Il primo amore non si scorda mai
Di Tina Beckett
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la prima volta
il primo amore
la prima volta che le hanno spezzato il cuore.
O, nel caso di Jessi Riley, tutte e tre le cose combinate nello sguardo magnetico del dottor Clinton Marks.
Jessi non poteva immaginare che l'unico uomo in grado di aiutare sua figlia a superare un momento difficile fosse anche quello che anni prima ha distrutto la sua vita. Spesso il destino sceglie vie tortuose e incomprensibili per raggiungere il cuore delle persone. Ma, quando arriva il momento giusto, bisogna saper cogliere l'occasione al volo e trasformare un poteva essere in un per sempre.
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Il primo amore non si scorda mai - Tina Beckett
ragazza.
1
«Il nuovo dottore di Chelsea è arrivato oggi.» Le parole dell'infermiera la indussero a fermarsi.
Jessica Marie Riley batté le palpebre e tornò indietro allo sportello principale dell'Ospedale per i Reduci di Guerra di Richmond, dove la figlia di ventun anni aveva trascorso gli ultimi due mesi della sua vita, un fragile guscio del forte soldato di cui era stata orgogliosa mentre era al campo di addestramento dell'esercito.
Erano sempre state soltanto lei e Chelsea contro tutto il mondo. Si erano supportate a vicenda, avevano riso insieme, si erano dette tutto.
Finché non era tornata dalla sua prima missione come ex prigioniero di guerra... e una persona diversa.
«Davvero?» Jessi sentì contorcersi lo stomaco. L'ultimo dottore della figlia se n'era andato in maniera inaspettata e le avevano detto che c'era la possibilità che l'avrebbero affidata ad altri psichiatri militari finché non avessero trovato un sostituto.
Maria, l'infermiera che aveva fatto ricoverare Chelsea e aveva mostrato una grande compassione per entrambe, esitò. Sapeva quanto tutto questo la facesse soffrire.
«Il dottor Cordoba ha avuto dei problemi familiari e ha rinunciato all'incarico. Non è stata colpa sua.»
Jessi sapeva per esperienza quanto potessero essere devastanti alcuni problemi familiari. Ma con l'uragano che si era abbattuto sulla costa, i suoi turni di lavoro allo Scott's Memorial erano stati massacranti. La penuria di medici del Pronto Soccorso non era mai stata più evidente, e aveva portato lo staff medico sull'orlo del collasso. L'aveva anche portata a essere meno paziente.
E ora sua figlia aveva perso l'unico dottore con cui sembrava avesse legato durante la sua permanenza in ospedale.
Jess aveva sperato che alla fine avrebbero capito perché Chelsea era caduta nella spirale della disperazione dopo essere tornata a casa e che avrebbero trovato un modo per farla rappacificare con quello che era successo in quel campo di prigionia.
Quella debole speranza adesso si era affievolita ancora di più. Sentì montare la rabbia dentro di sé al pensiero di come fosse facile per le persone come il dottor Cordoba lasciare i pazienti che contavano su di lui.
Non è giusto, Jess. Dovresti prima metterti nei suoi panni.
Ma neanche il dottore si era messo nei suoi. Non era stato lì quel terribile giorno quando la figlia aveva tentato di togliersi la vita.
Non riusciva a immaginare quanto fosse faticoso occuparsi ogni giorno di pazienti che mostravano sintomi di disturbo post traumatico da stress, ma anche Jessi aveva avuto a che fare con alcuni casi difficili. Nessuno l'aveva mai vista gettare la spugna per andarsi a occupare di un caso più facile.
Maria venne dall'altra parte del bancone e le toccò un braccio. «Il suo nuovo dottore è uno dei migliori nel suo campo. Ha dedicato la vita a curare pazienti come tua figlia, infatti si è trasferito dalla California proprio per occuparsi dei pazienti del dottor Cordoba con disturbo post traumatico da stress. Almeno finché non arriva un sostituto definitivo. È già andato a visitare Chelsea e ha visto la sua cartella.»
Il migliore nel suo campo. Era meraviglioso. Ma se era un incarico solo temporaneo...
«Cosa ne pensa?»
Questa volta l'infermiera non incontrò il suo sguardo. «Non ne sono sicura. Mi ha chiesto di farti andare nel suo ufficio appena fossi arrivata. Si trova in fondo al corridoio, la prima porta a sinistra.»
Il vecchio ufficio del dottor Cordoba.
Jessi sentiva crescere la rabbia dentro di sé, nonostante le parole di incoraggiamento di Maria. Quello era il terzo dottore di Chelsea. Ciò voleva dire che ce n'era stato più di uno nuovo al mese. Quanto aveva intenzione di rimanere quest'ultimo?
Le venne in mente un pensiero improvviso a cui diede voce. «Come ha fatto l'ospedale a trovare questo medico così in fretta?»
«Il dottore fa proprio questo. Gira i vari ospedale militari, sostituendo dove è necessario...» Provennero delle grida dal fondo del corridoio che interruppero la spiegazione di Maria. Una donna si stava dirigendo verso di loro, spingendo una sedia a rotelle, mentre l'anziano seduto sbraitava qualcosa di incomprensibile e agitava il pugno in aria.
«Scusami» disse l'infermiera, affrettandosi verso le due donne. «Il dottore di Chelsea è nel suo ufficio. Ti sta aspettando. Puoi entrare.» La sua attenzione si spostò nuovamente verso l'agitato paziente. «Signor Ballenger, si calmi per favore, cosa c'è che non va?»
Non volendo restare lì a guardare come un allocco, Jessi raddrizzò le spalle e si diresse dove le aveva indicato Maria.
La prima porta a sinistra.
Tutto quello che avrebbe voluto era evitare i convenevoli e andare subito nella stanza di Chelsea. Ma era evidente che non sarebbe andata così. Prima doveva incontrare il nuovo medico che si sarebbe occupato di lei.
Sentirsi impotente e incapace di mantenere il controllo stava rapidamente diventando la norma per Jessi. E non le piaceva. Per niente.
Si fermò davanti alla porta e fissò la targhetta. Il nome del dottor Cordoba era ancora in bella vista nella piccola cornice dorata. Il nuovo dottore era davvero nuovo.
Dannazione, aveva dimenticato di chiedere il nome all'infermiera. Non aveva molta importanza. Si sarebbe presentato da solo. Anche lei avrebbe fatto lo stesso e lui le avrebbe chiesto come stava. Era quello che chiedevano ogni volta.
Doveva dire la verità? Oppure doveva annuire e rispondere: «Bene», come aveva fatto tutte le altre volte in cui qualcun altro glielo aveva chiesto?
Alzò la mano e bussò alla porta di legno.
«Prego.» La voce mascolina che veniva dall'interno della stanza era bassa e burbera.
Sentì un formicolio alla nuca, sensazione che si propagò alle spalle e poi alle braccia, facendo sollevare ogni pelo lungo il suo cammino. Se avesse dovuto scegliere un aggettivo da associare a quella voce avrebbe detto impaziente. O sexy. Due parole che di solito non si attribuivano a uno psichiatra dell'esercito. O a qualunque psichiatra. E di certo non a uno incaricato di prendersi cura di tua figlia.
Probabilmente è grasso e calvo, Jess.
Confortata da quel pensiero, abbassò la maniglia e aprì la porta.
Non era grasso. Né calvo.
Era girato dall'altra parte, perciò non riusciva a vedere la maggior parte del suo viso, ma l'uomo seduto dietro la scrivania aveva capelli neri e folti, nonostante fossero corti ai lati secondo l'usanza militare. Jessi notò alcuni ciuffi grigi sulle tempie.
Sembrava concentrato a studiare qualcosa sullo schermo del computer. Qualcosa del suo profilo la colpì, come aveva fatto la sua voce. Jessi cercò di scrollarsi di dosso quella sensazione, massaggiandosi le braccia mentre stava lì in piedi.
Il nuovo dottore doveva andare per i quaranta, a giudicare dalle linee attorno agli occhi che riusciva chiaramente a distinguere e che gli conferivano un carisma naturale.
Qualcosa nella sua testa si accese di nuovo come se un'immagine indistinta stesse cercando di imprimersi nella sua mente.
«Prego, siediti» la invitò lui. «Dammi solo un minuto.»
Jessi deglutì, e tutti i pensieri sui nuovi dottori e gli uomini calvi scomparvero mentre una forte preoccupazione la prendeva allo stomaco. C'era qualche problema con Chelsea? Cercò di aprire la bocca per chiederglielo, ma le parole le rimasero bloccate in gola. Forse era per questo che Maria non aveva incontrato il suo sguardo. Chelsea aveva forse cercato di suicidarsi di nuovo? Di certo l'infermiera le avrebbe accennato qualcosa se fosse andata così.
Tirando un po' indietro una delle due sedie, lei si sedette, facendo vagare lo sguardo per la stanza, in cerca di qualcosa che potesse calmarle i nervi.
Il suo sguardo si posò sulla targhetta posta sopra la scrivania del dottore. Non quella del dottor Cordoba. Invece...
Jessi si raggelò. Batté in fretta le palpebre per vedere in maniera più chiara e si concentrò di nuovo sulle lettere, singolarmente, sperando che una a si trasformasse in qualche modo in una e.
Poi, il suo sguardo tornò al volto del dottore. Questa volta lo riconobbe.
Avrebbe dovuto capire che quel formicolio non era stato un caso, quando aveva sentito la sua voce. Ma non si sarebbe mai sognata che...
Immagini di baci bollenti e momenti rubati sull'erba nella piccola baia vicino alla scuola le ritornarono in mente.
Santo cielo, Clinton Marks! Un fantasma dal passato... un rito di passaggio. Ecco tutto quello che era stato. Un momento della sua vita. Eppure eccolo lì, seduto di fronte a lei, in carne e ossa.
Ancora peggio, era evidentemente il nuovo dottore di sua figlia. Com'era possibile?
Forse lui non l'avrebbe riconosciuta.
Quando i suoi occhi scuri finalmente si girarono verso di lei, un momentaneo shock attraversò il suo viso, la mascella si irrigidì e le labbra si strinsero. Poi, il familiare sorriso beffardo apparve di nuovo sul suo volto, e il suo sguardo si soffermò sull'anulare della donna privo di anello.
«Avrei dovuto riconoscere il suo cognome» disse lui. «Io e Larry. Testa a testa... Siete ancora sposati?»
Jessi deglutì. «Sono vedova.»
Larry era morto in un incidente stradale alcuni mesi dopo il loro matrimonio. Subito dopo avere scoperto da un amico in comune che lei era stata vista ritornare nell'auditorium con Clint la notte del diploma. Lui le aveva posto una domanda cui si era rifiutata di rispondere, e allora era subito uscito nella notte, per non fare più ritorno a casa.
«Mi dispiace.»
Gli dispiaceva davvero? Non era in grado di affermarlo con certezza guardandolo negli occhi. Il Clinton Marks di ventidue anni prima aveva indossato la stessa maschera durante tutti gli anni delle scuole superiori, senza lasciare che nessun genere di emozione trapelasse. L'orecchino non c'era più e il tatuaggio era nascosto sotto le maniche lunghe della camicia, ma proiettava lo stesso una sorta di divertimento disincantato. Una volta aveva visto una crepa in quella maschera. E quel ricordo la fece rimanere incollata alla sedia, invece di farla alzare come una furia per chiedere che il giovinastro che aveva dormito con lei e poi se n'era andato senza dire una parola venisse rimosso subito dal caso di sua figlia e fosse sostituito da qualcuno cui davvero importasse.
Qualcuno che avesse almeno un briciolo di empatia.
Ma lui l'aveva.
Lei lo aveva visto.
Se n'era accorta.
Aveva sentito le sue dita gentili passare tra i propri capelli, le sue mani prenderle il viso e asciugarle le lacrime.
Fece un respiro profondo, accorgendosi che lui stava aspettando una risposta.
«Grazie. Se n'è andato da tanto tempo.»
E anche tu. Tuttavia, tenne per sé quelle parole.
Lo sguardo di lui ritornò a qualcosa sullo schermo del computer, prima di soffermarsi di nuovo sul viso della donna. «Tua figlia... non c'è nessuna possibilità che...?»
«Scusami?» Con la mente annebbiata cercò di discernere le sue parole, ma non ci riuscì.
«Chelsea... la sua cartella dice