile compagnia (uomini: pretenziosi, donne: insipide) mi avevano portata a esagerare con lo champagne. Quando ho sussurrato a voce un po’ troppo alta nell’orecchio di Mark che l’unico modo per salvare la serata sarebbe stato fare un salto in un bar con il karaoke, lui mi ha lanciato uno sguardo inorridito e mi ha versato un bel bicchierone d’acqua.

    «Non bere più champagne», ha bisbigliato in tono adirato. «Questo non è né il momento né il posto giusto per ubriacarsi».

    Ma è una festa di Natale, ho pensato. Se esiste un momento giusto e anche un posto giusto per sbronzarsi completamente, di sicuro è questo. Ho osservato Mark chinarsi in avanti sul suo posset di vaniglia e basilico con uno spruzzo di spuma di lavanda per chiedere alla moglie del presidente quali progetti avesse per le vacanze. Poi mi sono appoggiata allo schienale, ho messo il broncio e non ho più detto una parola. Nessuno se n’è accorto.

    L’atmosfera tra noi è rimasta piuttosto gelida per diversi giorni dopo quell’episodio, finché lui non mi ha annunciato che ormai eravamo arrivati al punto del nostro matrimonio in cui non avremmo più dovuto scambiarci i regali di Natale. Io ho confessato che avevo già comprato il suo e così ha accettato suo malgrado di scambiarceli per l’ultima volta. L’indomani sono uscita per comprargli l’attrezzatura per il karaoke. Lui mi ha regalato un gasatore per l’acqua frizzante.

    In effetti gli enormi menu ci impediscono di mantenere il contatto visivo finché un cameriere, per fortuna non la maleducata di prima, viene a prendere l’ordinazione. Tutto ciò che riesco a sentire è Mark che sbuffa stizzito al pensiero che i nachos siano il piatto del giorno, consigliato dallo chef. Continuiamo a tenere su i menu a mo’ di barriera temporanea persino mentre ordiniamo. Mark chiede un burrito di pollo con il tono di chi ha appena acconsentito a mangiare testicoli di rana rigurgitati. Ellie chiede un’insalata di tacos, ma senza i tacos, e l’unico indizio del fatto che George sia riuscito a portare a termine l’ordine con successo è il fatto che abbassa il menu e punta un dito sul nome di un piatto senza proferire parola, seguito da un tremore di panico quando il cameriere gli domanda la cottura della bistecca.

    «Vuoi una cottura media?», chiedo a George.

    «Per l’amor del cielo, Jenny», sbotta Mark. «Lascia che glielo dica lui, se è quello che vuole».

    George non solleva gli occhi dal menu, ma capisco che si sente ferito.

    «Cottura media, per favore», sussurra senza guardare il cameriere.

    Poi all’improvviso le barriere vengono spazzate via e ci ritroviamo gli uni sotto gli sguardi degli altri come dei conigli abbagliati dai fari di un’auto.

    «Da bere?», domanda il cameriere in tono allegro. È chiaro che ha già completato il corso su come sorridere ai clienti, a differenza della collega.

    «Io prendo una gassosa al limone», risponde Mark senza consultarci.

    «Io prendo un bicchiere grande di Chardonnay», dice Ellie.

    «Non credo proprio», sbotta Mark.

    «Va bene, allora uno piccolo», ribatte lei.

    Io sogghigno.

    «Domani c’è scuola e hai diciassette anni», dice Mark, guardandomi come se fossi stata io a chiedere il vino.

    «Ordiniamo una bottiglia», propongo.

    Lui non dice niente, limitandosi a scuotere la testa meravigliato.

    «Potremmo dividercela io e te e magari lasciare che ne assaggino un po’ i ragazzi», spiego.

    Mark guarda il cameriere.

    «Loro prendono una Coca-Cola Light a testa», dice, puntando il dito in direzione di Ellie e George.

    «Io prendo un Margarita», salto su io.

    «Sono solo le sei, Jenny», mi ammonisce Mark.

    «Con ghiaccio o frozen?», mi domanda il cameriere, guardandomi dritto negli occhi con un sorriso. Mi piace.

    «Senza dubbio con ghiaccio», rispondo, sorridendo a mia volta. «È un’occasione speciale».

    Lo vedo lanciare un’occhiata alla combriccola. Ellie ha i gomiti sul tavolo e il telefono ad altezza occhi, con lo schermo che le illumina il viso mentre digita in modo frenetico. George se ne sta a testa bassa a fissarsi il grembo, con un’espressione concentrata che tradisce il fatto che è ricorso a sua volta alla compagnia del cellulare. Anche Mark sta accarezzando il telefono, posato sul tavolo davanti a sé, come se volesse rassicurarlo della propria presenza.

    «E di che occasione si tratta?», domanda il cameriere, faticando a tenere stretti sotto il braccio i menu scivolosi.

    «È il mio compleanno». Deglutisco. Ci scambiamo uno sguardo. Potrei scoppiare in lacrime, ma le trattengo. Stupidamente ho comprato un mascara da quattro soldi che non reagisce affatto bene alle lacrime, quindi non posso ancora piangere.

    Lo sguardo mi cade sulle lucine a forma di cactus. Le adoro. Sono così inutili eppure così maledettamente allegre. Come si fa a non sorridere di fronte a delle lucine a forma di cactus? C’è una coppia seduta su due alti sgabelli intenta a sorseggiare dei cocktail rosa fluorescente. Si vede che non sono sposati. Lui fa di tutto per intrattenerla e lei fa di tutto per lasciarsi intrattenere. È un continuo susseguirsi di sorrisi, capelli svolazzanti, parti del corpo che si sfiorano e occhi che mantengono il contatto visivo. Forse la promessa di un rapporto sessuale è l’unica ragione per cui la gente mantiene il contatto visivo oggigiorno, penso mentre mi volto per posare lo sguardo sugli invitati alla mia festa. O forse per riferire loro le brutte notizie. Rabbrividisco.

    Mi domando come mi guarderà Mark quando, più tardi, gli dirò che mi sono lasciata convincere ad andare a fondo per capire la causa dei miei malesseri. Come reagirà quando gli dirò che avrò bisogno della sua compagnia in ospedale il giorno in cui mi comunicheranno il verdetto. Quando mi diranno che potrebbe essere qualcosa di brutto, molto brutto. Potrebbero pronunciare la parola con la C. Come mi guarderà allora mio marito?, mi chiedo.

    Mark sfila la sedia verde brillante da sotto il tavolo e si allontana verso l’uscita, mormorando qualcosa al telefono. George ed Ellie… be’, potete immaginare cosa stiano facendo.

    Arrivano le bevande. Il Margarita è meraviglioso. Ringrazio il cameriere mentre lo appoggia sul tavolo di fronte a me, poi faccio lo stesso per i drink degli altri, che non si accorgono di nulla.

    Mark torna a sedersi e posa il telefono a faccia in giù sul tavolo. Vibra subito dopo, con la luce che spunta da sotto facendolo assomigliare a un minuscolo UFO rettangolare. Per fortuna lo ignora e tracanna metà della sua gassosa al limone. George ed Ellie sorseggiano le bibite senza distogliere lo sguardo dagli schermi. Poi Mark riprende in mano il telefono.

    Sospiro, mi porto il bicchiere alla bocca e mormoro: «Buon compleanno, Jenny».

    Capitolo 2

    «Che ne dite se giochiamo a Preferiresti?», dico dopo diversi minuti in cui le uniche parole pronunciate sono state la mia richiesta di un secondo drink, seguita da una spiegazione a Mark sul fatto che è l’ora dell’happy hour, quindi costa molto meno.

    Ellie si volta verso suo padre. «Ma che le prende?», gli domanda.

    «Ricordi che giocavamo sempre a Preferiresti nei ristoranti quando eravate piccoli?», le spiego. «George era bravissimo. Le sue erano le trovate migliori. Era spassoso». Gli do un colpetto con il gomito e lui mugugna.

    «Qual era quella di quando eravamo all’area di servizio di Watford Gap? Era lì seduto a mangiare pollo fritto e se ne uscì con quella domanda. Una cosa tipo: preferiresti combattere contro dieci criceti grossi come polli o contro cento polli grossi come criceti? Era così, giusto, George?»

    «Zombie», borbotta da un angolo della bocca.

    «Oh, hai ragione», mi correggo, annuendo per incoraggiarlo. «Preferiresti combattere contro dieci criceti grossi come zombie…».

    «No», mi interrompe George, scuotendo la testa.

    «Jenny, per favore», commenta Mark, ma io mi rifiuto di guardarlo.

    «Che vuoi dire?», domando a George.

    «Il contrario», mormora.

    «Giusto, ho capito». Mi schiarisco la voce. «Quindi, preferiresti combattere contro dieci zombie grossi come polli o contro cento polli grossi come zombie? Nessuno risponde?».

    Totale silenzio e sguardi allibiti da parte di Mark ed Ellie.

    «Sul serio, che le prende?», domanda Ellie a Mark come se io fossi un animale chiuso nella gabbia di uno zoo.

    «Sto cercando di fare conversazione con la mia famiglia», sbotto in tono frustrato e con le lacrime pericolosamente vicine al mascara da quattro soldi che non può reggere a nessun genere di umidità.

    «A proposito di polli grossi come zombie?», domanda Ellie.

    «No!», esclamo abbastanza forte perché Mark inizi a guardarsi intorno imbarazzato. «Zombi grossi come polli. Non ti ricordi che era quella la risposta? Eravamo tutti d’accordo. Ne discutemmo per un sacco di tempo e poi, dopo una votazione, decidemmo che avremmo avuto più chance contro degli zombie grossi come polli, piuttosto che contro dei polli grossi come zombie. Era una conversazione durante la quale tutti potevano dire…».

    Mi fermo a guardare George.

    «Tutti avevamo un’opinione, tutti partecipavamo. Noi… parlavamo», spiego, appoggiandomi contro lo schienale, esausta per aver tentato di penetrare la corazza di uno di loro, uno qualunque di loro.

    Nessuno dice niente.

    Per fortuna, arrivano i nachos.

    Capitolo 3

    «Ti ricordi il mio venticinquesimo compleanno?», mormoro dopo aver mangiato le portate principali per lo più in silenzio. L’ombra del domani incombe su di me e sto cercando disperatamente di ripensare ai momenti felici per alleggerire lo spirito per quanto possibile.

    «Cosa?», domanda Mark.

    «Il mio venticinquesimo compleanno», ripeto. «Me lo sono appena ricordato».

    «Quando ti licenziarono», afferma.

    «Quando ci mettemmo insieme», ribatto.

    «Avevo quasi deciso di non venire». Lo dice come se non fosse una grossa rivelazione. Come se, nel caso in cui davvero non fosse venuto, il corso della vita di entrambi non sarebbe cambiato drasticamente.

    «Ma… ma era senza dubbio l’evento più esclusivo di tutta la città», sbotto. «La festa di compleanno di un’accompagnatrice turistica in Grecia su una spiaggia privata. Com’è possibile che non morissi dalla voglia di venirci?».

    «Oh, ne avevo voglia. Ma tu eri talmente scatenata». Mi rivolge un sorrisetto. «Non avevo proprio idea del perché avessi invitato un tipo noioso com’ero io all’epoca. E poi, non riuscivo a farmi piacere il tema della serata, a essere onesti».

    Faccio cadere coltello e forchetta sul tavolo e spingo la sedia all’indietro, sbalordita.

    «Intendi il gioco di It’s a Knockout!». Quasi non riesco a credere alle mie orecchie. «Era assolutamente geniale».

    «Di che state parlando?», domanda Ellie. Ovviamente il commento sulla mia festa di vent’anni prima è riuscito a penetrare la sua cyber-bolla.

    «Soltanto della miglior festa di compleanno di tutti i tempi», le rispondo, determinata a condividere un pezzo della mia perduta gioventù, molto diversa dal patetico tentativo di festeggiamento che a quanto pare sto vivendo proprio ora. «Quando lavoravo come accompagnatrice turistica in Grecia».

    «Ti prego, niente storie di nudità, scopate o roba del genere», ribatte lei, voltandosi inorridita.

    Senza dubbio all’epoca sono successe entrambe le cose, ma non sono questi i ricordi che voglio condividere con mia figlia.

    «Il mio capo, Clare, si rifiutò di darmi la serata libera, così organizzammo una festa epica per tutti gli accompagnatori turistici una volta finito di lavorare».

    Ellie sembra vagamente colpita.

    «Giocammo a It’s a Knockout sulla spiaggia!».

    Mi fissa con sguardo vacuo.

    «Gente con indosso degli stupidi costumi che supera degli ostacoli mentre viene crivellata da macchine per la schiuma e pistole ad acqua», la informa Mark. «Era un programma televisivo degli anni Settanta».

    «Io e la mia amica Karen dovemmo chiedere favori a un’infinità di persone per riuscire a organizzare tutto», racconto a Ellie tutta emozionata. «Riuscimmo a farci riservare un tratto di spiaggia da uno dei proprietari dell’hotel e trovammo dodici gommoncini gonfiabili a forma di banana, quattordici ciambelloni, venti costumi da sumo, tre cannoni ad acqua, cinque pistole spara-schiuma, una macchina per il fumo e un enorme bidone di crema. Oh, e un’attrezzatura per il karaoke, oltre a Dave con la consolle da DJ. Hai mai visto venti persone vestite da lottatori di sumo che giocano a guardie e ladri mentre vengono bersagliate con delle torte alla crema?».

    Glielo racconto con il tono di chi è sicuro al cento per cento che l’altra persona non abbia mai visto nulla di simile e che non esista niente di più divertente al mondo. Punto.

    Ellie mi fissa e vedo che sta studiando un modo per usare il racconto di quella serata da sogno contro di me.

    «Verso le quattro del mattino Karen tirò fuori un’enorme torta di compleanno con sopra venticinque candeline e tutti andarono fuori di testa», continuo a blaterare. «Insomma, si scatenarono e poi i ragazzi mi caricarono sopra le spalle e mi ritrovai a sobbalzare su e giù, mentre tutti scandivano il mio nome così: Jen-ny, Jen-ny, Jen-ny, Jen-ny, Jen-ny – e poi Dave mise su gli Oasis e iniziammo a gridare il testo di Cigarettes & Alcohol a squarciagola».

    Inizio ad agitare il pugno in aria e a cantare gli Oasis come se fossi tornata al 1996. Ed è proprio così, per un momento. Ho di nuovo venticinque anni. Riesco a sentire il profumo del mare, la sabbia e il fumo di sigaretta che mi brucia gli occhi e mi sto divertendo come una pazza, a due metri da terra, senza una sola preoccupazione al mondo, mentre Mark si muove da qualche parte lì sotto, dando un tocco di romanticismo alla serata.

    Poi torno al 2016, seduta in un ristorante messicano, consapevole del fatto che Ellie e George mi stanno fissando inorriditi mentre Mark si guarda intorno per assicurarsi che nessun altro stia osservando quello che ritiene il mio spettacolo.

    Abbasso il pugno.

    «Come ho detto, la serata più bella della mia vita». Mi mordo il labbro.

    «Poi i tuoi amici ti hanno gettata a mare», aggiunge Mark.

    «Sì», confermo. «E tu mi hai salvata».

    «Be’, che potevo fare? Eri una damigella in pericolo». Mi sorride di nuovo. Per un istante i ricordi dei tempi felici ci balenano davanti agli occhi, tremolanti. Il sorriso svanisce in fretta. Sta pensando la stessa cosa che penso io? Non siamo riusciti a vivere molti altri momenti felici negli ultimi tempi.

    «Mi lasciarono lì a galleggiare in acqua», racconto a Ellie e George. «Vostro padre mi raggiunse e mi porse la mano per aiutarmi». Mi fermo.

    «E?», domanda Ellie.

    Lancio un’occhiata a Mark. Sta scuotendo la testa e abbassa gli occhi sul menu dei dolci.

    «Be’… il resto è storia», mi schiarisco la voce.

    «Avete scopato, non è vero?», taglia corto Ellie.

    Mark tira su la testa di scatto e mi fissa con uno sguardo d’accusa.

    Sì! Ho voglia di piangere. Sì, sì, sì e fu grandioso!

    «Da quanto tempo vi conoscevate?», chiede mia figlia quando entrambi confessiamo il misfatto evitando di rispondere alla domanda.

    Mark scuote di nuovo la testa, poi scrolla le spalle come per dire: Ti sei cacciata tu in questa situazione, ora tiratene fuori da sola.

    Chiudo gli occhi e conto mentalmente.

    «Nove giorni», rispondo dopo averci pensato.

    «Jenny!», esclama Mark. «Avresti potuto mentire».

    Faccio spallucce. Non vedo perché avrei dovuto. Ellie non sa bene se rimanere colpita o inorridita da quella rivelazione e il mento di George torna a fare capolino dalla sommità della felpa. In tutta onestà, assomiglia a una tartaruga.

    «Tutte quelle ramanzine sul fatto che devo rispettare il mio corpo e preservarmi per la persona giusta, e tu sei andata a letto con uno che conoscevi da nove giorni!», esclama Ellie, fissandomi con sguardo accusatorio.

    Noto che non biasima il padre per la nostra promiscuità. Oh, certo che no. E poi ha il coraggio di definirsi femminista.

    «Avevamo venticinque anni», rispondo, stringendomi di nuovo nelle spalle. «E noi sapevamo, be’, almeno io lo sapevo, in un certo senso, che era qualcosa di importante. Che saremmo rimasti insieme».

    Mark non mi sta guardando. Ha chinato il capo su un’immagine di churros. Intravedo un principio di diradamento dei capelli sulla sommità della testa e sembra davvero un’altra vita rispetto a quando abbiamo iniziato la nostra storia su quella spiaggia.

    Capitolo 4

    Misi gli occhi su Mark per la prima volta all’aeroporto di Corfù il 17 giugno del 1996. Era quasi mezzanotte, ero stanca e dovevo ancora accompagnare cinquantatré vacanzieri esagitati in sette hotel diversi.

    Mi ero accorta subito che il suo gruppo sarebbe stato difficile da gestire. Avevo chiuso gli occhi e stretto tra le mani il portablocchi dell’agenzia di viaggi Sunseeker mentre mi si avvicinavano. Facevano un baccano infernale e avevo pregato che mi passassero accanto per andare a tormentare qualche sventurato accompagnatore turistico di un’altra compagnia in attesa che arrivasse l’ultima infornata di pallidoni.

    «Be’, se questi sono gli standard, allora siamo a posto, vero ragazzi?», disse un tipo robusto, avvolgendomi in un abbraccio ubriaco.

    «Hai un bel coraggio a buttarti sulla prima su cui posi gli occhi», commentò un altro. «Non siamo nemmeno ancora arrivati in hotel».

    «Non è mai troppo presto per iniziare», ribatté l’amico. «Abbiamo solo quattordici giorni e voglio mettere in valigia più souvenir possibili, se capisci cosa intendo».

    Mi strizzò la spalla varie volte mentre parlava e io sentii chiaramente il sudore della sua ascella premere contro la mia pelle nuda.

    Scostai la mano con un gesto deciso e assunsi un tono di voce autoritario.

    «Va bene, posso avere tutti i vostri nomi, per favore? Poi potrete portare il bagaglio al pullman parcheggiato alla banchina quindici».

    «Ehi, ehi», proseguì il tizio piuttosto basso ma decisamente tondo, «mi sta già chiedendo come mi chiamo. Sono a cavallo, ragazzi», disse ridendo.

    «Basta così, Tozzo», esclamò un uomo alto e slanciato, facendosi avanti per mettersi tra me e l’idiota a cui avevano affibbiato quel soprannome perfetto. «Ti prego di scusare i miei cosiddetti amici. Non escono molto spesso. Voialtri», gridò, voltandosi verso il resto del gruppo, «banchina quindici, adesso. Forza, andate».

    Con mia grande sorpresa, tra qualche mormorio si misero tutti in marcia.

    «Io sono Mark», disse, porgendomi la mano. La guardai e capii che voleva stringere la mia. Cosa che, in tre anni di lavoro come accompagnatrice turistica, non mi era mai capitata in un aeroporto. Sollevai lo sguardo mentre mi dava una stretta vigorosa. Sorrideva con la bocca e con gli occhi. Ero già cotta di lui.

    Nel corso della settimana seguente continuai a correre di qua e di là, ma ogni volta che era presente alle gite che organizzavo, o se ci imbattevamo l’una nell’altro in uno dei bar sulla spiaggia, lui insisteva sempre per offrirmi da bere. Non per farmi ubriacare e sfilarmi le mutande, che ovviamente era uno dei rischi del mestiere, ma soltanto per mostrarmi la sua gratitudine per il lavoro che stavo facendo. Il che immagino abbia avuto comunque l’effetto di convincermi a sfilare le mutande il nono giorno, ma non è questo il punto.

    A design for life dei Manic Street Preachers mi ricorda sempre quei primi giorni di flirt. A Mark piaceva parlare con me dei suoi progetti. Stava cercando di diventare un revisore contabile mentre lavorava per una ditta di costruzioni. Veniva da una famiglia operaia, quindi l’università non era mai stata un suo obiettivo, eppure era determinato a raggiungere un certo stile di vita da laureato, come lo definiva lui.

    «Vorrei diventare direttore finanziario di un’azienda privata medio-grande», mi spiegò mentre condividevamo una boccia tonda per pesci rossi piena di Margarita. «Bisogna lavorare nel campo finanziario, è l’unica posizione all’interno di un’impresa che ti permetta di sapere esattamente cosa succede», proseguì, mentre uno dei suoi amici ballava a torso nudo su un cubo accanto a lui sulle note di Firestarter di The Prodigy. «Se riesci a ottenere un lavoro del genere, poi puoi fare in modo che accada qualunque cosa. Puoi aiutare l’azienda a crescere, comprare azioni, vendere a una ditta di investimenti, o cercare capitali privati. È così che si fanno i soldi veri».

    Io annuivo piena di ammirazione, come se sapessi di cosa stesse parlando.

    «Scusa, devo apparire davvero noioso», aggiunse. «So che a volte posso sembrare un po’ fissato con questa storia. È solo che lo trovo davvero interessante e gli altri devono ricordarmi che non è così per tutti».

    «No, no», insistetti io. «È piacevole sentire qualcuno parlare con entusiasmo del proprio lavoro. La maggior parte delle persone viene qui per fuggire da un impiego che detesta e si rifiuta di parlarne o, quel che è peggio, finisce per sfogarsi e piangere sulla mia spalla alle quattro del mattino».

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