Prigioniera del greco: Harmony Collezione
Di Jane Porter
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Info su questo ebook
Quando Georgia irrompe nella sua esistenza, interrompendo l'esilio forzato in cui si è rinchiuso, Nikos è costretto a fare i conti con sentimenti che non provava da tempo e con un'attrazione che forse sarà in grado di sconfiggere tutti i suoi demoni.
Jane Porter
Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.
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Anteprima del libro
Prigioniera del greco - Jane Porter
successivo.
1
Era un freddo pomeriggio di febbraio ad Atlanta, ma lo studio legale Lyles, Laurent & Abraham all'interno del One Atlantic Center su West Peachtree Street era anche più gelido.
L'illustre avvocato James Laurent giocherellava con gli occhiali, l'espressione contrariata. «Ha firmato il contratto, signorina Nielsen. È vincolante in qualunque nazione...»
«Non ho problemi con il contratto» intervenne Georgia, più infastidita che intimidita dal gelido disprezzo dell'avvocato. Aveva accettato di fungere da madre surrogata e prendeva quel lavoro seriamente. «Il bambino è suo. Ma il contratto non definisce dove io devo partorire, né mi è stato comunicato in anticipo che avrei dovuto farlo oltreoceano. Non avrei accettato di fare da madre surrogata per il signor Panos in quel caso.»
«Signorina Nielsen, la Grecia non è un paese del terzo mondo. Ad Atene riceverà ottime cure mediche prima, durante e dopo il parto.»
Georgia lo scrutò a lungo, le mani rilassate sui braccioli della poltrona di pelle, cercando di controllare la rabbia. «Sono una studentessa di medicina di Emory. Non sono preoccupata per le cure mediche, ma la sua aria di superiorità mi disturba. Se è stato fatto un errore, lo ha commesso il suo cliente... o lei. In fondo è lei ad aver redatto i documenti. Sa cosa copriva l'accordo. E non mi impone di prendere un aereo e volare per 5666 miglia per partorire.»
«È una questione di cittadinanza, signorina Nielsen. Il bambino deve nascere in Grecia.»
Georgia Nielsen lanciò un'occhiata alle spalle dell'avvocato, all'enorme cartina che era stata incorniciata e appesa alla parete dell'ufficio. Era una vecchia mappa, un oggetto da collezione, e dai confini e le etichette ipotizzò che risalisse alla fine del XIX secolo, quando l'Africa era divisa da rivendicazioni coloniali europee. Ma pur vecchia e ingiallita, la Grecia era identificabile proprio là dove si trovava da migliaia di anni, dando i natali alla civiltà occidentale.
Là dove lei avrebbe dovuto partorire.
Se Georgia fosse stata di umore migliore, l'avrebbe forse trovato ironico, magari divertente. Ma era furiosa e frustrata. Fin dall'inizio si era presa cura di sé, aveva posto grande attenzione alla propria salute e al benessere del bambino. Il suo compito di madre surrogata era partorire un bambino sano, e stava facendo la sua parte: mangiava bene, dormiva quanto possibile, faceva esercizio e manteneva lo stress al minimo. Ma andare in Grecia? E andarci con tanto anticipo? Questo non era nei programmi.
«Il viaggio lo stanno già organizzando mentre parliamo» aggiunse l'avvocato Laurent. «Il signor Panos invierà il suo jet personale per lei. Come può immaginare, il jet è piuttosto lussuoso. Potrà riposare bene, e prima di rendersene conto sarà già arrivata...»
«Non è ancora scaduto il sesto mese. Fare progetti di viaggio è prematuro.»
«Il signor Panos preferirebbe non causare uno stress inutile a lei o al bambino. Gli specialisti non consigliano di viaggiare dal settimo mese in poi.»
«Sì, per le gravidanze a rischio, ma questa non lo è.»
«È una fecondazione in vitro.»
«Non ci sono state complicazioni.»
«E il mio cliente preferisce che continui così.»
Georgia si morse la lingua per non dire qualcosa di cui pentirsi. Capiva che la preoccupazione di Nikos Panos era per il bambino, suo figlio. Capiva anche che i suoi desideri e bisogni non trovavano spazio. Lei era un contenitore... un utero... niente di più. Ma questo non significava che desiderasse lasciare Atlanta o il mondo che conosceva. Andare dall'altra parte del globo sarebbe stato fonte di stress. Lasciare la propria città e le proprie abitudini sarebbe stato difficile, soprattutto nell'ultima fase della gravidanza. Anche se era un lavoro, un modo per provvedere alla sorella, era difficile non provare qualcosa per la vita che portava in grembo, e quelle emozioni stavano diventando più forti. Gli ormoni erano già instabili: poteva solo immaginare come si sarebbe sentita di lì a tre mesi e mezzo. Ma la maternità non era il suo futuro. Il suo futuro era la medicina e la strada era decisa.
«Come posso convincerla a prendere quell'aereo venerdì?»
Ridicolo. Non c'era modo che potesse partire tanto presto.
«Ho lezione. Devo studiare.»
«Ha appena finito la fase preclinica. Sta studiando per l'esame di abilitazione e può studiare tanto in Grecia quanto in Georgia.»
«Non lascerò mia sorella per tre mesi e mezzo.»
«Ha ventun anni e vive in North Carolina.»
«Sì, frequenta l'ultimo anno alla Duke University, ma dipende economicamente ed emotivamente da me. Sono l'unica parente in vita.» Georgia lo guardò negli occhi. «Sono tutto quello che le è rimasto.»
«E il bambino che aspetta?»
«Non è mio.» Serrò le labbra. «Il suo cliente ha pagato per l'ovulo e la maternità surrogata, quindi se il signor Panos vuole essere presente alla nascita di suo figlio, può venire ad Atlanta. Altrimenti l'infermiera del piccolo gli porterà il neonato. Secondo gli accordi.»
«Il signor Panos non può volare.»
Georgia sollevò il mento: non avrebbe discusso. Un contratto era un contratto. «Questo non mi riguarda. Il suo cliente non è un mio problema. Io sono stata pagata per non interessarmi di problematiche di poco conto e intendo mantenere l'impegno.»
L'avvocato chiuse gli occhi e si strofinò le folte sopracciglia grigie, spostando gli occhiali dal naso. Per un attimo l'unico rumore nella stanza fu l'antico orologio del nonno che ticchettava alla parete.
L'avvocato Laurent aprì gli occhi e la fissò. «Quanto vuole per salire su quell'aereo venerdì? E prima di replicare che non ascolto, mi lasci dire che tutti hanno un prezzo. Anche lei. Per questo ha accettato di donare l'ovulo e portare l'embrione fecondato. Il compenso le andava bene. Quindi non discutiamo dei termini. Mi dica cosa le serve per salire su quell'aereo e io farò versare il denaro sul suo conto domattina stessa.»
Georgia fissò l'uomo, l'espressione serena nonostante l'ansia. Sì, il denaro serviva, ma lei non voleva altro denaro. Voleva solo finire quello che aveva iniziato. Era stato un errore accettare, ma era troppo tardi per tornare indietro. O per cambiare idea. I contratti erano vincolanti. Il bambino non era suo. Lo portava in grembo, e ogni calcio le stringeva il cuore, ma il piccolo era di Nikos Panos, e lei non poteva dimenticarlo.
Questo significava che doveva andare avanti. Era l'unica possibilità. E al momento del parto, quando il bambino le sarebbe stato sottratto, avrebbe messo una croce su quell'anno. Era l'unico modo per sopravvivere a una situazione simile. Era allenata alle circostanze difficili. Il dolore è un buon maestro.
«Si esprima» insistette l'avvocato.
«Non si tratta di denaro...»
«Ma pagherà i conti. Pensi a sua sorella. So che anche lei desidera frequentare medicina. Approfitti dell'offerta.»
Quell'ultima frase andò a segno. Georgia lo guardò negli occhi, affondandosi le unghie nei palmi.
Laurent aveva ragione. E in fondo non avrebbe abbandonato un bambino a un mostro. Nikos Panos lo desiderava disperatamente.
Inspirando in fretta Georgia chiese una cifra incredibile, una somma che avrebbe coperto l'università di Savannah e il loro mantenimento, e altro ancora. Georgia alzò volontariamente la cifra per colpire il vecchio avvocato.
Laurent però non batté ciglio. Invece scarabocchiò qualcosa su un foglio di carta stampato. «L'addendum» disse, allungandole il foglio. «Data e firma, prego.»
Lei deglutì, sorpresa che lui avesse accettato subito la sua richiesta assurda. Doveva essere preparato a una richiesta anche più alta. Probabilmente avrebbe potuto chiedere dei milioni e le avrebbe risposto di sì. Stupido orgoglio. Perché non riusciva a essere una vera mercenaria?
«Lei sta accettando di partire venerdì» disse l'avvocato Laurent quando Georgia si allungò verso il foglio. «Passerà l'ultimo trimestre della gravidanza in Grecia, nella villa di Nikos Panos a Kamari, che si trova a poca distanza da Atene. Dopo il parto, non appena potrà viaggiare, il mio cliente la rimanderà ad Atlanta, con il suo jet privato o in prima classe con una compagnia di sua scelta. Domande?»
«Il denaro? Sarà versato sul mio conto domani mattina?»
Le porse la penna. «Lo troverà alle nove.» Sorrise mentre lei firmava.
«Sono felice che ci siamo accordati.»
Georgia si alzò, triste ma ormai in trappola. «Come ha detto lei, tutti hanno un prezzo. Addio, avvocato Laurent.»
«Si diverta in Grecia, signorina Nielsen.»
2
Da Atlanta era un lungo viaggio. Quasi tredici ore, che diedero a Georgia molto tempo per dormire, studiare e anche guardare un film o due quando era troppo stanca per leggere un'altra domanda del test.
I film la aiutarono a tenere la mente occupata. Se non dormiva, doveva distrarsi per evitare di ripensare a Savannah, che era venuta in auto da Duke per salutarla.
O più esattamente, per pregare Georgia di non partire.
Fuori di sé, la sorella aveva alternato lacrime e rabbia, domandando più volte cosa Georgia sapesse di quel magnate greco.
Cosa sai di lui? Solo che è un ultra milionario? Potrebbe essere pericoloso, seriamente folle, e chi potrà aiutarti quando sarai su quell'isola in mezzo al nulla?
Savannah non era mai stata una persona pratica, ma in questo caso aveva ragione.
Georgia aveva fatto ricerche su Nikos Panos, un ultra milionario greco che aveva rivoluzionato la società di famiglia con abili investimenti, prendendo il controllo degli affari già a venticinque anni, ma lei non aveva alcuna notizia diretta su di lui. Non sapeva niente sulla sua etica e sul carattere. Aveva solo l'avvocato e i pagamenti per il servizio.
Si accarezzò lo stomaco. La pancia cominciava a vedersi: la pelle era sensibile, e calda, e anche se non voleva pensare alla gravidanza o alla maternità surrogata, sentiva quella vita dentro di sé.
E non una vita indefinita, ma un bambino. Non c'erano stati maschi nella sua famiglia. Solo bambine. Tre sorelle. Georgia non riusciva neanche a immaginare cosa significasse crescere un ragazzino.
Basta, non voleva pensarci. Non si sarebbe fatta coinvolgere.
Mentre il jet si preparava ad abbassarsi verso un mare azzurro infinito, il bambino scalciò come se sapesse di essere quasi a casa. Georgia trattenne il fiato, lottando contro il panico.
Poteva farcela. Ce l'avrebbe fatta.
Il bambino non era suo.
Non era affezionata.
Non le sarebbe importato.
«Solo tre mesi e mezzo» sussurrò. Tre mesi e mezzo e si sarebbe liberata di questa orribile cosa che aveva accettato di fare.
Tre mesi e mezzo, si disse Nikos Panos, in piedi alla fine della pista di atterraggio, lo sguardo socchiuso fisso sul jet bianco. Il vento aveva reso difficile l'atterraggio, fatto non insolito in quel periodo dell'anno nelle Cicladi. Ora però il jet era parcheggiato e il portellone si era aperto, lasciando uscire la ventiquattrenne Georgia Nielsen.
Da dove si trovava gli sembrava molto snella e molto bionda, in una tunica albicocca a maglia morbida, collant grigio scuro e stivali con tacco alto. Si accigliò per l'altezza dei tacchi: una donna incinta non avrebbe dovuto indossare un tacco dodici. Gli stivali erano un problema, e anche il vestito. L'orlo arrivava appena a metà coscia, rivelando così buona parte della gamba.
Nikos