Il passato che ritorna: eLit
Di Kate Hewitt
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Info su questo ebook
Allegra Avesti non avrebbe mai immaginato che Stefano Capozzi, il suo fidanzato, la vedesse solo come un impegno fra i tanti della sua agenda. Così, scoperta la triste verità, decide di fuggire e dimenticarlo per sempre. Anni dopo, le strade di Stefano e Allegra si incrociano di nuovo, per uno strano scherzo del destino, e Stefano non è tipo da dimenticare un torto subito. Lui la rivuole, anche se questo significa dover fare i conti con il proprio passato.
Kate Hewitt
Tra le autrici più amate e lette dal pubblico italiano.
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Anteprima del libro
Il passato che ritorna - Kate Hewitt
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
The Italian’s Bought Bride
Harlequin Mills & Boon Modern Romance
© 2008 Kate Hewitt
Traduzione di Velia De Magistris
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
© 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5893-717-4
www.harlequinmondadori.it
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1
Stefano Capozzi, gli occhi che scintillavano su un viso dai lineamenti così duri da sembrare intagliati nel marmo, era seduto nello studio di uno dei più famosi psichiatri di Milano.
«Sono passati otto mesi» precisò, anche se Renaldo Speri doveva aver già letto quel dettaglio sulla cartella clinica. «Otto mesi di ogni trattamento immaginabile, e nessun cambiamento.»
«Lei non poteva sperare in un miracolo, signor Capozzi» replicò il medico, accompagnando le sue parole con un sorriso di comprensione. «Anzi, probabilmente non potrà nemmeno sperare in una cura.»
Stefano scosse la testa. «Io non mi arrendo.» Non avrebbe accettato scuse o rifiuti. Era andato a Milano per trovare un terapeuta in grado di guarire quel bambino che gli stava tanto a cuore, e non si sarebbe arreso così facilmente.
Il dottor Speri si passò una mano fra i capelli radi. «Signor Capozzi, lei deve prendere in considerazione la possibilità che il caso di Lucio ricada nella casistica dei disturbi permanenti dello sviluppo...»
«No!» lo interruppe Stefano con foga. Non era pronto ad accettare una diagnosi simile, nemmeno dopo gli otto mesi che Lucio aveva trascorso in un silenzio assoluto. «Lucio era assolutamente normale prima della morte del padre» ragionò. «Era come tutti i suoi coetanei...»
«L’autismo spesso non si manifesta prima dei tre anni di età» spiegò Speri con gentilezza.
«Lucio aveva appena iniziato a parlare fluentemente, ma nei mesi seguiti alla tragedia ha smesso completamente, e lei sta cercando di dirmi che i due eventi non sono correlati?» domandò Stefano, un sopracciglio inarcato in un’espressione scettica.
«Io sto cercando di dirle che esiste anche la reale possibilità di una patologia irreversibile» replicò il medico, la voce ora vibrante di impazienza. «Per quanto difficile possa essere accettarla.»
«Non c’è una cura per l’autismo» sentenziò Stefano dopo qualche istante di silenzio. Aveva condotto le sue ricerche, letto libri e statistiche sull’argomento.
«Ma ci sono terapie capaci di alleviare alcuni sintomi» precisò Speri. «I risultati però dipendono dal grado di gravità della malattia.»
«Non c’è nessuna malattia.»
«Signor Capozzi...»
«Io non mi arrendo» ripeté Stefano, lo sguardo fisso in quello dell’altro uomo.
«Signor Capozzi» riprese lo psichiatra, alzando le mani in un gesto di resa, «abbiamo provato di tutto, terapie ed esperti di elaborazione del lutto, ma, come lei mi ha appena ricordato, non ci sono stati cambiamenti. Anzi, addirittura sembrerebbe che Lucio sia sprofondato ulteriormente nel suo mondo fatto di silenzio. Se si trattasse di un normale caso di sofferenza...»
«Che cos’è, secondo lei, una normale sofferenza?» lo interruppe Stefano, il tono glaciale.
«Un processo che si affronta e si risolve. Significa accettare ed elaborare il lutto. Ma il comportamento di Lucio non ha nulla di normale, e ormai avrebbero dovuto esserci dei segni di miglioramento. Purtroppo, non ce ne sono stati.»
Stefano strinse le mani a pugno. «Questo lo so bene.»
«Allora accetti la gravità della malattia del piccolo, e scelga i trattamenti più efficaci nel suo caso.»
Lentamente, Stefano riaprì la mano e l’appoggiò sulla scrivania. Quando la madre di Lucio, Bianca, gli aveva chiesto di recarsi a Milano per spiegare a quei medici che il bambino non era autistico, lui lo aveva fatto. Aveva creduto alle parole di Bianca, ma adesso cominciava a nutrire qualche dubbio.
Avrebbe fatto tutto per Bianca, tutto per Lucio. Doveva tutto a quella famiglia, una famiglia che, tanti anni prima, lo aveva sottratto dall’ambiente in cui era cresciuto, e gli aveva fornito i mezzi per diventare l’uomo che era oggi.
Non lo avrebbe mai dimenticato.
«Deve esserci qualcosa da provare prima di accettare la diagnosi» insistette.
«Gli psichiatri che hanno esaminato il caso sono molto competenti e scrupolosi. Non sarebbero giunti a una conclusione del genere se non ne fossero stati certi.»
«D’accordo» concesse Stefano. «Ma... C’è o no un altro tentativo da fare?»
Speri esitò per un lungo istante. «In realtà, sì» ammise infine. «Una psicoterapeuta ha risolto il caso di un bambino autistico. In realtà, la diagnosi era sbagliata. Il piccolo aveva subito un severo trauma del quale i medici non erano a conoscenza. La terapeuta ha scoperto il problema, è intervenuta e il bambino ha ripreso a parlare.»
«E Lucio non potrebbe essere un caso simile?» domandò Stefano, intravedendo finalmente un barlume di speranza.
«Non voglio che lei si faccia false illusioni» precisò Speri. «Quel caso era un’anomalia, un’eccezione...»
«Chi è la terapeuta?» tagliò corto Stefano. Non gli interessavano le eccezioni. Gli interessavano le possibilità.
«Una giovane donna che si è specializzata in art therapy. Spesso le attività creative aiutano i bambini a liberarsi di ricordi ed emozioni represse, e questo è quello che è successo al soggetto di cui le ho parlato. Comunque, i sintomi che manifesta Lucio sono ben più gravi...»
«Art therapy» ripeté Stefano. Non gli piaceva il suono di quella parola. Era troppo... astratto. «Può spiegarsi meglio?»
«La terapeuta usa le arti creative per fornire al bambino un modo di esprimere emozioni. A volte questa è la chiave che riesce a sbloccare una mente apparentemente sorda a qualsiasi richiamo.»
Sbloccare. Quello sì che era un termine idoneo, decise Stefano mentre pensava al visetto pallido di Lucio e ai suoi grandi occhi. E al suo ostinato silenzio che durava ormai da quasi un anno. «Va bene, proveremo anche questo. Voglio assumere questa terapeuta.»
«Le statistiche non riportano altri casi del genere» lo ammonì Speri.
«Voglio assumere questa terapeuta» ribadì Stefano.
«Vive a Londra. Ho letto un articolo sul caso che lei ha trattato in una rivista medica, abbiamo avuto una breve corrispondenza, ma non...»
«È inglese?» lo interruppe ancora una volta Stefano, il tono deluso. A cosa poteva servire a Lucio una terapeuta inglese?
«No» lo rassicurò Speri. «È italiana, anche se mi risulta che abiti all’estero ormai da anni.»
«Allora il suo esilio è terminato» dichiarò Stefano. «Per quanto tempo ha lavorato con l’altro bambino?»
«Per qualche mese...»
«Allora voglio che venga subito in Abruzzo.»
«Signor Capozzi, sicuramente la signora avrà delle responsabilità, degli altri pazienti che non può abbandonare così, di punto in bianco.»
«Può farlo, invece.»
«Non è così facile.»
«Sì, lo è» lo contraddisse Stefano. «Lucio non può lasciare la sua casa, sarebbe un nuovo trauma per lui. Dunque, la terapeuta lo raggiungerà in Abruzzo.»
«Naturalmente spetterà a lei condurre le trattative, ma posso anticiparle che, pur non dando alcuna garanzia, terapie del genere hanno costi elevati.»
«Il denaro non è un problema» tagliò corto Stefano.
«Ovviamente» confermò Speri. Sapeva chi era Stefano Capozzi. Fondatore della Capozzi Electronica. Aveva acquistato dozzine di industrie elettroniche italiane. Non aveva rivali nel suo campo. «Le darò tutte le informazioni in mio possesso» si arrese. «Voglio precisare però che è molto giovane, praticamente senza esperienza poiché ha terminato da poco gli studi.»
«Ma il bambino è guarito, giusto? Ha ripreso a parlare?»
Speri annuì. «Sì, ma non è così semplice, signor Capozzi. Il caso di Lucio potrebbe essere molto diverso, Lucio stesso potrebbe essere diverso dal bambino seguito dalla...»
«Le informazioni, per favore» intervenne Stefano, tendendo una mano.
«Solo un momento.» Speri prese una cartella da un cassetto e l’aprì. «Ah, ecco l’articolo» disse, porgendogli una rivista medica. «Bella foto, non crede? Si chiama Allegra Avesti e...»
Ma Stefano non lo stava più ascoltando. Non era necessario. Conosceva il nome della donna. Conosceva la donna.
Allegra Avesti, la donna che avrebbe dovuto diventare sua moglie.
Allegra Avesti, art therapist, con un paziente, recitava la didascalia che accompagnava la fotografia. Tanti ricordi riaffiorarono in superficie, ma lui li ignorò, costringendosi a focalizzare la sua attenzione sul ritratto. Allegra era più magra di come la rammentasse. Gli occhi nocciola sorridevano mentre guardava il bambino che, al suo fianco, era intento a lavorare la creta con le piccole mani.
La testa era china da un lato, i capelli, mille sfumature di sole, raccolti in un nodo dal quale sfuggiva qualche ciocca per incorniciarle il volto. Un volto radioso, l’espressione quella di speranza. Sorrideva. Due graziose fossette si aprivano ai lati della bocca. Lui non le aveva mai notate. Aveva mai sorriso così quando erano insieme?
Forse no.
Fissò l’immagine, il fantasma di una ragazza che un tempo aveva conosciuto, il ritratto di una donna che non aveva mai incontrato.
Allegra.
La sua Allegra... Ma non era mai stata sua davvero, lo aveva capito quando era andata via. Per sempre.
Chiuse la rivista e la restituì al medico. «Una bella foto» confermò, la voce priva di intonazione. Ed era sincero. Il viso gioioso di lei sarebbe stato un’ispirazione per tanti genitori che, oppressi dalle loro paure, cercavano una risposta per i loro figli. «La contatterò.»
«D’accordo» replicò Speri. «E, se per qualche motivo non fosse disponibile, potremo discutere di altre alternative.»
Stefano annuì quasi bruscamente. Sapeva che Allegra sarebbe stata disponibile, avrebbe provveduto lui affinché lo fosse. Se era la migliore del campo, se aveva guarito un bambino con le stesse difficoltà di Lucio, l’avrebbe assunta.
Anche se si trattava di Allegra.
Specialmente perché si trattava di Allegra.
Il passato non aveva nessuna importanza se in gioco c’era la felicità di Lucio. Anzi, il passato non aveva nessuna importanza, punto.
Allegra Avesti guardò la sua immagine riflessa nel grande specchio del bagno per le signore del Dorchester Hotel e scosse la testa. I capelli dovevano essere legati in uno chignon dall’eleganza priva di pretese, ma sembrava che fosse riuscita a realizzare solo l’ultima parte del progetto. Almeno il vestito era a posto, decise soddisfatta. Di seta grigio fumo, sostenuto da due invisibili spalline, ma dallo scollo morigerato, era raffinato e seducente pur senza essere troppo sfacciato.
Le era costato una piccola fortuna che proprio non avrebbe potuto permettersi di spendere considerato quanto guadagnava con le sue terapie. Tuttavia aveva desiderato apparire al meglio per il matrimonio di sua cugina Daphne. Aveva desiderato sentirsi bene, un’impresa irrealizzabile, perché non stava più bene da quando, quella notte, era fuggita voltando le spalle al suo matrimonio prima ancora che si celebrasse.
Con un sospiro, prese dalla piccola borsa l’astuccio del rossetto. Non pensava mai a quella notte, aveva scelto di non ricordare il dolore dato dai sogni infranti, dal tradimento, dalla paura. Tuttavia intervenire al ricevimento di sua cugina l’aveva costretta a rammentare il suo quasi-matrimonio, ed