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A Natale tutto può succedere
A Natale tutto può succedere
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E-book507 pagine16 ore

A Natale tutto può succedere

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Info su questo ebook

Autrice bestseller del Sunday Times

Eve Glace è la comproprietaria di un parco giochi sulla neve, e il Natale che è alle porte sarà per lei il più magico di sempre. La nascita del suo bambino, infatti, è prevista proprio per il 25 dicembre e quindi fervono i preparativi per la grande festa, durante la quale lei e suo marito Jacques rinnoveranno le promesse matrimoniali. Annie Pandoro e suo marito Joe gestiscono una piccola fabbrica di decorazioni natalizie. Sono felici, nonostante il rimpianto di non essere mai riusciti ad avere un bambino. Ultimamente, però, Annie ha notato dei cambiamenti nel suo corpo. Possibile che una gravidanza inattesa sia il più bel regalo di Natale di tutti i tempi? Palma Collins sta portando a termine la gestazione per conto di un’altra coppia. Ma quando il matrimonio dei genitori adottivi del bambino entra in crisi, Palma si trova improvvisamente da sola con la prospettiva di diventare madre senza averlo pianificato. Annie, Palma ed Eve si incontreranno a un corso preparto, mentre aspettano il Natale più incredibile della loro vita.

Una commedia romantica che commuove e diverte

«Pieno di amore e risate.»
Daily Express

«Milly Johnson è un’autrice di romanzi di successo, ma questa volta si è superata.»
Grazia

«Leggere un libro di questa autrice è come scoprire ogni volta una miniera d’oro.»
Heat

«Un tema natalizio, unito a risate, amore, lacrime e un gruppo di personaggi a cui è impossibile non affezionarsi.»
Lancashire Post

Milly Johnson
È autrice di bestseller venduti in tutto il mondo e a lungo in testa alle classifiche. La Newton Compton ha pubblicato Un indimenticabile Natale d’amore, Un indimenticabile autunno d’amore, Segreti tra amiche e Un’indimenticabile storia d’amore. È stata finalista al “Melissa Nathan”, il premio di narrativa femminile più prestigioso d’Inghilterra. Ama leggere e studiare l’italiano. Vive a Barnsley, South Yorkshire.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2019
ISBN9788822738585
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    Anteprima del libro

    A Natale tutto può succedere - Milly Johnson

    Il primo trimestre

    Il «Daily Trumpet» desidera porgere le sue scuse al reverendo Derren Cannon della St Thomas, la Chiesa del Dubbio, di Rothsthorpe, e a sua moglie Mary. Nell’articolo di giovedì A casa con i Cannon, c’era un errore grammaticale. La frase avrebbe dovuto essere: Mary Cannon è seduta con i piedi poggiati sul comodo, vecchio pouf. Il marito, Derren Cannon, riposa sulla poltrona, e non: Mary Cannon è seduta con i piedi poggiati sul comodo, vecchio pouf, il marito. Derren Cannon riposa sulla sua poltrona. Ci scusiamo senza riserve con il redivivo e la signora Cannon.

    Capitolo uno

    «Questi sono cracker per i nostri denti», chiocciò Gill Johnson. Faceva la stessa battuta una volta a settimana da quando lavorava con loro, e non si stancava mai di ripeterla, anche perché gli altri ridevano ancora. Ormai era andata oltre il trito e ritrito per entrare nel regno del kitsch. I proprietari della Crackers Yard, Joe ed Annie Pandoro, sbuffavano sempre a quelle parole, ma presto ne avrebbero sentito la mancanza. Gill stava contando i giorni che la separavano dalla pensione, quando li avrebbe lasciati per andare a vivere nella soleggiata Spagna.

    «Oh, chiudi il becco e mettiti a riempire», sbottò Iris Caswell che, a ottantacinque anni suonati, era l’impiegata più anziana. Ogni volta che si alzava da una sedia emetteva una serie di «uff» e «aaah», e ogni giuntura in lei scricchiolava come una vecchia nave, ma se il resto del suo corpo fosse stato agile e in forma come le sue dita, avrebbe potuto gareggiare al Gran National ogni aprile.

    «Ho dimenticato cosa stavo dicendo», disse Annie con aria pensierosa.

    «Di come la menopausa ti stia derubando della memoria», le ricordò Iris facendo un bel fiocco sull’estremità di un cracker con mano esperta. «Di questi tempi te la tieni e vai avanti. Non sbandieri il fatto che sudi come un ciccione in un negozio di dolci. Ti asciughi la fronte e continui a stendere la biancheria».

    «Qualcuno alla televisione ha detto che le donne dovrebbero indossare una targhetta con la lettera M per far sapere all’universo che stanno attraversando la fase di cambiamento». La risata beffarda di Gill non lasciò dubbi su ciò che pensava di quell’idea. «E dopo? Faranno le targhette con la I per incontinenza, per saltare la fila alla toilette?»

    «Io me la metterei», disse Iris. «In questi giorni, quando la mia vescica grida: Salta, devo rispondere: Quanto alto?».

    «Be’, io non indosserò nessuna targhetta», decise Annie, imballando in una scatola tutti i cracker confezionati dalle sue signore. «E, in ogni caso, dovrei metterci una P per perimenopausa».

    Suo marito Joe si affacciò dalla porta dell’ufficio: era un uomo a cui piaceva scherzare con le donne, ma a volte sentiva il bisogno di tirarsi fuori da certe conversazioni e andare a farsi un tè. A volte le chiacchiere delle signore lo terrorizzavano e si riteneva fortunato a essere nato maschio.

    «Che diavolo è la perimenopausa?», chiese.

    «È quando sei talmente preoccupata di essere in menopausa che devi aprirti una bottiglia di Babycham», ridacchiò Gill, la regina delle battute terribili. Joe era tornato a rifugiarsi nel suo ufficio, anche perché non aveva capito la battuta: certe cose non si potevano tradurre nella sua lingua madre, l’italiano.

    La Crackers Yard si trovava nella piccola zona industriale compresa tra i paesini di Higher Hoppleton e Maltstone. C’erano anche degli uffici, un negozio di vernici e carta da parati, un ingrosso di articoli da cancelleria, un negozio di animali; e poi c’era Bren’s Butties, una panineria che serviva tutti gli altri e faceva affari d’oro. Il loro edificio era di medie dimensioni, con un pianoterra e un ammezzato. La parte anteriore del pianoterra ospitava, oltre alla taglierina per tagliare carta e cartoncino, un enorme e costoso macchinario utilizzato per i grossi ordini, che incollava le striscioline di carta per lo scoppio, arrotolava e chiudeva i cracker di Natale. Una zona era occupata dalle casse di cracker già pronte per essere spedite e dagli scaffali pieni di bellissime carte colorate provenienti dalla Svizzera. Sul retro c’erano una piccola cucina, il bagno e un ufficio, utile per quelle volte in cui era necessaria una maggiore privacy o quando Joe aveva bisogno di sfuggire a conversazioni troppo spinte persino per le sue orecchie da napoletano avvezzo alle battute salaci. C’erano due tavoli per arrotolare a mano i cracker più costosi, scaffali pieni di striscioline esplosive, e poi ninnoli, cappellini, aforismi, nastri, e un lungo tavolo centrale dove Gill e Iris sedevano a imbottire, costruire e legare nastri. Il piano ammezzato era usato come showroom dei loro lavori. Se i clienti preferivano venire in fabbrica anziché far andare Joe a casa loro, era lì che discutevano di ordini e vendite. Per essere un edificio così alto e impersonale era sorprendentemente accogliente, ma d’altronde i prodotti che vi si fabbricavano e le persone che li realizzavano emanavano vibrazioni positive e allegria, e ciò contribuiva non poco all’atmosfera gioiosa.

    Quindici anni prima Joe Pandoro faceva il consulente finanziario ed Annie la capo contabile. Erano entrambi scontenti dei rispettivi lavori e avrebbero voluto impiegare le energie in qualcosa di loro proprietà, così si erano messi a cercare un’attività già avviata da comprare. Acquistarono Cracker Jackie, un’azienda in grosse difficoltà. Non sapevano nulla sull’industria dei cracker e Jackie non era stata di grande aiuto. Per due anni andarono in perdita, il terzo anno riuscirono a chiudere in pareggio e il quarto realizzarono un profitto che superò le aspettative. Da quel momento crebbero, anno dopo anno. I dipendenti andavano e venivano ma con le fedeli Iris e Gill a bordo, le cose si erano pian piano aggiustate. L’attività era andata prosperando al punto che i Pandoro avevano ordini in abbondanza e ora avevano bisogno di assumere altro personale, non certo di perderlo per gli incanti della Costa del Sol.

    «Il mio corpo non sa cosa vuole. Proprio quando penso di aver avuto il mio ultimo ciclo e butto via tutte le mie cose, ecco che ne arriva un altro», sospirò Annie mettendo il coperchio a una scatola piena di cracker, fermandolo sui bordi con il nastro adesivo.

    «Allora non le buttare», le suggerì Gill. «Per la legge di Murphy, smetterai di avere il ciclo quando avrai scorte di assorbenti per un anno a intasare i tuoi armadi».

    «Non ne avevo uno dalla metà dell’anno scorso», disse Annie. «E poi, due settimane fa… bingo».

    «Da quel punto di vista me la sono sempre passata piuttosto male», disse Iris scuotendo la testa al ricordo di momenti tutt’altro che piacevoli. «Quelle cinture che dovevamo indossare. E gli slip di gomma».

    Gill annuì. «La maledizione di ogni donna. Un giorno mia madre mi tirò un tampone e mi chiese: Sai cos’è questo, Gillian?. Io non ne avevo idea. Poi mi disse che ogni mese, per una settimana, non avrei potuto farmi il bagno, lavarmi i capelli, montare gli albumi, fare questo o quello. Ero terrorizzata, cavoli». Un brivido la scosse. «La cosa migliore che mi sia mai successa è la menopausa. Non ero affatto dispiaciuta di dire addio ai miei appuntamenti mensili. Avevo avuto i miei bambini e…».

    Lasciò la frase a metà: avrebbe voluto riportare indietro il tempo di qualche secondo e non pronunciare quelle parole, perché lei aveva fatto il suo dovere nei confronti di madre natura e aveva potuto produrre un’altra generazione – e come lei anche Iris – ma Annie non era stata altrettanto fortunata. E la fine delle mestruazioni significava l’addio definitivo alla speranza, sempre più sottile, di poter fare lo stesso. La porta delle opportunità si era chiusa per lei, mancava solo un giro di chiave.

    Iris si rese conto dell’imbarazzo che era calato nella conversazione e accorse in aiuto.

    «E un entusiastico addio al desiderio», disse. «Io e Dennis ci siamo assestati su una piacevole routine a base di partite a Scarabeo e cioccolata calda prima di andare a dormire. Un bacio sulla guancia e a nanna in cinque minuti. Il sesso è sopravvalutato. Va bene solo per i giovani».

    Annie preferì non commentare. Lei e Joe non lo facevano più come i conigli, ma erano ancora piuttosto in sintonia da quel punto di vista. Ultimamente facevano l’amore in modo molto tenero, come se si rendessero conto che stavano per entrare in un’altra fase della loro vita e, per compensare, cercassero di darsi conforto a vicenda. La notte precedente, per esempio. Il bacio della buonanotte si era prolungato più del previsto e poi le loro mani avevano cominciato a esplorarsi. Dopo erano caduti in un sonno che nessuna partita a Scarabeo o tazza di cioccolata calda avrebbe potuto conciliare.

    Capitolo due

    Eve Glace lanciò uno sguardo dalla finestra dell’ufficio, alla frenetica e chiassosa attività che ferveva fuori. Fino a pochi anni prima, la vista consisteva solo in un pezzo di paesaggio piatto e monotono con un folto di abeti su un lato. Adesso c’era un parco a tema dedicato al Natale: Winterworld era stato un’idea della sua prozia mezza matta. Evelyn Douglas era stata una vecchia signora con un debole per i gatti e le torte di Mr Kipling, ma solo se erano in offerta speciale. Nessuno sapeva che era stata un genio della finanza e che aveva comprato un lotto di terreno da un proprietario in cattive acque, programmando di trasformarlo nel suo personale Polo Nord. «Un parco a tema a Barnsley?», l’avevano derisa. Ma parecchi anni or sono, Alton Towers era un semplice padiglione da caccia con un grande giardino, e quindi i beffeggiatori potevano anche continuare a deridere, ma Winterworld venne costruito e messo in funzione ed ebbe un successo clamoroso. Cominciavano ad arrivare visitatori anche dall’estero, la risposta era incredibile. Ogni anno il parco chiudeva per alcuni mesi, il tempo di eseguire i lavori necessari a renderlo persino più grande e più bello di prima.

    In quel momento erano chiusi, e lavoravano come matti dietro le quinte per rendere Winterworld sempre più magico e speciale. Ormai c’erano posti in abbondanza dove mangiare: deliziosi caffè e gelaterie che offrivano una favolosa varietà di gusti. C’era una foresta incantata dove macchine nascoste facevano nevicare in ogni periodo dell’anno. C’era Santapark, pieno di giostre per i più piccoli, una pista di pattinaggio e una zona dedicata agli animali che ospitava renne e lama, pony bianchi e gufi delle nevi tratti in salvo; e un treno che faceva fermate in diversi punti del parco e aveva una volontà tutta sua, rifiutandosi di piegarsi a ogni modifica tecnica. La grande idea di quell’anno era aggiungere una laguna dove poter fare il bagno. Il progetto doveva essere realizzato in due anni, ma Eve aveva spinto perché lo finissero in un solo anno, una totale follia. Gli operai avevano trovato una sorgente naturale vicino alla piantagione di alberi di Natale e sembrava il posto ideale per mettere la laguna che sua zia aveva abbozzato nei piani originali. Non appena il suo capo cantiere Effin Williams le aveva detto che si poteva fare, Eve gli aveva dato l’autorizzazione a procedere. Come avrebbe detto sua zia Evelyn, non c’è nulla di eccitante a restare nella propria comfort zone, e lei doveva saperlo bene. Si era divertita a trasformare la sua eccentricità in una forma d’arte, ma sfortunatamente la ribellione al corsetto era arrivata troppo tardi perché potesse vedere le proprie idee portate a compimento. L’attrazione avrebbe portato il suo nome: Lago di Lady Evelyn. Eve voleva che fosse incantevole, quasi un posto da fiaba.

    Eve si era aspettata che la zia le lasciasse in eredità un medaglione, e non l’obbligo di costruire un mondo fantastico insieme a uno sconosciuto mezzo matto e mezzo francese il cui nome si poteva tradurre Jack il gelato; un idiota di primissimo ordine che teneva il telefono in un calzino di SpongeBob. Un tipo ridicolo, fuori di testa, un bambino intrappolato nel corpo di un adulto che lei aveva odiato fin dalla prima occhiata. Poi, come per incanto, era riuscita ad andare oltre quell’immagine da cagnolino scodinzolante e aveva visto il cuore di un uomo solido e coraggioso che batteva all’unisono con il suo. Si era innamorata e lui l’aveva sposata, come le aveva promesso fin dal loro primo incontro.

    Dalla finestra riuscì a scorgere Jacques che gesticolava animatamente, al pari di Effin. All’inizio Eve aveva giudicato Effin un tipo strano: molto bravo nel suo lavoro, comandava il personale con il pugno di ferro, la spada della giustizia e una buona dose di imprecazioni gallesi. I suoi operai, per metà gallesi e per metà polacchi, avevano imparato ad accettare i suoi modi e Eve era convinta che non avrebbero voluto lavorare per nessun altro.

    Ora guardava Jacques ed Effin inscenare la solita commedia: Effin stava urlando che era sovraccarico di lavoro e voleva andarsene, mentre Jacques ribatteva che l’avrebbe aiutato a impacchettare tutti gli attrezzi. Nel corso di quell’anno era successo almeno una volta a settimana, ma Eve ora temeva che Effin mettesse davvero in atto le sue minacce, una volta o l’altra, e tutto per colpa delle sue ridicole aspettative. A giugno sarebbe uscito un film che, per combinazione, si intitolava Winterworld, e aveva come protagonista un attore di prima categoria, il fantastico Franco Mezzaluna. Eve aveva scherzato con Jacques sull’idea di invitarlo a inaugurare la loro nuova attrazione, ma dopo aver concluso che le loro possibilità di riuscita oscillavano tra lo zero e lo zero spaccato, era stato l’ufficio stampa di Franco a chiamarli, offrendosi di collaborare con loro senza che avessero dovuto alzare un dito. Doveva essere stata la zia Evelyn da lassù ad architettare il tutto, ne erano tutti convinti. E se c’era lo zampino di zia Evelyn, sarebbe filato tutto liscio.

    Eve vide l’espressione truce di Effin mutarsi in una risata per qualcosa che aveva detto Jacques. Suo marito sarebbe stato capace di snidare i pettirossi dagli alberi di Natale solo con la persuasione. Non c’era persona con cui non andasse d’accordo: sapeva discutere in modo appropriato con le banche, trattare con i fornitori, era l’incarnazione della pazienza con gli anziani, si mostrava eloquente e amichevole con la stampa e diventava un secondo Dottor Dolittle con gli animali del parco. Ma era con i bambini che dava il meglio di sé. La figlioccia di Eve, Phoebe, lo adorava, probabilmente perché era lui stesso un bambinone troppo cresciuto. Aveva la sveglia di Basil Brush la volpe, la vestaglia di Superman, e come suoneria del telefono aveva la sigla di Scooby Doo. Matto, era meravigliosamente matto. I bambini pensavano che fosse Babbo Natale in versione moderna. Persino i neonati in carrozzina lo fissavano come se fosse una creatura di un altro pianeta.

    Con questi pensieri, Eve andò a prendersi una tazza di caffè sul retro, dove un enorme alce impagliato di nome Gabriel, un tempo appartenuto alla zia Evelyn, faceva la guardia.

    «Com’è mio marito, Gabriel?», chiese Eve all’alce addobbato con le palline natalizie. Parlava spesso con lui quando erano soli. Lui non rispondeva mai, ma dalla sua espressione avresti detto che stava riflettendo. «Com’è con i bambini?».

    Dovrebbe averne di suoi, la investì una voce fuoricampo, con una tale forza che si sentì quasi vacillare. Era senz’altro d’accordo, perché Jacques sarebbe stato un padre meraviglioso. Ma quando? Erano troppo impegnati per avere bambini, il parco assorbiva tutte le loro energie. Però lei non aveva ancora quarant’anni e ormai la gente metteva su famiglia sempre più tardi. Quindi magari non subito, ma un giorno. Quando avrebbero avuto un po’ di tempo.

    Chi ha tempo non aspetti tempo, disse la stessa voce. Non avrebbe potuto affermarlo con certezza, perché era troppo flebile, ma non sembrava affatto la voce di una vecchia signora.

    Capitolo tre

    Palma Collins si fermò un momento prima di palesare la sua presenza agli inquilini del numero 15 di Ladybower Gardens, perché c’era un litigio in corso, aveva sentito le urla già in fondo al vialetto. Rimase fuori a bighellonare per un po’, aspettando che i bollori si raffreddassero. Sperava che accadesse in fretta, così avrebbe potuto fare quello che doveva fare per poi togliere il disturbo.

    Tabitha Stephenson aveva appena chiamato il marito «coglione di prima categoria». Christian aveva ribattuto con «strega boriosa». Se non altro nessuno dei due poteva essere accusato di esprimere giudizi non veritieri, infrangendo la legge a tutela del consumatore.

    Il bottone del campanello si trovava proprio sotto la targa Stephen’s Hall, che già faceva presagire manie di grandezza. D’accordo, poteva anche essere una delle ville più grandi della zona, ma non era certo Downtown Abbey. Nel corso del loro primo incontro, all’inizio dell’anno, Tabitha aveva fatto fare a Palma un tour guidato per mostrarle il genere di casa in cui il bambino sarebbe cresciuto. Con l’orgoglio di un’agente immobiliare, le aveva mostrato le due sale da ricevimento, lo studio, la sala da pranzo in stile country con la decorazione a ovoli e lancette di Lincrusta, per non parlare del pergolato lungo cinque metri e lo sbalorditivo capanno per barbecue nel giardino. Quest’ultimo aveva davvero lasciato Palma a bocca aperta. Poteva ancora capire il giardino d’inverno ottagonale, l’enorme vasca a idromassaggio, i bagni privati per lui e per lei, ciascuno fornito di bidet, ma il capanno… santo cielo! Sperava di diventare abbastanza ricca, un giorno, da potersi permettere uno di quelli, anche se era alquanto improbabile. Ma, se tutto andava come previsto, avrebbe presto ricevuto un bel gruzzoletto che le avrebbe cambiato la vita, anche se non era una somma tale da concedersi uno stile di vita agiato come quello degli Stephenson. Ma l’avrebbe comunque tolta dai guai, e in quel momento le andava più che bene.

    Stephen’s Hall era una casa da rivista patinata, lustra e luccicante: la cucina in acciaio cromato, le ante degli stipetti, i tavoli di vetro, i pavimenti di legno, tutto brillava. Palma si chiese come avrebbe reagito Tabitha quando un bambino le avrebbe impiastricciato quelle superfici linde con le dita appiccicose. Non molto bene, concluse, ma non era un problema suo. Una volta nato il bambino, Palma non avrebbe più pensato né a lui né agli Stephenson. Missione compiuta, tanti auguri e addio per sempre.

    Aveva sperato di rimanere incinta subito perché prima succedeva prima sarebbero passati quei nove mesi e lei sarebbe potuta tornare alla sua vita, ma gli ultimi due cicli erano arrivati puntuali come un orologio. La terza è la volta buona, si disse allungando la mano verso il campanello, ma poi esitò perché in casa infuriava ancora il litigio.

    La parte superiore della finestra era leggermente aperta, probabilmente una dimenticanza della coppia. «Sarà qui a minuti, Christian, quindi chiudi quella cazzo di bocca», udì Palma.

    «Chiudi tu quella cazzo di bocca», replicò Christian.

    Cadde il silenzio. Palma contò fino a tre e colse l’occasione per annunciare il suo arrivo. Il campanello riprodusse la melodia maestosa delle campane del Big Ben mentre lei si sforzava di aggiustare i suoi lineamenti in una perfetta espressione da Sono appena arrivata, sorridendo come se non avesse la minima idea che fino a pochi secondi prima gli Stephenson si stavano sbranando come cani randagi.

    Tabitha aprì la porta, affascinante come sempre anche in jeggings e pullover. Aveva indosso una di quelle maglie larghe che stanno meravigliosamente bene alle donne magre, ma fanno somigliare quelle grasse dei divani sfondati.

    «Ah, Palma, vieni, vieni», disse Tabitha facendola accomodare in casa con un sorriso smagliante. «Eccoci di nuovo».

    «Già», disse Palma. Eccoci di nuovo.

    «Stai prendendo ancora l’acido folico, vero? Niente tè o caffè. Tanta acqua e sette porzioni al giorno di frutta e verdura».

    «Sì, signora Stephenson», disse Palma. Stessa domanda, stessa risposta, stessa bugia. Stava prendendo l’acido folico, ma non aveva eliminato del tutto il tè e il caffè, anche se ne beveva meno. Era già abbastanza pesante non poter bere alcol. Quanto alle sette porzioni di frutta e verdura… continua a sognare, tesoro.

    «Christian», urlò Tabitha al marito. «C’è Palma».

    Come al solito pronunciò il suo nome Polma. «È Palma, come la capitale di Maiorca», le aveva detto una volta, ma Tabitha non si persuadeva: era una di quelle donne che fingevano di ascoltarti, ma le parole le entravano da un orecchio e le uscivano dall’altro. Palma l’aveva capito subito.

    Christian apparve sulla porta. Indossava un paio di jeans di Armani e una maglietta con la scritta Lacoste e un coccodrillo gigante sul davanti, perché non ci fossero dubbi sulla marca. Anche vestito casual sembrava più elegante di tutte le persone eleganti che lei avesse mai visto. «Ciao, Palma». Almeno lui pronunciava il suo nome correttamente.

    «Salve, signor Stephenson», ricambiò. Sembrava una conversazione apparentemente normale e cortese, se non fosse stato che di lì a pochi minuti Christian sarebbe andato a farsi una sega dentro un barattolo, avrebbe risucchiato il prodotto con una siringa da carne e lei avrebbe dovuto spruzzarlo dentro il suo condotto per poi stendersi con il bacino inclinato e le gambe in su, appoggiate sulla carta da parati Graham and Brown della loro stanza degli ospiti, mentre lo sperma nuotava dentro di lei facendo del suo meglio per individuare un ovulo. Tutto per cinquemila sterline, che all’inizio le erano sembrate una piccola fortuna. Lei ne avrebbe prese solo tremila, naturalmente, il resto toccava a Clint. Lui aveva già ricevuto duecento sterline per aver concluso l’affare. Alla conferma della gravidanza ne avrebbero prese cinquecento a testa, il resto nove mesi dopo, il giorno della consegna.

    «Vai pure di sopra», le disse Tabitha indicando le scale con un cenno del capo. «Conosci la procedura».

    Sì, conosceva perfettamente la procedura. Si tolse le scarpe, salì i tredici gradini di moquette color crema, percorse il corridoio fino alla piccola stanza in fondo. Una volta lì, si tolse le mutande e aspettò con pazienza che il signor Stephenson facesse il suo dovere e le consegnasse il tubetto pieno di succo di bambino.

    Udì Christian entrare nella stanza accanto alla sua. La camera da letto padronale: sulla porta c’era una targa con su scritto Cavoli tuoi. Poi non sentì più nessun rumore e cercò di non pensare a cosa stesse facendo. A Palma non piaceva Christian, anche se non avrebbe saputo spiegare il perché: era gentile e molto attraente, ma il suo sorriso aveva qualcosa di viscido, lo sguardo era penetrante e la prima volta che l’aveva incontrato le aveva stretto la mano per un secondo di troppo. Non tanto da mandarlo al diavolo, ma l’aveva comunque messa a disagio.

    Christian ci mise solo qualche minuto a raccogliere lo sperma. Pensava che glielo avrebbe consegnato rapidamente come al solito per poi ritirarsi lasciandole fare la sua parte, ma quel giorno si infilò dentro la stanza e chiuse piano la porta alle sue spalle.

    «Tabitha sta diventando impaziente», disse sottovoce, con un dito sulle labbra per indicarle di fare silenzio, qualunque cosa avesse intenzione di rispondere. «So che non bisogna avere fretta in queste cose, ma possiamo sempre provare a farlo in modo più tradizionale e aumentare le probabilità».

    Palma ci mise qualche secondo a capire cosa aveva in mente, ma quando lui aggiunse: «Ci penserò io a rendertelo piacevole», esplose.

    «Non possiamo farlo», esclamò sconcertata. «Lei è sposato». Il suo istinto ci aveva visto giusto: era un maiale.

    Christian sfoderò la sua migliore espressione sdegnata.

    «Palma, non sarebbe mica come fare l’amore, sarebbe solo un modo più… diretto di fare lo stesso lavoro. Eliminando il mediatore», sollevò la siringa, «e facendo come la natura insegna».

    A Palma non importava un fico secco di cosa insegnasse madre natura. Era uno sbaglio con la S maiuscola.

    «No», disse con fermezza strappandogli la siringa di mano, ma lui non si mosse.

    «Bene, spero proprio che funzioni, questa volta», disse. «Altrimenti dovremo pensare a un’altra strategia. Tabitha è d’accordo, se è quello che ti stai chiedendo».

    Non gli chiese cosa volesse dire, ma un’immagine di Tabitha inginocchiata sul letto, e di lei con la testa poggiata sul suo grembo, come Difred in Il racconto dell’ancella, le attraversò l’ippocampo.

    «Meglio che tu sappia che Tabitha non è la persona più paziente del mondo, qualunque sia l’impressione che ti ha dato. È disperata. E le persone disperate fanno cose disperate, Palma».

    Lo sapeva. Ecco perché era lì.

    «Ho capito», disse. «Sto facendo del mio meglio».

    L’uomo se ne andò, lasciandola fare ciò che doveva.

    Se aveva voluto farla sentire sacrificabile, c’era riuscito. Christian sapeva che lei voleva quei soldi con tutte le sue forze. Durante il loro primo incontro aveva fatto l’errore di confessare che aveva bisogno di denaro, con l’intento di rassicurarli sul fatto che non si sarebbe tirata indietro, ma così facendo si era messa in una posizione di svantaggio.

    Clint, l’intermediario, le aveva detto che Tabitha desiderava ardentemente il bambino che non poteva portare in grembo, anche se non aveva pianto quando Palma le aveva telefonato dicendole che le era venuto il ciclo per due volte di seguito. Il suo tono di voce, mentre fissavano l’appuntamento successivo per l’inseminazione, tradiva più che altro fastidio e frustrazione. D’altronde Tabitha non era tipo da mettersi a piagnucolare. Forse teneva dentro di sé la sua disperazione, ed era talmente allo stremo che sarebbe stata solo una questione di tempo e ben presto avrebbe spinto il marito a prostituirsi allo scopo di fare come madre natura insegna, chiudendo un occhio – o le orecchie – sui cigolii ritmici, sempre più veloci, provenienti dalla stanza degli ospiti.

    Mentre Palma inseriva la siringa dentro di lei, pensò a quanto avrebbe potuto chiedere come extra se avesse accettato di fare sesso con Christian. Sempre che glielo proponessero. Le persone disperate fanno cose disperate, come aveva detto lui a ragione. E se lei era tanto disperata da affittare il suo corpo per nove mesi, pochi dollari in più sarebbero bastati per farle aprire anche quella porta.

    Capitolo quattro

    «Questi sono cracker per i nostri denti», disse Gill, ridacchiando allegramente mentre infilava un fischietto rosa dall’aspetto equivoco nell’estremità aperta di un cracker luccicante.

    «Quali denti, se ci stai lasciando per un castello in aria», disse Iris seduta di fronte a lei, il viso corrucciato.

    «L’invidia non ti porterà da nessuna parte, Iris».

    «Non sarò invidiosa quando l’anno prossimo, a quest’ora, tu starai piangendo perché ti mancano le comodità di casa tua. E ti sarai già stufata del caldo».

    Gill scoppiò a ridere. «Sto andando a vivere a Fuengirola, Iris, non nel deserto del Gobi. Non c’è nulla qui che non possa trovare anche laggiù».

    Iris ci pensò su un momento, ma l’unica cosa che riuscì a dire per controbattere fu: «Neve».

    «Odio la neve», disse Gill. «Mettimi su una veranda con una piña colada in mano a metà dicembre e sarò felice».

    «Ti stancherai presto».

    «Fidati, non sarà così».

    «Ti mancheranno la tua Viv e la tua Sal. Non potrai più fare una scappata da Meadowhall con loro come fai adesso, a farti un pranzetto con un bicchiere di prosecco», tentò Iris.

    «Verranno a trovarmi durante le vacanze. E poi la nostra Sal si trasferisce in Cornovaglia ad agosto. Ci metterei più tempo a raggiungerla da qui che dal Mediterraneo».

    «Tanto per cominciare, sei troppo vecchia», disse Iris. «E se ti ammali?»

    «Ci sono gli ospedali Iris. E sono buoni. Se stai cercando di farmi cambiare idea, ti avverto, non hai speranza».

    Iris si alzò dal tavolo sbuffando sonoramente. «Vado in bagno», annunciò, come se stesse andando a svuotarsi la vescica sotto costrizione. Quando fu certa che non poteva sentirle, Annie disse: «Le mancherai, Gill».

    «Mi mancherà anche lei», rispose Gill con un piccolo sospiro. «Siamo amiche da tanto tempo, ma io e Ted non vogliamo più rimandare. Laggiù la sua artrite migliora. E poi potremo vederci su FaceTime. La nostra Sally ha regalato a Ted un iPad per il compleanno, e lui ci sguazza come un’anatra nell’acqua. Be’, in realtà la scorsa settimana ha quasi rischiato di andare in diretta Facebook mentre era al gabinetto e armeggiava per cercare qualcosa di Dean Martin su YouTube. Per poco il mondo intero non l’ha visto alle prese con i suoi movimenti intestinali».

    Joe sorrise e prese la tazza di Gill dal tavolo. Quel giorno toccava a lui occuparsi delle bevande. In realtà toccava a lui ogni giorno.

    «Mancherai anche a noi, Gill», disse. A diciotto anni era venuto a Leeds da Napoli per studiare all’università e si era innamorato dello Yorkshire e, due mesi dopo, di Annie. Parlava un ottimo inglese dopo tutti quegli anni, ma l’accento italiano si sentiva ancora parecchio. Gill diceva sempre che gli ricordava Rossano Brazzi, il suo attore preferito. Ci aveva messo cinque mesi a innamorarsi di Ted da quando avevano iniziato a frequentarsi. Se lui avesse avuto un accento italiano come Joe Pandoro, gli sarebbe bastato un ciao per conquistarla.

    «Stai bene Annie, tesoro? Sei molto pallida oggi», disse Gill scrutando il suo capo, mentre era intenta a tagliare pagine di vecchie barzellette da arrotolare con i cappellini.

    «Vedi», disse Joe rivolgendosi alla moglie. «Se n’è accorta pure lei». Poi si volse a Gill. «Le ho detto che è pallida, ma non mi ascolta».

    «Sto bene, davvero. Davvero», disse Annie, ma la stanchezza che si percepiva nella sua voce la smentì.

    «Stai lavorando troppo», dichiarò Gill, decidendo che doveva essere quella la causa del pallore. «Non hai ancora trovato nessuno che mi sostituisca?»

    «All’agenzia interinale, non abbiamo trovato nessuno interessato al posto», rispose Annie.

    «A parte quelli che hanno fatto domanda solo per dimostrare che stanno cercando lavoro e mantenere il sussidio. Ma non gli interessa davvero», aggiunse Joe agitando la mano con enfasi. «Non voglio gente del genere».

    «Be’, sarà meglio che cominci a cercare due persone perché Annie non si regge in piedi», commentò Gill.

    «Non sto dormendo molto bene», ammise Annie.

    «È l’età. Stavo malissimo a cinquant’anni», disse Gill.

    «Ehi, che faccia tosta, io ne ho quarantotto», ribatté Annie ridendo.

    «La menopausa è una merda. Mi sentivo come se mi avessero colpito con una di quelle grosse palle con cui buttano giù i palazzi».

    «Vado in cucina», annunciò Joe. «Non voglio ascoltare le vostre chiacchiere da donne».

    «Codardo», gli gridò dietro Gill senza credergli troppo. Se si azzardava a pronunciare la parola tampone in presenza di Ted, quello diventava tutto rosso, cominciava a tossire e s’inventava la scusa di andare a cercare qualcosa nel capanno degli attrezzi. Ma Joe conosceva lei e Iris quanto i loro dottori. Le sarebbero mancati i Pandoro. Li conosceva solo da pochi anni, ma sembrava una vita. Nel senso buono. E quel lavoro – fabbricare cracker per poco più della paga minima sindacale – sulla carta non sembrava certo un granché, ma si poteva scherzare liberamente, la giornata volava, il bollitore era sempre sul fornello e Joe ed Annie erano la gentilezza in persona.

    «Sta girando un virus, sai, Annie», disse. «La figlia di Iris l’ha preso. È rimasta fuori gioco per due settimane buone».

    Iris riapparve e tornò al tavolo con andatura dondolante, strofinandosi l’anca.

    «Iris, Linda ha avuto un virus, non è vero? Lo stavo dicendo a Annie».

    «Un virus con la V maiuscola», disse Iris. «Stava male da cani ed era bianca come un lenzuolo. Ha perso tre chili solo nella prima settimana». Tirò su col naso e guardò Gill sogghignando. «Meglio che ti abitui a perdere peso con l’acqua che hanno laggiù, sulla Costa della Diarrea».

    «Oh, sta’ zitta, Iris, che sciocchezze vai dicendo». Gill si ricordò improvvisamente di un aneddoto che voleva raccontare. «Ehi, ti racconto questa, così la smetterai di pensare a me che prendo il volo per il paradiso. Hai sentito di Brenda Lee?»

    «La cantante?», chiese Annie.

    «No, Brenda Lee di Canal Street», fece Gill. «Brenda Lee, quella con lo sguardo strano. Iris sa di chi parlo».

    Iris ci pensò su. «La moglie di Doug Lee?»

    «Be’, la vedova, se vogliamo usare un po’ di tatto. Sta sposando un barman turco, uno di quelli con la barbona, di nome Mehmet. La famiglia sta cercando di farla internare».

    «Perché ha chiamato la sua barba Mehmet?», chiese Joe facendo l’occhiolino a Iris mentre portava un vassoio di tazze.

    «È lui che si chiama Mehmet, non la sua barba, babbeo. E ha la metà dei suoi anni e un piccolo extra».

    «Le persone nello Yorkshire sono pazze», disse Joe con una risata, usando volutamente la parola italiana, e Gill pensò che sembrava proprio un attore quando scopriva i suoi bellissimi denti. Persino più bello di Rossano Brazzi.

    «Ha detto che non ha mai fatto tanto sesso».

    Iris soffocò un’esclamazione.

    «È vero», continuò Gill. «Contro il muro, sul sedile posteriore della macchina…».

    «Sembri Doreen Turbot», disse Iris, riferendosi a una loro comune amica che era riuscita finalmente a sposare l’amore della sua vita, quaranta e passa anni dopo averlo lasciato. «Quando è tornata con Vernon, avrebbe fatto arrossire pure Christian Grey».

    «A quanto pare Mehmet la sbatte da una parte all’altra della stanza da letto. Di lavoro fa il muratore».

    «Piantala, Gill Johnson. Neanche il campione di lancio del peso Geoff Capes potrebbe sbattere Brenda Lee da una parte all’altra. Peserà almeno duecento chili».

    Annie rideva così forte che aveva quasi le lacrime agli occhi. Iris e Gill insieme formavano il duo comico più divertente che avesse mai visto. Ci sarebbero state molte meno risate dopo la partenza di Gill per la Costa del Sol. E negli ultimi mesi, Annie aveva un disperato bisogno di ridere, da quando aveva capito che il suo sogno più grande era ormai irraggiungibile per lei.

    «Guarda che a me piace la cucina turca», precisò Gill che non si sarebbe mai trasferita in un posto in cui la cucina non fosse stata di suo gusto. «Ci piace mangiare un buon kebab. Con salsa chili e insalata», schioccò la lingua e si leccò le labbra.

    Iris rabbrividì. «Non sai cosa ci mettono in quella roba. Piccioni, cani morti…».

    «Oh, Iris, smettila», disse Annie ridendo ma senza riuscire a nascondere il ribrezzo.

    «È vero. Io e Linda l’abbiamo visto in tivù. Ci mettono di tutto dentro. Bulbi oculari, tessuti connettivi e macinano…».

    Annie si tappò la bocca con la mano mentre il contenuto del suo stomaco cominciò a risalire dentro di lei come un’onda anomala. Corse verso il bagno con uno scatto da fare invidia a una velocista del calibro di Flo-Jo.

    «Dammi retta, Joe. È quel virus che sta girando», disse Gill a Joe.

    Joe annuì. Non aveva detto a Gill e Iris che Annie aveva vomitato spesso in quelle ultime due settimane e che aveva perso del tutto l’appetito. Non disse loro che era molto preoccupato per lei, perché sua madre aveva cominciato allo stesso modo e anche lei si era rifiutata di andare dal dottore perché aveva paura di ciò che avrebbe potuto trovare. E quando alla fine ci era andata, aveva avuto la peggiore delle notizie.

    Capitolo cinque

    Eve e Jacques stavano prendendo il caffè in ufficio, ritagliandosi un raro momento per stare insieme, e lei aveva bisogno di tutto il caffè possibile. Durante il giorno non si vedevano quasi per niente perché Jacques voleva rendersi utile fuori, specialmente adesso che la riapertura del parco, con la sua nuova, appariscente attrazione, era prevista di lì a meno di dieci settimane. Tutti stavano lavorando a ritmi ridicoli e con orari assurdi per fare in modo che fosse tutto pronto. Era stata una follia cercare di ampliare Santapark e costruire la laguna in una sola stagione, ma ormai non potevano più fermarsi. Eve non voleva neanche pensare a quanto avrebbero

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