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Le guerre di Mussolini dal trionfo alla caduta
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E-book992 pagine12 ore

Le guerre di Mussolini dal trionfo alla caduta

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Info su questo ebook

Le imprese militari e le disfatte dell’Italia fascista, dall’invasione dell’Abissinia all’arresto del duce

Sebbene alleato di Hitler, Mussolini rimase neutrale fino all’estate del 1940. Poi, con il crollo del tutto inaspettato e improvviso degli eserciti di Francia e Gran Bretagna, il duce dichiarò guerra agli alleati nella speranza di ottenere guadagni territoriali nel sud della Francia e in Africa.
Questa decisione si rivelò un terribile errore di calcolo, condannando l’Italia a una guerra prolungata, a immense perdite e a un’invasione alleata nel 1943 che inaugurò una nuova drammatica fase per il Paese. Ovunque – in URSS, nel deserto africano o nei Balcani – le truppe italiane si trovarono a contrastare nemici meglio equipaggiati o più motivati. Il risultato fu una guerra completamente diversa da quanto era stato pianificato dagli strateghi italiani: una serie di disperate improvvisazioni contro gli Alleati che potevano attingere a risorse ben più ingenti e contro i quali l’Italia si dimostrò impotente. Questo libro mostra la centralità dell’Italia nella guerra, delineando la breve ascesa e poi la disastrosa caduta della campagna militare italiana.

Il racconto definitivo e incredibilmente documentato del disastroso tentativo del duce di rendere l’Italia una grande potenza

«Incredibilmente approfondito. Un’analisi accurata dei motivi del tracollo militare italiano.»
The Times Literary Supplement

«È difficile immaginare un resoconto più accurato, sia delle battaglie che dei personaggi coinvolti.»
The Guardian
John Gooch
È uno dei più autorevoli scrittori di saggi storici sulla seconda guerra mondiale. È professore emerito all’università di Leeds. Nel 2010 il Presidente della Repubblica l’ha nominato Cavaliere dell’Ordine della Stella della Solidarietà italiana. Vive in Inghilterra.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ago 2020
ISBN9788822748980
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    Anteprima del libro

    Le guerre di Mussolini dal trionfo alla caduta - John Gooch

    I protagonisti

    Vittorio Ambrosio (generale)

    (28 luglio 1879-20 novembre 1958)

    Promosso a ufficiale di cavalleria, Ambrosio prestò servizio come maggiore e poi tenente colonnello durante la Prima guerra mondiale, e negli anni seguenti venne nominato capo di stato maggiore della 26a divisione e in seguito comandante di corpo d’armata. Nel 1939 gli venne affidato il comando della II armata lungo il confine jugoslavo, affinché guidasse l’offensiva italiana contro gli jugoslavi nell’aprile del 1941. Dopo aver ceduto l’incarico a Mario Roatta, divenne capo di stato maggiore dell’esercito nel gennaio 1942. Nel febbraio 1943, Mussolini lo nominò capo di stato maggiore generale. Monarchico convinto, ricoprì un ruolo fondamentale nel complotto che portò alla caduta del duce dopo i vari ma infruttuosi tentativi di persuaderlo a cambiare tattica. Tra l’8 e il 9 settembre, a seguito dell’annuncio dell’armistizio, lasciò Roma insieme al re, a Badoglio e altri, servendo il governo fantoccio italiano come ispettore generale del Regio Esercito fino al novembre 1944.

    Cesare Amè (generale)

    (18 novembre 1892-30 giugno 1983)

    Amè si arruolò nel Servizio informazioni militari (

    SIM

    ) nel 1921, prestando servizio dapprima nel centro di controspionaggio di Torino e poi a Vienna e a Budapest. Dopo aver lasciato i servizi segreti nel 1929, gestì una postazione di comando a Perugia e poi insegnò all’Accademia aeronautica di Caserta dal 1933 al 1935. Promosso colonnello nel 1937, fu al comando di un reggimento di fanteria, servendo prima come capo di stato maggiore di divisione, e poi di corpo d’armata. Richiamato al

    SIM

    come vicecapo con l’approvazione di Mussolini all’inizio del gennaio 1940, venne infine nominato capo del

    SIM

    il 20 settembre dello stesso anno. Alla fine del 1941 era al comando di un’organizzazione di 1500 tra ufficiali, sottufficiali e truppe specializzate, il doppio dell’organico che il

    SIM

    aveva al suo arrivo. Venne sollevato dall’incarico da Badoglio il 18 agosto 1943.

    Quirino Armellini (generale)

    (31 gennaio 1889-13 gennaio 1975)

    Fedelissimo di Badoglio, Armellini fu al comando di un battaglione eritreo durante la riconquista della Libia. Nel 1935 Badoglio lo nominò capo dell’ufficio operazioni in Etiopia. Dal 1936 al 1938 servì come generale di brigata nel distretto di Amhara. Dopo essere stato al comando di alcune divisioni in Italia, servì come ufficiale di stato maggiore di Badoglio presso il comando supremo a partire dal giugno 1940, finché non fu sostituito nel gennaio del 1941 a seguito della caduta del suo superiore. Fu al comando della divisione di fanteria La Spezia e poi del

    XVIII

    corpo d’armata in Dalmazia e Croazia, finché non fu rimpiazzato nel luglio 1942 in seguito allo scontro con il governatore civile della Dalmazia, Giuseppe Bastianini. Dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, Armellini venne incaricato da Badoglio di sciogliere la milizia fascista (Milizia volontaria per la sicurezza nazionale) per assorbirla nell’esercito. Dopo l’armistizio si unì alla resistenza di Roma, dirigendo il fronte militare clandestino della città a partire dal marzo 1944.

    Pietro Badoglio (maresciallo)

    (28 settembre 1871-1° novembre 1956)

    Badoglio scalò rapidamente i ranghi militari durante la Prima guerra mondiale, passando da tenente colonnello a tenente generale in soli due anni. Il fronte del suo

    XXVII

    corpo d’armata collassò durante la battaglia di Caporetto (24 ottobre 1917), dando adito alle accuse di fallimento e poi di insabbiamento che lo perseguitarono per tutta la vita – e che proseguono tutt’oggi. Dopo aver ricoperto il ruolo di ambasciatore in Brasile dal 1923 al 1925 divenne capo di stato maggiore e in seguito capo di stato maggiore generale dal 1925 al 1940. Tra il 1929 e il 1933 fu governatore della Tripolitania e della Cirenaica, dal novembre 1935 al maggio 1936 guidò la guerra in Etiopia, il tutto mentre ricopriva il suo incarico a Roma. Richiese e ottenne numerose onorificenze: il re lo nominò duca di Addis Abeba nel luglio 1936. La sua gestione delle questioni militari fu in generale mediocre. Insolitamente, criticò Mussolini dopo la débâcle greca nel novembre 1940, perdendo di conseguenza il suo incarico. La profonda avversione che nutriva nei confronti dei tedeschi fu probabilmente superata solo dal suo odio viscerale per Cavallero, nella morte del quale forse giocò un ruolo indiretto. Nominato capo di governo il 25 luglio 1943, fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi con il re e altri tra l’8 e il 9 settembre di quello stesso anno, continuando a presiedere il governo fantoccio italiano fino al giugno 1944.

    Italo Balbo

    (6 giugno 1896-28 giugno 1940)

    Ras (capo di partito) fascista di Ferrara nonché uno dei quadrumviri nominati da Mussolini per guidare la marcia su Roma nell’ottobre del 1922, Balbo divenne prima sottosegretario e poi ministro dell’Aeronautica (1929-1933). Coraggioso, energico e affascinante, si guadagnò una reputazione a livello internazionale guidando quattro voli d’addestramento a lunga distanza, incluse due crociere aeree transatlantiche. Eccellente organizzatore, non riuscì tuttavia a sconfiggere le radicate rivalità tra i reparti militari né a imporre una dottrina uniforme all’intera aeronautica. Nel gennaio del 1934, arrivando a considerarlo un pericoloso rivale e un potenziale successore, Mussolini lo esiliò in Libia nominandolo governatore. Nel giugno 1940 il suo aereo, erroneamente identificato come un caccia britannico poco dopo un attacco nemico, venne abbattuto nei cieli di Tobruk da batterie antiaeree italiane. Balbo Drive, la strada di Chicago dove venne osannato dopo aver raggiunto gli Stati Uniti, porta ancora il suo nome.

    Ettore Bastico (generale)

    (9 aprile 1876-2 dicembre 1972)

    La carriera militare di Bastico, durata in totale cinquantatré anni, iniziò, come molte altre, con la guerra italo-turca in Libia (1911-1912). Grazie ai meriti di servizio ottenuti durante la Prima guerra mondiale, scalò i ranghi militari negli anni tra le due guerre, guadagnandosi la fama di generale-studioso con il suo libro L’evoluzione dell’arte della guerra, in cui criticava Giulio Douhet per aver enfatizzato eccessivamente l’aspetto meccanizzato della guerra sacrificando l’elemento umano. Divenne inoltre amico personale di Mussolini. Durante la guerra in Abissinia fu al comando della

    1

    a divisione Camicie Nere, la 23 Marzo, e nel 1937 guidò brevemente il Corpo truppe volontarie (

    CTV

    ) nella guerra civile spagnola. Nel dicembre del 1940 venne nominato governatore militare del Dodecaneso, e il 19 luglio 1941 Mussolini lo nominò governatore di Libia e comandante delle forze dell’Asse in Nord Africa. Rommel, che si scontrò spesso con lui per la cautela logistica e strategica che lo caratterizzavano, lo soprannominò Bombastico. Promosso maresciallo d’Italia il 12 agosto 1942 in modo da non avere un grado inferiore a Rommel, venne sollevato dall’incarico nel febbraio 1943, dopo la caduta di Tripoli.

    Inigo Campioni (ammiraglio)

    (14 novembre 1878-24 maggio 1944)

    Considerato negli ultimi anni della sua carriera in tempo di pace l’ufficiale più promettente della Regia Marina, Campioni prestò servizio su diverse navi da guerra e fu poi al comando della scorta di numerosi convogli durante la Prima guerra mondiale. Negli anni tra le due guerre, durante i quali raggiunse il rango di contrammiraglio (nel 1932), trascorse un periodo come addetto navale a Parigi, fu al comando della corazzata Duilio e di un incrociatore pesante, e prestò servizio presso lo stato maggiore dell’ammiraglio Cavagnari. Nel 1938, fu nominato sottocapo di stato maggiore della marina, e nel 1939 assunse il comando della

    1

    a Squadra Navale, la principale flotta da guerra italiana. Criticato dopo le battaglie di Punta Stilo e di capo Teulada, svoltesi rispettivamente nel luglio e nel novembre del 1940, per aver agito in modo eccessivamente cauto e per non aver approfittato adeguatamente del vantaggio strategico, venne sostituito l’8 dicembre 1940. Tornò allora a ricoprire l’incarico di sottocapo di stato maggiore della marina, e nell’ottobre del 1941 divenne governatore del Dodecaneso, cedendo la regione ai tedeschi l’11 settembre del 1943, tre giorni dopo l’armistizio. Incarcerato dai tedeschi, nel 1944 venne consegnato alla Repubblica sociale italiana (

    RSI

    ) di Mussolini, che lo condannò per alto tradimento dopo i ripetuti rifiuti di collaborare. Quando gli fu offerta la grazia se avesse riconosciuto l’

    RSI

    come legittimo governo italiano, rifiutò categoricamente, andando incontro alla fucilazione nella piazza cittadina di Parma. Nel novembre del 1947 gli venne conferita postuma la Medaglia d’oro al valor militare.

    Domenico Cavagnari (ammiraglio)

    (20 luglio 1876-2 novembre 1966)

    Durante la Prima guerra mondiale, Cavagnari fu al comando di uno squadrone di esploratori. Dal 1929 al 1932 fu a capo dell’Accademia navale italiana di Livorno. Il periodo trascorso nell’accademia coincise con un netto cambio di atteggiamento nelle relazioni tra la marina e il regime, e con un’enfatizzazione delle virtù positive del fascismo. In qualità di sottosegretario del ministero della Marina, dal novembre 1933, e di capo di stato maggiore della marina dal giugno 1934, Cavagnari plasmò il corpo che andò in guerra nel 1940, esercitando un controllo serrato su ogni aspetto organizzativo e gestionale, e insistendo sulla disciplina e il rigore. Da sempre ammiraglio di corazzate, per tutta la sua carriera mostrò scarso interesse per le portaerei (come il suo superiore) o i radar e tagliò i settori di ricerca e innovazione nel gennaio 1934, dichiarando: «In mare un dispositivo semplice, resistente e affidabile è preferibile a uno che, per quanto più sofisticato e rapido, rimane più complesso, fragile e inaffidabile». Tra il 1935 e il 1940 supervisionò tuttavia la costruzione di sessanta sottomarini, che avevano lo scopo di disturbare le attività di navi da guerra e portaerei nemiche. La battaglia di Punta Stilo, tutt’altro che decisiva, e l’efficace assalto nemico a Taranto del novembre 1940 posero fine alla sua carriera.

    Ugo Cavallero (maresciallo)

    (20 settembre 1880-14 settembre 1943)

    Durante la Prima guerra mondiale, Cavallero, amato dai soldati per il suo atteggiamento alla mano, prestò dapprima servizio presso il quartier generale di Cadorna, poi come capo ufficio operazioni sotto Badoglio e in seguito come capo di stato maggiore generale. Nel 1920, resosi conto che la scalata dei ranghi in tempo di pace sarebbe stata eccessivamente lenta, abbandonò la divisa per l’industria privata. Nel 1925 Mussolini lo nominò sottosegretario al ministero della Guerra, una posizione che ricoprì per tre anni – durante i quali divenne acerrimo nemico di Badoglio – e da cui venne sollevato in seguito all’intervento diretto del re. Trascorse poi cinque anni nell’Ansaldo, un periodo che per il resto della sua vita gli valse il sospetto di aver tratto profitto dalla fornitura di un acciaio di scarsa qualità alle forze armate. Dopo un periodo trascorso al comando delle truppe nell’Africa orientale italiana, venne sollevato dall’incarico dal viceré Amedeo di Savoia-Aosta. Nel giugno del 1939, Mussolini lo inviò a Berlino per gestire i negoziati a seguito della firma del Patto d’acciaio del 22 maggio. Il 6 dicembre del 1940 succedette a Badoglio come capo di stato maggiore generale e venne immediatamente inviato in Albania, dove ereditò da Ubaldo Soddu la gestione del difficile rapporto con i greci; tornò a Roma nel maggio del 1941. Troppo accomodante con i tedeschi, stando alle parole di alcuni generali, Cavallero mantenne la carica fino al 31 gennaio del 1943, soprattutto perché, pare, a differenza del suo successore Ambrosio, non mise mai in dubbio la gestione della guerra da parte del duce. Nel luglio del 1943, Badoglio lo incarcerò e, dopo il rilascio per intercessione del re, lo fece arrestare di nuovo. Durante la sua prigionia Cavallero scrisse un memoriale in cui dichiarò di aver cospirato contro Mussolini dal novembre del 1942. Quando Badoglio fuggì da Roma, lasciò il Memoriale Cavallero sulla sua scrivania e i tedeschi lo trovarono. Documento alla mano, Kesselring offrì a Cavallero il comando delle forze armate di quella che sarebbe divenuta l’

    RSI

    . Il 13 settembre del 1943, i due cenarono insieme. Il mattino dopo Cavallero fu trovato morto nel giardino dell’hotel di Frascati in cui risiedeva, apparentemente suicida. Alcuni sospettano che sia stato ucciso.

    Galeazzo Ciano, conte

    (18 marzo 1903-11 gennaio 1944)

    Figlio di un ammiraglio e ministro particolarmente vicino al duce, Ciano sposò Edda, la figlia di Mussolini, nell’aprile del 1930. La sua ascesa da quel momento fu estremamente rapida: sottosegretario e poi ministro della Propaganda (1934-1935), venne promosso a ministro degli Affari esteri da suo suocero il 9 giugno del 1936, un incarico che mantenne fino al febbraio 1943, quando venne demansionato ad ambasciatore presso la Santa Sede. Volgare, ambizioso e opportunista, Ciano fu inizialmente poco più di un fantoccio. Ma le cose cambiarono quando crebbe in lui l’ansia per la vulnerabilità dell’Italia rispetto alla dominante Germania nazista; ansia che lo spinse, in occasione del Gran consiglio del fascismo svoltosi tra il 24 e il 25 luglio del 1943, a votare per la destituzione di suo suocero. Quel voto gli costò la vita. Dopo essere fuggito in Germania, venne riconsegnato alla

    RSI

    per essere processato e condannato come traditore, e in seguito ucciso con una fucilata alle spalle. Se a qualcuno dovesse interessare, su YouTube si trova un video della sua esecuzione.

    Carlo Favagrossa (generale)

    (22 novembre 1888-22 marzo 1970)

    Laureato in Ingegneria, Favagrossa prestò servizio in qualità di giovane ufficiale nella guerra di Libia e nella Prima guerra mondiale. Dopo aver presieduto la commissione di controllo per l’osservanza dell’armistizio a Vienna nel 1919, servì in Cirenaica e ricoprì incarichi militari e diplomatici in Francia e Cecoslovacchia. Prima al comando di un reggimento e poi vicecomandante dell’Accademia reale di Torino, nel giugno 1936 gli fu affidato il comando dell’unica brigata meccanizzata d’Italia. Inviato in Spagna a seguito degli eventi di Guadalajara, riorganizzò del tutto l’intendenza (gli approvvigionamenti). Dopo aver guidato diverse divisioni assunse la presidenza del Commissariato generale per le fabbricazioni di guerra (

    COGEFAG

    ) il 1° settembre del 1939. Il 23 maggio del 1940 venne nominato sottosegretario di Stato per la produzione bellica, e il 6 febbraio 1943 divenne ministro. In carica gestì l’assegnazione delle materie prime (sebbene al riguardo dovette sempre trattare con diverse branche del Partito fascista), ma non l’approvvigionamento delle armi.

    Rino Corso Fougier (generale)

    (14 novembre 1894-24 aprile 1963)

    Fourgier iniziò il servizio bellico nel 1915 arruolandosi nei bersaglieri, ma l’anno successivo venne trasferito in aeronautica, dove guadagnò tre medaglie d’argento al valore. Dopo la guerra, in qualità prima di comandante di squadriglia e poi di stormo e squadra aerea, attirò l’attenzione del ministro dell’Aeronautica Italo Balbo, che lo convocò in Tripolitania tra il 1935 e il 1937, durante il suo mandato di governatore della Libia. Assegnato al comando della

    I

    Squadra Aerea nel maggio del 1940, guidò il Corpo aereo italiano in Belgio, prendendo parte ai bombardamenti della Gran Bretagna tra il 10 settembre 1940 a il 28 gennaio 1941. Il 15 novembre del 1941 succedette a Pricolo come sottosegretario di stato all’Aeronautica e capo di stato maggiore. Venne sollevato dall’incarico il 27 luglio 1943.

    Gastone Gambara (generale)

    (10 novembre 1890-27 febbraio 1962)

    Gambara iniziò la sua carriera militare come volontario, prima di diplomarsi all’Accademia militare di Modena con uno speciale corso per sottufficiali promettenti. Durante la Prima guerra mondiale servì negli alpini, conquistando nel 1918 due medaglie d’argento (la seconda massima onorificenza italiana al valore) in soli nove mesi. Dopo aver comandato un battaglione di alpini all’inizio degli anni Venti, ricoprì svariati incarichi militari. Combatté in Etiopia e poi in Spagna, dove fu capo di stato maggiore del Corpo truppe volontarie. Dopo aver guidato il

    XV

    corpo d’armata nella breve battaglia sulle Alpi francesi del giugno 1940, dal 5 febbraio del 1941 fu al comando dell’

    VIII

    corpo d’armata nella guerra contro la Grecia. L’11 maggio 1941 venne trasferito a Tripoli, prima come capo di stato maggiore di Gariboldi e poi di Bastico; in seguito fu comandante prima del corpo d’armata motocorazzato, e poi del corpo d’armata di manovra. Il 6 marzo 1942, dopo i disaccordi con Rommel e Cavallero, venne richiamato e inviato in Slovenia per comandare l’

    XI

    corpo d’armata, rimanendovi fino al 5 settembre 1943. Dopo l’armistizio, Gambara si schierò con la Repubblica sociale italiana, venendo nominato il 20 ottobre capo di stato maggiore dell’Esercito nazionale repubblicano. Mussolini lo sollevò dall’incarico il 12 marzo 1944 per «eccessivo pessimismo». Il suo nome compare nell’elenco anglo-americano di criminali di guerra del 1947, ma come molti altri si sottrasse al giudizio in Italia o all’estero.

    Italo Gariboldi (generale)

    (20 aprile 1879-9 febbraio 1970)

    Gariboldi ricoprì diversi incarichi militari durante la Prima guerra mondiale. Tra il 1920 e il 1925 fu presidente della Delegazione italiana per la delimitazione dei confini con la Jugoslavia. Incarichi a capo di reggimenti e brigate vennero seguiti dal comando dell’Accademia militare di Modena e della Scuola di applicazione di Parma. Nel 1936 guidò la divisione Sabauda nella marcia su Addis Abeba. Come capo di stato maggiore per il governatore dell’Africa orientale italiana, prese parte alla brutale repressione della resistenza abissina. Richiamato in patria nel febbraio 1938, comandò un corpo d’armata e, dall’11 giugno 1940 all’11 febbraio 1941, guidò la

    V

    armata in Tripolitania, per poi succedere a Graziani come comandante superiore e governatore generale. La tesa relazione con Rommel, a cui rimproverava la riconquista lampo della Cirenaica, portò alla revoca del suo incarico il 19 luglio del 1941. Nella primavera del 1942 fu chiamato a comandare l’

    VIII A

    rmata (o

    ARMIR

    ) in Russia. Gariboldi era a Parma, intento a ricostruire l’

    VIII

    armata ormai distrutta quando, il 15 settembre del 1943, venne arrestato dai tedeschi. Rifiutatosi di collaborare, venne prima imprigionato in Germania e poi ceduto alla

    RSI

    , che lo condannò a dieci anni di carcere.

    Carlo Geloso (generale)

    (20 agosto 1879-23 luglio 1957)

    Arruolatosi come artigliere, Geloso si guadagnò tre medaglie d’argento al valor militare durante la Prima guerra mondiale. Alla fine del conflitto, con il grado di colonnello, venne assegnato all’ausiliaria speciale finché non fu richiamato con l’avvento del fascismo. Dopo il comando reggimentale e il ritorno nel corpo di stato maggiore, combatté in Somalia nel 1936 e partecipò alla pacificazione d’Etiopia, usando metodi che perfino Roberto Farinacci, fascista estremista, giudicò «spesso sproporzionati e ingiustificati». Nel dicembre del 1939, sostituì Guzzoni al comando del

    XXVI

    corpo d’armata in Albania, ma venne rimpiazzato a sua volta nell’estate del 1940 da Visconti Prasca su decisione di Ciano. Richiamato in Albania nel novembre 1940, fu posto al comando dell’

    XI

    armata fino all’aprile del 1941; in seguito servì come governatore militare della Grecia finché non fu travolto da uno scandalo nel maggio del 1943; da quel momento in poi le sue lettere di supplica a Mussolini vennero accuratamente ignorate. A seguito dell’armistizio nel settembre 1943 venne catturato e imprigionato dai tedeschi a Poznań, finché non fu liberato dall’Armata Rossa. Nel 1947, il governo etiope tentò senza successo di chiederne l’estradizione per crimini di guerra; solo un anno prima, il governo greco, all’epoca nel bel mezzo di una guerra civile, aveva annunciato che non avrebbe proceduto alla richiesta di estradizione di alcun italiano accusato di crimini nel proprio Paese.

    Rodolfo Graziani (maresciallo)

    (11 agosto 1882-11 gennaio 1955)

    Dopo l’iscrizione all’università, Graziani si immatricolò a un corso biennale in legge, senza però completare mai gli studi. Troppo povero per iscriversi a un’accademia militare, si arruolò per la leva, prima come sottufficiale e poi come sottotenente, conquistando il posto da ufficiale effettivo nel 1906. Rimasto in Libia per tutta la durata della Prima guerra mondiale, si distinse per essere il più giovane colonnello nell’esercito e uno dei più decorati. Al termine del conflitto, abbandonò momentaneamente l’esercito, ma fallì nel farsi strada nel mondo civile, così nel 1921 tornò in Libia, dove rimase per tredici anni, giocando un ruolo rilevante nella repressione e nella riconquista della colonia e distinguendosi per essere uno dei militari italiani più aggressivi – e di maggior successo. Promosso a generale di corpo d’armata, venne richiamato a Roma nel 1934, ma ripartì nel febbraio del 1935 per assumere il comando delle forze italiane in Somalia. I successi riportati gli fecero guadagnare il grado di maresciallo d’Italia. In qualità di viceré d’Etiopia impiccò e fece fucilare i leader ribelli locali, divenendo ancor più spietato dopo l’attentato alla sua vita del 19 febbraio 1937. Dopo il suo ritorno a Roma nel gennaio 1938, Graziani venne nominato capo di stato maggiore dell’esercito il 1° novembre del 1939 (a quanto pare scoprì della sua nomina al notiziario dell’una) e poi, nel giugno del 1940, governatore della Libia. Successivamente fu sollevato dall’incarico senza riceverne un altro finché, verso la fine del 1943, Mussolini lo nominò ministro della Guerra della

    RSI

    . Presente sulla lista nera dei partigiani, Graziani sfuggì al giudizio cadendo in mani americane. Prima prigioniero di guerra degli Alleati e poi incarcerato in Italia, venne sottoposto a giudizio nel maggio 1950 «per collaborazione militare con la Germania», condannato a diciannove anni di reclusione, venne però rilasciato appena quattro mesi dopo. I tentativi del governo abissino di farlo estradare e sottoporlo a processo per crimini di guerra furono vani.

    Alfredo Guzzoni (generale)

    (12 aprile 1877-15 aprile 1965)

    Guzzoni prestò servizio in prima linea come capo di stato maggiore per la maggior parte della Prima guerra mondiale, durante la quale guadagnò due medaglie d’argento, e poi nelle commissioni di controllo inter-alleate per l’Austria e l’Ungheria. Guidò poi reggimenti, brigate e divisioni. Nel novembre del 1935 venne inviato in Eritrea, dove rimase in veste di governatore dal giugno 1936 all’aprile 1937. Dopo aver guidato le forze d’invasione in Albania tra il 7 e l’8 aprile del 1939, comandò la

    IV

    armata durante la breve campagna contro la Francia nel giugno del 1940. Il 30 novembre 1940 venne nominato sottosegretario alla Guerra e sottocapo di stato maggiore generale, un incarico che sembra aver ricoperto piuttosto dignitosamente. Cavallero abolì la sua carica da sottocapo quando tornò a Roma dopo la fine della guerra in Grecia, costringendo Guzzoni a firmare nuovamente per il ruolo di sottosegretario nel maggio del 1941. Il 1° giugno 1943 a Guzzoni venne assegnato il comando della

    VI

    armata e l’incarico della difesa della Sicilia, un ruolo difficile in cui non riuscì a brillare. Venne imprigionato dalla

    RSI

    il 26 ottobre 1943, a seguito di un attacco rivoltogli da Roberto Farinacci circa il suo operato in Sicilia, ma venne rilasciato due settimane dopo grazie alla pressione esercitata dall’alto comando tedesco.

    Angelo Iachino (ammiraglio)

    (24 aprile 1889-3 dicembre 1976)

    Iachino trascorse il periodo iniziale della Prima guerra mondiale a bordo della corazzata Giulio Cesare, prima di essere promosso al comando di una torpediniera nell’Adriatico che gli valse una medaglia d’argento. Dopo aver servito da addetto navale in Cina tra il 1923 e il 1928, fu al comando di un’altra torpediniera, di un incrociatore leggero e poi di due gruppi di unità leggere nel corso della Guerra civile spagnola. Nell’agosto del 1940 gli fu affidato il comando del

    II

    squadrone navale. Nel novembre di quello stesso anno prese parte alla battaglia di Capo Spartivento e sostituì Campioni in qualità di comandante della flotta da guerra il mese successivo. Molto criticato per la sua gestione della battaglia di Capo Matapan, durante la quale perse un’intera divisione di incrociatori, resistette in carica fino al 5 aprile del 1943, venendo poi rimpiazzato dall’ammiraglio Carlo Bergamini. Tornò in servizio nel 1948, per essere infine congedato nel 1962.

    Efisio Marras (generale)

    (2 agosto 1888-29 gennaio 1991)

    Nell’ottobre 1936, Marras, artigliere, venne selezionato per ricoprire il ruolo di addetto militare a Berlino. Rimase in carica per sette anni, fatta eccezione per un breve interludio nell’estate del 1939, in cui venne sostituito dal generale Mario Roatta. In qualità di occhi e orecchie del comando supremo, teneva i rapporti con la polizia militare nazista. Dopo l’armistizio venne imprigionato dai tedeschi e ceduto alla

    RSI

    , che lo imprigionò nuovamente. Nell’agosto del 1944 fuggì per raggiungere la Svizzera. Dopo la guerra divenne capo di stato maggiore dell’esercito, e dal 1950 al 1954 fu capo di stato maggiore della Difesa, giocando un ruolo importante nella ricostruzione dell’esercito italiano.

    Giovanni Messe (maresciallo)

    (10 dicembre 1883-18 dicembre 1968)

    Messe, considerato uno dei migliori generali italiani, giocò un importante ruolo nell’addestramento e in seguito al comando delle unità di fanteria degli arditi durante gli ultimi anni della Prima guerra mondiale, conquistando una medaglia d’argento al valor militare. Dopo aver ricoperto l’incarico di aiutante di campo effettivo del sovrano tra il 1923 e il 1927, guidò un’unità di bersaglieri e una brigata corazzata durante la guerra in Etiopia, un’esperienza da cui emerse con il grado di maggiore generale. Vicecomandante durante l’invasione dell’Albania nell’aprile del 1939, passò poi al comando della divisione Celere tra giugno e dicembre del 1940. I suoi successi nella guerra in Grecia, durante la quale guidò il corpo d’armata speciale, gli valse la nomina a comandante del Corpo di spedizione italiano in Russia (

    CSIR

    ) nel luglio del 1941, quando il primo ufficiale scelto per l’incarico si ammalò. Falliti i suoi tentativi di convincere Cavallero e Mussolini a non espandere il

    CSIR

    portandolo alle dimensioni di un esercito, scontrandosi con i tedeschi e dissentendo con il nuovo comandante dell’

    VIII

    armata, Gariboldi riguardo a una serie di questioni strategiche, Messe chiese di essere sollevato dall’incarico, e lasciò la Russia nel novembre del 1942. Nel febbraio del 1943, Mussolini gli offrì un calice avvelenato, nominandolo comandante delle forze italiane in Tunisia. Dopo la resa delle forze dell’Asse in Nord Africa nel maggio del 1943, Messe venne confinato insieme ad altri importanti prigionieri in Inghilterra, e le sue conversazioni vennero registrate dai suoi carcerieri grazie all’uso di microspie. Nel settembre del 1943 venne nominato capo di stato maggiore generale dell’Esercito cobelligerante italiano, una carica che mantenne fino al termine della guerra.

    Alessandro Pirzio Biroli (generale)

    (23 luglio 1877-20 maggio 1962)

    Figlio di uno dei volontari di Garibaldi, Pirzio Biroli intraprese il servizio militare arruolandosi nei bersaglieri. Durante la Prima guerra mondiale inizialmente prestò servizio presso lo stato maggiore a Roma e in seguito come ufficiale in Macedonia, per poi trasferirsi sul fronte italiano dopo Caporetto. Tra il 1922 e il 1927 guidò una missione militare in Ecuador, al comando di alcune divisioni e diversi corpi d’armata. Fu a capo del Corpo d’armata eritreo durante la guerra abissina e poi, in qualità di generale, ottenne la carica di governatore di Amhara. Dopo aver tentato (fallendo) di reprimere la rivolta scoppiata lì nell’agosto del 1937, di cui Graziani lo ritenne responsabile, venne congedato nel dicembre di quello stesso anno. Nel febbraio del 1941 venne poi reintegrato per essere nominato comandante della

    IX

    armata in Albania. In qualità di governatore e comandante militare in Montenegro dall’ottobre del 1941, impiegò gli stessi spietati metodi usati in Abissinia per governare la colonia. Nel giugno del 1943 il comando supremo creò il Gruppo d’armate est, lasciando a Pirzio Biroli poteri puramente civili. Tornò a Roma il mese successivo. Dopo l’armistizio Mussolini gli offrì l’incarico di ministro della Difesa nazionale, ma Biroli lo rifiutò. Attraversando le linee tedesche, fuggì a Brindisi, e nell’ottobre del 1944 venne richiamato al servizio temporaneo per presiedere una commissione con il compito di esaminare i riconoscimenti al valore. Presente sull’elenco alleato dei criminali di guerra, anche Biroli riuscì a evitare la giustizia. Stando a quanto è riportato era un tiratore scelto, e vinse una medaglia d’argento come schermidore alle Olimpiadi di Londra del 1908.

    Francesco Pricolo (generale)

    (30 gennaio 1891-14 ottobre 1980)

    Arruolato con l’incarico di ingegnere, guidò diversi dirigibili nella guerra italo-turca e nella Prima guerra mondiale, conquistando due medaglie d’argento al valore. Dopo aver ricoperto una serie di incarichi di comando e nello stato maggiore, incluso quello di sottocapo di stato maggiore della Regia Aeronautica per dieci mesi, tra il 1932 e il 1933, il 10 novembre del 1939 venne nominato sottosegretario al ministero dell’Aeronautica e capo di stato maggiore dell’Arma azzurra. Sfruttato da Mussolini come personale canale d’informazioni sulla cattiva gestione delle prime fasi della guerra in Grecia, ebbe una serie di attriti con Cavallero e non godeva della fiducia di Rommel, che lo accusava di eccessiva «volubilità». Venne sollevato dall’incarico il 14 novembre del 1941, quando fallì nell’inviare i nuovi caccia Macchi

    M.C

    .202 in Nord Africa come ordinato, adducendo che il personale che avrebbe dovuto pilotarli ancora non era addestrato e che gli aerei erano privi dei filtri anti-sabbia. Venne messo in congedo permanente nell’agosto del 1945 e infine andò in pensione nel 1954.

    Arturo Riccardi (ammiraglio)

    (30 ottobre 1878-20 dicembre 1966)

    Riccardi iniziò la sua carriera nella marina italiana con la rivolta dei Boxer (1900-1901) e poi con la campagna in estremo Oriente del 1905. Dopo aver servito in guerra, ricoprì diversi ruoli importanti nello stato maggiore del ministero della Marina, diventando direttore generale del personale e dei servizi militari nell’agosto del 1935, tre anni dopo essere divenuto ammiraglio, e un anno dopo essersi iscritto alla federazione della Spezia del Partito fascista. L’8 dicembre del 1940 succedette a Cavagnari come sottosegretario di stato e capo di stato maggiore della Marina. Venne sollevato da entrambi gli incarichi da Badoglio il 27 luglio del 1943, a seguito della caduta di Mussolini.

    Mario Roatta (generale)

    (2 gennaio 1887-7 gennaio 1968)

    Figura intelligente, tanto controversa quanto elusiva, tra il 1924 e il 1930 Roatta prestò servizio in Italia e in Francia durante la Prima guerra mondiale e poi come attaché militare a Varsavia. Nel 1934 venne scelto per dirigere il Servizio informazioni militari (

    SIM

    ). Coinvolto forse nell’assassinio di re Alessandro di Jugoslavia dell’ottobre 1934 (motivo per cui da quel momento in poi fu pedinato dall’intelligence francese nel corso delle sue visite in Francia), pianificò nel gennaio 1936 di rapire o assassinare Haile Selassie, ma venne frenato da Mussolini. Non si distinse particolarmente in qualità di primo comandante del

    CTV

    nella Guerra civile spagnola, perdendo anzi la battaglia di Guadalajara. Dopo aver ricoperto il ruolo di addetto militare a Berlino tra l’agosto e l’ottobre del 1939 prestò prima servizio come sottocapo di stato maggiore di Graziani dal 31 ottobre 1939 e poi come capo di stato maggiore fino al 20 gennaio 1942, quando assunse il comando delle forze d’occupazione in Slovenia e Dalmazia. Lasciò i Balcani nel febbraio 1943, e dopo essere stato brevemente responsabile della difesa della Sicilia divenne capo di stato maggiore per la seconda volta nel giugno 1943, fuggendo da Roma a settembre insieme a Badoglio. Venne rimosso dall’incarico dallo stesso Badoglio il 12 novembre 1943 su insistenza alleata, dopo essere stato accusato di crimini di guerra dalla Jugoslavia. In circostanze che rimangono oscure riuscì a scappare da un ospedale carcerario di Roma il 5 marzo 1945 trovando rifugio in Spagna, dove rimase fino al 1966. In Italia venne condannato in absentia all’ergastolo e a un anno di isolamento, una sentenza che venne ribaltata dall’Alta corte di appello nel 1948. Le opinioni che gli Alleati avevano di Roatta variano dal poco lusinghiero all’impronunciabile.

    Ubaldo Soddu (generale)

    (23 luglio 1883-20 luglio 1949)

    Soddu trascorse la maggior parte della Prima guerra mondiale in Cirenaica, tornando nel maggio del 1918 e prestando servizio in Francia, dove gli venne conferita una medaglia d’argento, una croix de guerre e la legione d’onore. Trascorse gran parte della sua carriera interbellica (durante la quale si laureò in Giurisprudenza) insegnando presso varie istituzioni militari e pubblicando saggi d’argomento militare. Attirò l’attenzione del duce prima come capo di gabinetto del ministero della Guerra tra il 1934 e il 1936, per la sua abilità nel dare forma alla legislazione militare, e poi come autore di un libro che proclamava le virtù di «decisive guerre lampo». Nel dicembre 1937 venne nominato sottocapo di stato maggiore dell’esercito per le operazioni, e nell’ottobre del 1939 sottosegretario di stato presso il ministero della Guerra, un incarico che ricoprì fino al 30 novembre del 1940. L’8 novembre 1940, promosso generale a pieno titolo, gli venne affidato il comando della guerra contro la Grecia, ma ricoprì l’incarico per soli cinquantadue giorni, prima di essere sostituito, all’inizio soltanto in via ufficiosa, da Cavallero. Da quel momento in poi assegnato all’ausiliaria, venne arrestato due volte e incarcerato una a seguito della caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, per essere liberato dai tedeschi il 12 settembre di quello stesso anno. Trascorse il resto della sua vita in pensione.

    Sebastiano Visconti Prasca (generale)

    (23 gennaio 1883-25 febbraio 1961)

    Dopo aver prestato servizio nella Prima guerra mondiale, tra il 1925 e il 1930 Visconti Prasca fu addetto militare e aeronautico a Belgrado, prima di essere assegnato al comando del Corpo di spedizione italiano addetto al controllo della Saar nel 1934. Dopodiché, tra il 1937 e il 1939, servì da attaché a Parigi. Sostenitore della nuova guerra lampo in stile fascista, fallì miseramente nei panni di comandante delle forze italiane d’invasione in Grecia, venendo sostituito da Ubaldo Soddu dopo appena due settimane e venendo immediatamente sollevato dall’incarico. Nel settembre 1943 si unì alla Resistenza. Catturato dai tedeschi e condannato a morte (sentenza poi convertita in ergastolo) riuscì a fuggire e, secondo alcune fonti, a combattere con l’Armata Rossa nella battaglia di Berlino.

    Introduzione

    Quando, il 30 ottobre del 1922, Mussolini assunse il comando dell’Italia e introdusse il fascismo nel Paese – una rivoluzione che avrebbe iniziato a tentare di imporre tre anni dopo, non appena sconfitta l’ala radicale del suo partito – l’intenzione era quella di far sorgere un nuovo Stato, costringendo la comunità internazionale a riconoscere che il suo feudo non era più l’ultima delle grandi potenze. Se fosse riuscito a forgiare un nuovo impero romano, in grado di abbracciare l’intero Mediterraneo e il Nord Africa e includere una regione considerevole dei Balcani, che avesse inoltre sbocchi sull’Atlantico e sull’oceano Indiano, avrebbe restituito all’Italia fascista il suo giusto ruolo sulla scena mondiale. Alcuni elementi di questo programma non erano affatto nuovi; l’Italia liberale aveva infatti svelato le sue ambizioni coloniali quando aveva messo piede a Massaua sul mar Rosso nel 1885, e di nuovo quando combatté i turchi in Libia tra il 1911 e il 1912, acquisendo il possesso di una nuova colonia. Né erano un segreto le ambizioni italiane nei Balcani e, per un breve periodo, quelle relative all’Anatolia, tutti segni di un nuovo appetito espansionistico. Le continuità tra le politiche estere dell’Italia liberale e fascista hanno fornito agli storici numerose munizioni per alimentare dibattiti e controversie. Il nuovo elemento era l’innesto di tali obiettivi all’interno di un programma più complesso, nonché l’ambiziosa spinta data da Mussolini al loro conseguimento. Conquistare quello che lui e molti del suo entourage consideravano lo spazio vitale dell’Italia significava occuparsi sia delle eredità passate sia delle circostanze contestuali del presente. Per qualche tempo, Mussolini sembrò avere successo su entrambi i fronti.

    Prima della Grande guerra, i diplomatici italiani operavano in modo estremamente pragmatico, evitando di inimicarsi le grandi potenze, cercando aperture per avanzare in regioni incapaci di opporre resistenza e usando la forza ogni volta che potevano farlo senza scatenare una reazione internazionale ostile. Di conseguenza, alla vigilia della Prima guerra mondiale la storia militare dell’Italia era, come minimo, alquanto ambigua. Autorizzati dalle grandi potenze a mettere piede in Eritrea e incoraggiati dai loro politici, i soldati italiani si spinsero verso l’interno del continente, sfidando l’indipendente impero guerriero d’Etiopia. Ma le loro possibilità non furono all’altezza dell’ambizione dimostrata, e il 1° marzo 1896 l’esercito italiano subì un’umiliante sconfitta nella battaglia di Adua. ¹ Il che pose fine alle iniziative italiane nella regione. Mussolini vi avrebbe insufflato nuova vita nel 1935. Ciò andò a supporto della scarsa opinione che molti politici italiani, su tutti Giovanni Giolitti, premier nel periodo prebellico, avevano delle capacità militari del Paese. L’esercito gli aveva permesso di conquistare la Libia nella guerra italo-turca, ma si trattò di una vittoria solo parziale: le truppe di terra subirono gravi perdite, i turchi arretrarono dal conflitto solo quando furono costretti ad affrontarne un altro nei Balcani, e da quel momento in poi Istanbul portò avanti incessanti operazioni di guerriglia in Libia che durarono per tutta la successiva guerra mondiale – durante le quali gli italiani riuscirono a difendere solo quattro approdi costieri. In entrambe le guerre coloniali le armate italiane usarono metodi brutali contro le popolazioni locali.

    Se i governi a guida liberale in tempo di pace sembrarono lasciar parecchio a desiderare e il loro lascito consentiva ampi margini di miglioramento, lo stesso si può dire della prestazione dell’Italia durante la Prima guerra mondiale. L’entrata in guerra in una fase avanzata – al fianco dell’Intesa nel maggio 1915, dopo aver negoziato a lungo con entrambi i fronti – le valse un sentimento di disapprovazione internazionale che con il tempo non fece che peggiorare. La scelta contribuì inoltre ad accentuare le fratture preesistenti nella società, con gli interventisti e i conservatori di destra schierati da una parte, e i neutralisti di sinistra dall’altra insieme ai democratici (anche se, stranamente, i democratici diedero il proprio supporto all’intervento in appoggio al Belgio), mentre il Partito socialista si schierò da qualche parte nel mezzo, né a favore né contro il conflitto.

    Per tre anni l’esercito italiano e quello austro-ungarico si diedero battaglia tra le montagne e gli altopiani lungo i confini comuni. Era, come dichiarato da un puntuale osservatore britannico, «un ambiente estremo in cui combattere». Poi, il 24 ottobre 1917, l’Italia subì una sconfitta quasi catastrofica allorché le forze tedesche e austro-ungariche sbaragliarono l’esercito del maresciallo Cadorna a Caporetto, inseguendolo fino al fiume Piave. Lì, l’esercito riuscì a difendere il fronte – in attesa dei rinforzi anglo-francesi che stavano arrivando – dando inizio a un recupero e poi a un contrattacco che terminò nell’ottobre 1918, quando gli italiani sconfissero gli austro-ungarici nella battaglia di Vittorio Veneto.*

    La Prima guerra mondiale costò agli italiani 650.000 morti. Se da una parte il numero di vittime grossomodo coincise con quello della Gran Bretagna, che perse 750.000 soldati e combatté nove mesi in più (un calcolo alquanto macabro, di per sé non troppo significativo), dall’altra non valse all’Italia particolari riconoscimenti o lodi internazionali. Dopo la guerra, sia Georges Clemenceau sia David Lloyd George denigrarono le imprese militari italiane – il gallese dichiarò che al paragone dei suoi compatrioti, gli italiani «non avevano idea di cosa significasse combattere». ² Alla conferenza di pace di Parigi del 1919, le richieste territoriali italiane vennero considerate esagerate e ciniche, sebbene non tutte si potessero definire tali.

    In Italia, Mussolini criticò aspramente il governo dalle pagine del suo giornale, «Il Popolo d’Italia». Rilasciando solo dichiarazioni pubbliche «altisonanti e vaghe», ma senza riuscire a compensare il fardello pagato dalle città e dall’intero Paese in termini di sangue e finanze, il governo aveva fallito «moralmente e economicamente». Come l’Italia fosse riuscita a perdere la dodicesima battaglia d’Isonzo (cioè Caporetto) era una specie di mistero, ma in qualità di soldato di prima linea egli stesso, Mussolini non era di certo incline a incolpare i semplici fanti, nonostante Cadorna avesse parlato della «carente resistenza di alcuni reparti». Il futuro, dichiarò Mussolini, non sarebbe stato più nelle mani delle vecchie élite, civili o militari che fossero, ma della «trincerocrazia», che una volta giunta la pace avrebbe unito classi e nazione. ³

    La Prima guerra mondiale avrebbe avuto conseguenze drammatiche per la politica italiana. Non meno importanti, anche se all’epoca meno evidenti, erano state le lezioni in termini strategici di quel conflitto. Prima della guerra, soldati e politici concordavano sul fatto che l’Italia fosse vulnerabile dal punto di vista strategico: la sua lunga linea costiera e le isole erano esposte agli attacchi, e le montagne lungo cui correvano i suoi confini settentrionali si prestavano a ogni sorta di penetrazione. Con due delle principali potenze navali del Mediterraneo (Gran Bretagna e Francia) al suo fianco, le criticità italiane davanti alla flotta militare nemica non emersero mai significativamente. Nel corso del conflitto l’Italia affrontò solo minacce minori nelle sue acque da parte delle unità austro-ungariche e tedesche a Pola e Trieste, e verso il termine della guerra ricevette un sostegno non indifferente con vascelli britannici, americani, australiani e giapponesi, e una gran quantità di reti e mine per controllare l’imbuto dell’Adriatico. Dunque, senza battaglie navali significative da combattere, l’incombenza principale della marina italiana era quella di scortare i convogli e i suoi alleati dell’Intesa da una parte all’altra del Mediterraneo. Carbone, cibo e armi inviati dagli alleati occidentali, non ultimi gli Stati Uniti, transitavano nelle arterie formate da corridoi d’acqua ben difesi. Ma l’Italia non avrebbe goduto di un simile sostegno se Mussolini l’avesse riportata in guerra.

    Paragonato al conflitto combattuto dalle potenze che nel 1940-1941 sarebbero divenute sue nemiche, la guerra campale che gli italiani affrontarono tra il 1915 e il 1918 risulta caratterizzata da condizioni e circostanze del tutto particolari che non si sarebbero più ripetute. Il teatro bellico era più ristretto e le parti coinvolte meno numerose, anche se gli scontri furono altrettanto sanguinosi. Con la Francia dalla sua parte e la Svizzera neutrale, il fronte era relativamente contenuto e ben definito. Certo, vi furono teatri secondari – alcune unità italiane combatterono in Grecia e furono presenti, per quanto in minima parte, al fianco del generale Edmund Allenby in Palestina – ma in termini strategici fu sostanzialmente una guerra combattuta in un singolo teatro. E di posizione. Per la gran parte del tempo le armate italiane furono bloccate sulle montagne. Lì combatterono i propri nemici a distanza ravvicinata, affidandosi ad assalti di fanteria coperti dai proiettili dell’artiglieria (che sempre scarseggiavano). Non vi fu alcuna battaglia meccanizzata, e non si può assolutamente parlare di guerra di movimento. Né le armate italiane avevano esperienza nel combattere al fianco di alleati: dopo Caporetto furono concesse all’Italia otto divisioni britanniche e francesi, cinque delle quali però furono ritirate nel marzo del 1918 quando i tedeschi lanciarono la loro offensiva. Dunque, gran parte delle lezioni che all’epoca gli eserciti britannico, francese e tedesco appresero direttamente uno dopo l’altro, l’Italia dovette scoprirle di riflesso.

    Durante il fascismo, le tre forze armate furono costrette a riorganizzarsi per affrontare una guerra più moderna. Ma esattamente che tipo di guerra e in quali circostanze sarebbe stata combattuta dipendeva da come il duce avrebbe interpretato la situazione internazionale; in questo caso un evidente elemento di continuità con il passato. Ci si aspettava che tutti i reparti fossero pronti a sopportare qualsiasi tipo di fardello. Tutti sarebbero stati sotto pressione, certo, ma in particolare era l’esercito a ritrovarsi sotto la luce dei riflettori. Mussolini voleva che i suoi soldati si scrollassero di dosso un’eredità di fallimento e vittorie parziali che risaliva ai tempi di Caporetto e Adua, e ancora prima alle battaglie del Risorgimento e a conflitti ancora precedenti, in modo da dimostrare errata la vecchia calunnia secondo cui italiani sunt imbelles (gli italiani non sanno combattere).

    Partecipare a un’altra guerra tanto estesa, prima europea e poi globale, avrebbe richiesto la comprensione, la valutazione e infine la padronanza di complesse sfide strategiche. La neutralità era una di queste sfide: nella Prima guerra mondiale aveva semplificato molto le cose per l’Italia, mentre ora da una parte del Mediterraneo c’era una Spagna neutrale, dall’altra una altrettanto neutrale Turchia. Mussolini non avrebbe potuto agire in alcun modo, poiché in un primo momento le due nazioni avrebbero fatto da cuscinetto, e in seguito avrebbero giocato un ruolo a favore degli Alleati. Un’altra difficoltà era rappresentata dalla guerra di posizione. Se l’Italia voleva uscirne vincitrice, l’esercito, la marina e l’aeronautica dovevano vincere le proprie campagne, ma per farlo dovevano trovarsi nelle battaglie giuste e combatterle (se possibile) nel momento giusto e nel teatro giusto. Nel 1940 lo scacchiere strategico non era ancora tanto complesso quanto lo sarebbe divenuto l’anno successivo. I fronti di ogni guerra nascondono alcune opportunità perdute, e saranno i lettori a giudicare autonomamente quanto costò l’ostinato rifiuto di Mussolini ad accettare l’aiuto tedesco in Nord Africa nell’autunno e nell’inverno del 1940-1941 – mentre la Wehrmacht era già impegnata in altre campagne. C’è poi l’elemento dell’assegnazione delle risorse. La suddivisione di uomini, armi, aerei e navi per rispondere alle esigenze sempre più pressanti in scenari bellici man mano diversi si sarebbe dimostrata un onere tremendamente impegnativo per un Paese che, in fin dei conti, era ancora l’ultima delle grandi potenze. I capi militari di Mussolini investirono sempre più tempo ed energie su un problema che tuttavia furono incapaci di risolvere.

    La Seconda guerra mondiale rappresentò un banco di prova per tutte le nazioni coinvolte. L’Italia fascista, che aveva diciott’anni di storia alle spalle quando si ritrovò ad affrontare tale prova nel 1940, non fece eccezione. Come risposero il condottiero Mussolini e le forze armate che lo servirono alle sfide che dovettero fronteggiare tra il 1940 e il 1943? Il bilancio nella storia che segue.

    * La battaglia di Caporetto è entrata a far parte del lessico comune italiano: quando le Ferrari vennero battute nel Grand Prix in Giappone, i quotidiani sportivi italiani parlarono di una Singaporetto.

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    In marcia

    Per l’Italia gli anni del primo dopoguerra furono difficili. Il disarmo avvenne lentamente: alla fine del 1919 l’esercito contava ancora mezzo milione di uomini, e il processo si concluse solo nel 1921. Si manifestarono crescenti disordini interni quando i lavoratori italiani si unirono a uno sciopero generale internazionale nel giugno 1919, e iniziarono due anni di violenti conflitti entro i confini nazionali. A coloro che avevano indossato o ancora indossavano un’uniforme, gli accordi di pace e la vittoria mutilata che i politici avevano riportato da Versailles confermavano la sensazione che tutte le battaglie fossero state vane. «Niente marcia su Vienna», mugugnò nel luglio 1919 un disilluso capitano degli arditi, «nessuna affermazione di vittoria, niente colonie, niente Fiume, nessuna indennità, niente di merito». ¹ Gli aspetti economici colpirono brutalmente l’esercito. Tutte le promozioni vennero sospese per cinque anni, diverse migliaia di ufficiali subalterni vennero congedati e la paga degli altri venne tagliata. La rassicurazione di Benito Mussolini secondo cui gli ufficiali avrebbero ricevuto un salario decente, fatta circa sei mesi prima della marcia su Roma che lo portò al potere nell’ottobre del 1922, fu dunque accolta più che positivamente. Alcuni degli obiettivi del fascismo collimavano con le aspirazioni dei soldati, perciò l’esercito collaborò senza problemi con le camicie nere fasciste nel riportare l’ordine in seguito all’occupazione delle fabbriche e all’ondata di scioperi civili del 1920. Senza contare che il programma espansionista fascista era assolutamente gradito ai militari. Al confronto, il Partito fascista dei primi tempi sembrava fin troppo repubblicano. Nell’agosto del 1922 un gruppo di ufficiali rimproverò il partito di non essersi ribellato alla Corona, ricevendo però in risposta solo parole ambigue.

    Per sei anni, tra il 1919 e il 1925, mentre Mussolini saliva al potere e consolidava il suo controllo radicalizzando il fascismo, i generali dibatterono tra loro e con i politici su aspetti come il numero di uomini che ogni anno avrebbero dovuto rispondere alla leva obbligatoria, per quanto tempo essi avrebbero dovuto prestare servizio e le proporzioni dell’esercito a venire. Infine, nell’aprile del 1925, Mussolini assunse personalmente il controllo del ministero della Guerra (che mantenne fino al settembre del 1929) risolvendo così la questione una volta per tutte. Una forza di 250.000 uomini, composta soprattutto da coscritti, avrebbe servito per diciotto mesi, formando trenta divisioni triangolari, ognuna composta da nove battaglioni. I numeri potevano variare per riequilibrare le forze nel corso dell’anno, in modo da rimanere nei limiti del bilancio. La misura fu sancita con una serie di sette leggi pensate per creare le istituzioni e le figure che avrebbero plasmato le difese nazionali in tempo di pace e di guerra. Tra queste una Commissione suprema di difesa, per determinare in tempo di pace quello di cui l’esercito avrebbe avuto bisogno durante la guerra, e il nuovo ruolo di capo di stato maggiore delle forze armate, il cui responsabile sarebbe stato «il consulente tecnico del capo del governo per quanto concerneva la coordinazione dell’assetto difensivo dello Stato e dei progetti per eventuali operazioni di guerra». La nuova carica venne affidata al generale Pietro Badoglio, soldato di professione piemontese con alle spalle una solida carriera militare, sebbene non priva di macchia (alcuni lo ritenevano responsabile della disfatta di Caporetto del 24 ottobre 1917). La sua nomina rassicurò il re, l’esercito e non dispiacque nemmeno al popolo. Per due anni Badoglio ricoprì il nuovo incarico insieme a quello di capo di stato maggiore dell’esercito. In seguito Mussolini divise le due cariche indebolendo i poteri di Badoglio. ²

    Durante la seconda metà degli anni Venti, i soldati si ritrovarono in un esercito che assomigliava molto a quello che aveva affrontato la guerra nel 1915. I mortai Stokes, le granate da fucile, i lanciafiamme e le armi semiautomatiche che avevano dato alle piccole unità la potenza di fuoco necessaria nel 1918 vennero scartati, e l’esercito tornò alle vecchie aziende produttrici di armi. L’artiglieria rimase terribilmente indietro: negli anni Trenta le armi prebelliche vennero «migliorate» allungando le canne e dotandole di munizioni più efficaci. Alcune delle armi da fuoco più performanti in mano all’esercito erano gli Skoda da 75mm e gli obici da 100mm sottratti agli austriaci. Nel corso del decennio le autorità misero sempre più l’accento sull’addestramento fisico, e le tattiche che guidavano l’esercito in guerra iniziarono ad assumere un distinto profilo da

    XIX

    secolo. Le disposizioni per i combattimenti prevedevano offensive in cui una serie di barricate d’artiglieria avrebbero spianato la strada ai battaglioni di fanteria affinché questi potessero sferrare il proprio attacco, e dichiaravano apertamente che la base di qualsiasi manovra sul campo di battaglia fosse il principio della massa. Riconoscevano l’importanza delle operazioni di supporto aria-terra nell’ambito delle ricognizioni e degli assalti strategici, ma dicevano ben poco dei mezzi blindati, soprattutto perché ogni elemento era fatto su misura per la guerra di montagna, nell’ipotesi che un nuovo conflitto avrebbe avuto le caratteristiche del precedente, con Germania e Austria come nemici più probabili. Nel 1930 le normative resero la tecnologia una questione di second’ordine, dichiarando che la guerra era sostanzialmente una «lotta dello spirito e della volontà». Fu su questi aspetti che la nuova generazione di generali fascistizzati si formò a partire dagli anni Trenta. ³

    Nel 1921 il governo liberale decise che l’Italia sarebbe dovuta tornare in possesso della Libia, sottrattale dai turchi nel conflitto del 1911-1912 e persa per la maggior parte durante la guerra mondiale. La riconquista ebbe inizio l’anno successivo. Innanzitutto, l’esercito iniziò a espandere la propria influenza lungo le coste della Tripolitania e a penetrare verso l’entroterra, usando contingenti coordinati di battaglioni eritrei e coscritti locali e infliggendo gravi perdite ai ribelli. Fu allora che il colonnello – in seguito maresciallo – Rodolfo Graziani iniziò a farsi un nome come leader esperto di queste forze leggere e mobili. Prima della fine del 1925, Graziani e i suoi avevano riconquistato le regioni settentrionali della Tripolitania, uccidendo circa 6500 arabi al prezzo di 2582 italiani, tra morti, feriti e dispersi. In Cirenaica, il generale Ernesto Mombelli attraversò il territorio sfruttando colonne coordinate da comunicazioni senza filo e supportate via aria per inseguire i membri della tribù senussita guidati da Omar el-Mukhtar, distruggendo accampamenti e tende, sequestrando pecore e cammelli e uccidendo 400 ribelli al costo di 6 morti e 25 feriti.

    Nel luglio del 1925 Mussolini decise che era arrivato il momento che un uomo nuovo assumesse il controllo, così nominò il cinquantanovenne generale Emilio De Bono governatore della Libia. Mentre Graziani si spingeva sempre più verso l’entroterra tripolitano, sfruttando i nomadi delle tribù locali e stringendo legami con i capitribù del posto, De Bono condannò a morte i ribelli senza farsi troppi scrupoli, approvando almeno in quattro occasioni l’utilizzo di fosgene. Grazie in parte all’efficace uso delle forze aeree nel completare ricognizioni strategiche ad ampio raggio, nel trasporto di truppe e materiali e nel coordinamento degli spostamenti delle colonne, l’inseguimento e l’uccisione delle bande ribelli diedero i risultati sperati. Graziani brillò particolarmente in quest’ambito. Tuttavia, bonificare e assumere il controllo del vasto entroterra desertico era tutt’altra questione. Inoltre, sottomettere i Senussi richiedeva un livello di metodo e disciplina ben più elevato di quello che De Bono era in grado di offrire, motivo per cui nel dicembre del 1928 Mussolini lo sostituì con Badoglio.

    Nel corso dei tre anni successivi Badoglio e Graziani si misero di buona lena per distruggere l’intero ordine socio-politico libico, confiscando le proprietà dei Senussi, disarmando le tribù che accettavano di sottomettersi e portando a termine una serie di processi pubblici ed esecuzioni di piazza. Per dividere i Senussi armati in Cirenaica dalle tribù che più o meno direttamente li sostenevano, eressero recinzioni di filo spinato lungo la fascia costiera, ed entro la fine del 1930 vi confinarono 80.000 membri di tribù locali. I campi di internamento contribuirono sostanziosamente alla conta finale dei morti in Cirenaica, che probabilmente ammontò a un numero compreso tra i 50.000 e i 60.000. ⁴ Su suggerimento di Graziani, venne eretta una barriera di filo spinato lunga 270 chilometri lungo il confine egiziano. Bloccato all’interno e inseguito incessantemente, Omar el-Mukhtar venne infine catturato l’11 settembre del 1931 e impiccato cinque giorni dopo davanti a una folla di 20.000 arabi. Il 24 gennaio 1932 Badoglio annunciò che la ribellione in Cirenaica era stata sedata. Roma ne usciva vincitrice. Per la prima volta da quasi due decenni, la Libia era interamente in mani italiane, le forze armate fasciste avevano vinto la loro prima campagna, Badoglio aveva ridato lustro alle sue credenziali di comandante militare dell’Italia fascista e la nuova Italia aveva dimostrato a sé stessa di essere efficiente, efficace e spietata con i suoi nemici, esattamente quel che Mussolini voleva mostrare al mondo.

    La guerra in Abissinia

    La strada verso la prima importante guerra di Mussolini venne spianata nel luglio del 1925, quando il suo ministro delle Colonie, Pietro Lanza di Scalea, propose di rafforzare le colonie italiane di Eritrea e Somalia e di interrompere qualsiasi trasferimento di forze a Addis Abeba e ai ras abissini (i capitribù). Con l’obiettivo dell’espansione e della conquista in mente, il duce era pronto a mettere in moto l’Italia fascista. Presto o tardi l’impero etiopico rischiava di collassare, e l’Italia si sarebbe dovuta preparare sia dal punto di vista militare che diplomatico, collaborare quanto più possibile con gli inglesi e intanto «cloroformizzare il mondo ufficiale abissino». ⁵ In un primo momento le cose procedettero lentamente. Nel giugno del 1926 Mussolini concesse a Badoglio di inviare un rappresentante per valutare le condizioni militari dell’Eritrea, in vista un possibile conflitto futuro. Il generale Giuseppe Malladra comunicò debitamente a Roma quel che il duce voleva sentirsi dire, ossia che la pace era precaria e che la guerra con un’Abissinia belligerante sarebbe potuta scoppiare da un momento all’altro.*

    Per essere in grado di difendersi, la colonia avrebbe avuto bisogno di 160.000 soldati bianchi oltre ai 30-40.000 eritrei a disposizione. Badoglio stimò che 40-50.000 soldati italiani e una importante copertura aerea sarebbero stati sufficienti. Per il momento, però, la politica italiana era ancora concentrata a cloroformizzare gli abissini. Alcuni rappresentanti locali negoziarono un trattato di amicizia e buona vicinanza, così il 2 agosto del 1928 venne firmato un accordo per la costruzione di strade. Quando due mesi dopo il ras Tafari divenne imperatore, le relazioni si inasprirono, soprattutto riguardo al contratto per la costruzione stradale e il rifiuto di Roma di cedere alla richiesta di aerei da parte del nuovo imperatore. Sul posto un nuovo governatore d’Eritrea, Corrado Zoli, attaccò le deboli politiche del suo predecessore. Si fecero anche tentativi poco convinti di trovare un accordo con la Francia, ma vennero subito abbandonati quando gli italiani capirono che per loro non vi sarebbe stato alcun vantaggio.

    Molte delle figure responsabili dell’elaborazione delle politiche estere non aspettavano altro che l’Italia si impegnasse a conquistare un’altra colonia africana. Nell’aprile del 1930 Dino Grandi, ministro degli Affari esteri, disse al Gran consiglio del fascismo che un’Italia forte non si sarebbe potuta aggrappare per sempre al margine esterno dell’altopiano eritreo, né rimanere bloccata negli spazi ristretti della Somalia italiana. La nazione aveva una missione di civilizzazione da portare avanti nel continente nero, e l’attuale generazione aveva un problema da risolvere: «il problema coloniale». ⁶ Il diplomatico Raffaele Guariglia credeva che il destino dell’Italia fosse quello di diventare una delle principali potenze coloniali d’Africa, e la stessa convinzione nutriva Alessandro Lessona del ministero delle Colonie. Come dimostrava la storia delle colonizzazioni, «nulla di grande si fa nel mondo senza imbrattarsi le mani di sangue». Una guerra si sarebbe dimostrata più semplice allora per l’Italia di quanto non lo fosse stata in passato. L’Abissinia aveva molte armi da fuoco, anche se non moderne, i suoi territori erano adatti a una guerra difensiva e i suoi soldati particolarmente adeguati a combatterla, ma la moderna tecnologia militare europea e nello specifico le forze aeree avrebbero rappresentato il vero asso nella manica dell’Italia. Era giunto il momento di prendere in considerazione «tutta questa complessa situazione gravida di pericoli, sì, ma gravida anche di possibilità reali per il nostro Paese». In ogni caso, l’Italia non poteva agire da sola. Considerata la situazione politica e militare dell’epoca, Guariglia credeva che alcuni accordi preventivi con Francia e Gran Bretagna sarebbero stati «indispensabili». ⁷

    Nel 1932 Mussolini dichiarò che l’Etiopia sarebbe stata il suo prossimo obiettivo. Il primo passo fu quello di inviare il suo generale preferito a sondare il terreno. Emilio De Bono tornò comunicando che il negus (l’imperatore Haile Selassie) stava consolidando il suo potere e che in futuro avrebbe di certo imbracciato le armi contro l’Italia. Dunque, prima o poi l’Italia si sarebbe dovuta preparare a una guerra preventiva. Per il momento, però, l’intervento armato era da escludersi. ⁸ Ad agosto l’esercito si confrontò con De Bono circa la nomina di un comandante designato ad avviare la pianificazione delle operazioni. Il generale andò dritto da Mussolini, che gli affidò immediatamente l’incarico. De Bono pianificò di conquistare l’Abissinia settentrionale con 35.000 soldati bianchi, 50.000 ascari eritrei e 100 aeromobili – e solo un mese di preparazione. Rifugiatosi a Tripoli, da dove stava progettando la brutale soppressione delle tribù locali, Badoglio era lieto di vedere che qualcuno si stesse finalmente occupando di «questo importantissimo problema». ⁹ Ma lo stesso non poteva dirsi dello stato maggiore dell’esercito. Il suo capo, il generale Alberto Bonzani, abbozzò un piano generico che proponeva di avanzare con due forze distinte verso l’altopiano, combattere il nemico non appena si fosse mobilitato e sconfiggerlo dopo avergli concesso di stringersi attorno alle forze italiane; infine, a seguito della vittoria in battaglia, l’esercito avrebbe inseguito i nemici sopravvissuti nell’entroterra. Subito dopo aver espresso «vivida soddisfazione» per De Bono, Badoglio ideò un piano tutto suo: rimanere sulla difensiva, attendere finché il nemico non si fosse radunato, colpire con le forze aeree e proseguire l’attacco con una controffensiva che lo distruggesse «definitivamente». I suoi suggerimenti diretti a un comandante designato erano chiaramente mirati ad allontanare De Bono.

    Il 1° gennaio 1934 Badoglio tornò a Roma. Nei tre mesi successivi i vertici lottarono per assumere il controllo sul processo di pianificazione della prima guerra di Mussolini. Badoglio riteneva che gli accordi con Londra e Parigi fossero le fondamenta diplomatiche essenziali per procedere con le operazioni, senza le quali esisteva il rischio che Gran Bretagna e Francia decidessero di armare gli abissini. Anche lo stato maggiore dell’esercito voleva che l’impresa si collocasse in uno scenario più ampio in cui fosse chiaro se l’Italia sarebbe stata alleata della Francia o in guerra con essa. Mussolini voleva entrare in azione nel 1935. Nel caso in cui l’Europa avesse vissuto in pace negli anni seguenti, una postazione difensiva avrebbe potuto fungere da base per un’offensiva o una controffensiva; in alternativa, una situazione europea in peggioramento non avrebbe permesso all’Italia di schierare le sue forze in Africa, e in tal caso la creazione di postazioni difensive «ci permetterà di spezzare qualsiasi conato degli Abissini». ¹⁰ Verso la fine di marzo, con i

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