Veleni negati: Il caso Caffaro
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Marino Ruzzenenti
Collabora con la Fondazione «Luigi Micheletti» di Brescia e ha pubblicato diverse opere di storia contemporanea, in particolare su temi ambientali. Nel catalogo Jaca Book troviamo: Un secolo di cloro... E PCB. Storia delle Industrie Caffaro di Brescia (2001); L’Italia sotto i rifiuti (2004, ult. ed. 2008); L’autarchia verde. Un involontario laboratorio della green economy (2011). Ha inoltre curato, con Pier Paolo Poggio, Il caso italiano. Industria, chimica e ambiente (2012) e partecipato al volume postumo di G. Nebbia La terra brucia. Per una critica ecologica del capitalismo (a cura di L. Demichelis, 2020). Infine, ha scritto, con P.P. Poggio, Primavera ecologica «mon amour». Industria e ambiente cinquant’anni dopo (2020), menzione speciale al «Premio Acqui Ambiente 2021».
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Anteprima del libro
Veleni negati - Marino Ruzzenenti
UN CONTADINO E LA FACCIA OSCURA DELLA CHIMICA
«Pierino, vieni a vedere: ci sono dei signori che ti cercano!». Quel richiamo che la sua Franca gli rivolse, la mattina dell’8 settembre 2001, mentre stava nella stalla in fondo all’aia ad accudire la Biondô ormai vicina al parto, avrebbe cambiato per sempre l’esistenza di Pierino. In quella cascina Pierino c’era nato, aveva fin da piccolo imparato dal padre, insieme all’arte antica del coltivare la terra e allevare animali, l’operosità tenace e lo stile frugale, riservato e dignitoso del contadino. Nella sua cascina l’agroindustria dei macchinari mostruosamente imponenti, delle stalle meccanizzate e informatizzate, della chimica a piene mani, non aveva mai attecchito. Con il suo lavoro paziente, scandito dai cicli del sole, sapeva tirar fuori dalla fertilità naturale dei suoli, saggiamente rinnovata dal letame delle sue manze, quel tanto che serviva alla sua famiglia e a un’esistenza che non aveva mai conosciuto le mode, le vacanze sulle spiagge o sulla neve, i lussi. Ma tutto questo non gli era mai mancato, neppure quando la televisione cominciò a portargli in casa immagini di un mondo diverso, fatto di lustrini e mirabolanti fantasmagorie. Un’esistenza d’altri secoli, la sua, incredibilmente conservata in una sorta di nicchia senza tempo, dentro la città che da un secolo si era fatta industriale e quindi postmoderna. Un’esistenza, tuttavia, serena, riempita dalla soddisfazione di veder crescere prima le figlie e poi i nipoti: immensa la sua felicità quando questi ultimi sono arrivati laddove un tempo solo i signori potevano permettersi, all’università, e con ottimi voti, perché l’impegno e il senso del dovere ce l’hanno nel sangue, ereditati dal nonno e l’intelligenza non è una prerogativa dei ricchi.
Dicevamo che Pierino conosceva l’agricoltura tradizionale e quindi alla chimica dei concimi sintetici e degli agrotossici faceva ricorso con parsimonia e con una spontanea diffidenza. Eppure proprio la chimica sarebbe stata all’origine degli sconvolgimenti che da quell’8 settembre 2001 misero sottosopra la sua quotidianità. Un paradosso e un crudele scherzo del destino: del resto l’8 settembre per l’Italia è una data infausta e non poteva che portare male.
I signori erano funzionari dell’ASL e dell’Istituto zooprofilattico di Brescia e chiedevano semplicemente di poter prelevare alcuni bicchierini di latte delle sue mucche, alcune uova di gallina, un mazzetto di fieno del campo, un pollo che poi gli avrebbero restituito. «È un semplice controllo» rassicurarono Pierino, visibilmente preoccupato. Aveva sentito che da un po’ di tempo, esattamente da ferragosto, in città e sui giornali, ma anche alle TV locali, si parlava di inquinamento prodotto da una sostanza tossica della Caffaro, che chiamavano PCB. Che cosa fossero i PCB non aveva la minima idea, però quella storia non lo lasciava tranquillo. Si ricordava troppo bene i tanti episodi di bruciacchiamento improvviso delle sue colture, appena irrigate con un’acqua le cui esalazioni irritavano la gola e che a volte si colorava in modo strano. Aveva anche sporto denuncia ai carabinieri, era intervenuta l’Autorità sanitaria dell’epoca, lo avevano chiamato alla Caffaro per discuterne, ma alla fine non si era concluso un bel niente: la sua roggia, che riceveva lo scarico della Caffaro, lassù verso la città, in via Morosini, ogni tanto gli giocava dei brutti scherzi: le sue acque, invece di rinvigorire il mais, lo ammosciavano d’un colpo, come se da un mese non venisse irrigato. Ora se con questi PCB c’è di mezzo la Caffaro, vuoi vedere che sono ancora guai, pensava Pierino.
E infatti di lì a pochi giorni tornano i signori dell’ASL, facce scure di prammatica, per annunciargli che ben presto sarebbero venuti ad abbattergli tutti i capi di bestiame, mucche, manzi, vitelli, maiale, galline, conigli… Gli spiegarono che, in seguito alla grave e accidentale contaminazione da PCB in una partita di polli in Belgio, l’Istituto superiore di sanità, nel 1999, aveva elaborato una particolare metodologia, basata sulla ricerca di solo 7 dei 209 diversi tipi di PCB, che permetteva con analisi rapide di valutare sia la contaminazione degli alimenti da PCB, sia quella, a essa correlata, da diossine. E la nostra massima autorità sanitaria indicava il limite in 100 nanogrammi per grammo di grasso. Ebbene, nel latte del nostro Pierino di PCB ne avevano trovati per oltre 500 nanogrammi per grammo di grasso, nel fieno circa 700, nelle uova oltre 12.700 e nel pollo addirittura quasi 24.000, livelli molto più elevati che nei polli del Belgio. Una catastrofe per il nostro Pierino. Perché di lì a poco iniziò un susseguirsi di notizie infauste, come una valanga che scendendo verso il piano si ingrossa a dismisura e tutto travolge. Dai carotaggi dei suoi curatissimi terreni risultò una contaminazione da mercurio, PCB e diossine, anche in profondità, da superare per importanza il disastro di Seveso: non si poteva coltivare assolutamente nulla su quella terra, fu la sentenza definitiva e irrevocabile. Gli fecero prelievi del sangue a lui e ai suoi parenti stretti per certificare che avevano valori stratosferici di PCB. Quanto fossero elevate le concentrazioni di PCB nel suo sangue e in quello dei familiari in verità lo capì col tempo. All’inizio la stessa ASL di Brescia, molto parca di informazioni nei confronti dei cittadini coinvolti nel disastro ambientale, non sapeva raccapezzarsi, azzardò come valore normale 15 nanogrammi per millilitro di sangue; ma poi si scoprì che la «Società italiana dei valori di riferimento» dava un campo di variabilità per i PCB ben più basso, da 1 a 7,4 nanogrammi. E, allora, Pierino comprese da solo, guardando i certificati di analisi che gli aveva recapitato l’ASL, che di PCB ne aveva fin sopra i capelli, ben 296 nanogrammi e la sua anziana madre addirittura 474, un record assoluto. Ma ciò che più lo addolorò fu constatare che perfino il suo nipotino di 7 anni, che era nato e cresciuto lontano dalla sua disgraziata cascina, al di là del fiume Mella e dunque al riparo dall’inquinamento disperso dallo scarico della Caffaro, aveva ben 80 nanogrammi di PCB, un’enormità per un bambino. La genuinità del latte, delle uova, dei polli da lui prodotti con tanta cura gli aveva giocato uno scherzo davvero atroce: quando sua figlia passava a trovarlo la riempiva di ogni ben di dio, convinto che quel cibo fatto in casa fosse un toccasana per i suoi amati nipotini, fresco, saporoso e naturale. E invece…
Da allora l’esistenza di Pierino e di sua moglie fu totalmente sconvolta. La loro tempra di contadini adusi alla vita di tribolazioni e alle intemperanze della natura venne messa a durissima prova. Per alcuni giorni ancora dovette occuparsi della cura di quella ventina di manzi e mucche che, inconsapevoli, continuavano a ruminare pazienti nella stalla. Si preoccupava di non fargli mancare l’acqua e il fieno, di ripulirgli la lettiera, di mungerle, ma con un magone tremendo. Una pena nel cuore che diventò insopportabile quando dovette far partorire la Biondô, sapendo che anche quel vitellino spaurito che cominciò subito a zampettare alla ricerca delle mammelle materne di lì a poco sarebbe stato incenerito. Gli sembrò che anche la Biondô patisse in quel momento della stessa angoscia che traspariva dal suo volto e non riuscisse a trasformare, come al solito, il dolore del travaglio nella gioiosa soddisfazione di ogni madre alla vista della sua nuova creatura.
Fu il periodo più difficile della sua vita, affrontato in un’età, 59 anni, in cui è ancor più complicato adattarsi a cambiamenti repentini e violenti, abbandonare abitudini radicate: l’alzarsi all’alba per curare le bestie nella stalla, osservare i capricci del clima per valutare quando fosse bene irrigare, quando raccogliere il fieno, quando procedere all’aratura per la semina del mais, perché il contadino sa che ogni stagione è diversa e non c’è una data fissa in cui operare al meglio. Di tutto ciò era piena l’esistenza di Pierino fino a quel terribile autunno del 2001. Di tutto ciò venne improvvisamente svuotata. La riservata e ferma dignità con cui queste due persone hanno affrontato la tragedia che li ha colpiti meriterebbe un monumento. Questo travaglio Pierino me l’ha raccontato quando poi ci siamo conosciuti e l’ho sentito narrare da lui, con sofferenza e composta dignità, tutte le volte che giornalisti venuti da ogni parte d’Italia si sono occupati del «caso Caffaro». Ne è nata un’amicizia che continua ancora oggi, cementata da una solidarietà spontanea da parte mia, cresciuto in campagna con gli zii contadini e mio padre zoccolaio, rinsaldata, forse, anche da un senso di responsabilità per aver fatto emergere alla luce del sole quella catastrofe, e da parte loro, credo, per riconoscenza nei confronti della mia attenzione e continua vicinanza, di fronte alla disdicevole noncuranza di coloro che quella catastrofe l’hanno provocata – i signori della Caffaro – o assecondata – le istituzioni e le autorità preposte ai controlli.
Ma ora andiamo con ordine e ricostruiamo gli antefatti di quel tragico 8 settembre, in questo caso da rinvenire non nella famosa seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio, ma in una indagine giornalistica pubblicata in agosto, esattamente il giorno 13.
13 AGOSTO 2001, «A BRESCIA C’È UNA SEVESO BIS»
Quando si parla di disastri ambientali, di solito ci si riferisce a incidenti industriali rilevanti, a nubi tossiche, emissioni in atmosfera importanti, a sversamenti devastanti in mare, in un fiume, nelle falde o sui terreni. Ma niente di tutto ciò era avvenuto a Brescia a ridosso del ferragosto del 2001. In quei giorni tutte le industrie siderurgiche e meccaniche che affollano i dintorni della città e in particolare la Valle Trompia, erano ferme per la pausa feriale, e la Caffaro, l’unica industria chimica importante, stava ormai esaurendo il proprio ciclo storico, con buona parte degli impianti dismessi.
Dunque, in apparenza, per i bresciani, sia quelli costretti a rimanere in una città resa ancor più bollente dal teleriscaldamento funzionante anche con il solleone, sia quelli che si stavano godendo la frescura dei monti o i bagni rilassanti di sole e di mare, non era accaduto nulla che potesse giustificare quel titolone strillato su tutta la prima pagina de «la Repubblica» del 13 agosto, A Brescia c’è una Seveso bis. Lo sconcerto, dunque, fu enorme e da Brescia percorse l’intera penisola. Com’era possibile? Che cos’era successo? Il solito scoop fantasioso di una stampa in quei giorni di agosto carente di fatti veri e quindi alla ricerca di notizie a effetto, ancorché «inventate»?
In verità,