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101 cose da fare a Parigi almeno una volta nella vita
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E-book433 pagine4 ore

101 cose da fare a Parigi almeno una volta nella vita

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Romantica, malinconica, poliedrica, colorata e in perenne cambiamento. Classica e tradizionale, innovativa e sorprendente, Parigi è una metropoli unica al mondo, da visitare assolutamente, almeno una volta nella vita. Questo libro vuole essere una guida per vivere la città come solo i suoi abitanti sanno fare, attraverso 101 percorsi insoliti e curiosi. Così, girando per la Ville lumière, potrete perdervi tra gli atelier degli artisti di Montmartre o riposarvi sulle sedie del Senato, mangiare ostriche nei mercati rionali e andare in spiaggia sulle rive della Senna. E ancora, fare un picnic quasi ogni giorno dell’anno o darvi un appuntamento galante in un cimitero, pedalare per le strade sulle bici del Comune e diventare esperti assaggiatori di formaggi e macarons. Scoprire infine gli imperdibili bistrot e gli eleganti caffè, i parchi e i giardini, i luoghi d’arte e alcuni tra i più bei musei d’Europa.

Crocevia di culture, punto di arrivo e di partenza, la capitale francese è un luogo dai mille volti, una città in cui non si può non ritornare, cercando ogni volta avventure nuove e straordinarie da vivere.

Sabina Ciminari

è nata a Roma, si è laureata in Letteratura italiana moderna e contemporanea alla Sapienza e ha cominciato a guardare oltralpe per motivi di studio: dottore di ricerca in Italia e in Francia, è approdata nella Ville lumière e non l’ha più lasciata. Vive fra Roma e Parigi, le città che considera più belle al mondo: quanto basta per farla sentire fortunata.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2011
ISBN9788854136847
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    101 cose da fare a Parigi almeno una volta nella vita - Sabina Ciminari

    93

    Prima edizione ebook: novembre 2011

    © 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3684-7

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Sabina Ciminari

    101 cose

    da fare a Parigi

    almeno una volta

    nella vita

    Illustrazioni di Giovanna Niro

    Newton Compton editori

    A Parigi, che mi ha salvata.

    A Maria e Giulio, che sono il mio orgoglio,

    e che continuano a salvarmi.

    Introduzione

    Si può ancora scrivere qualcosa su Parigi? Aggiungere pagine ai fiumi d’inchiostro che questa città ha ispirato da sempre e continua a ispirare? Di sicuro è uno dei luoghi che più compare in libri, film e canzoni. Eppure non smette di incantare, e di attrarre. Soprattutto noi italiani. Qual è il suo segreto? Abbiamo 101 possibilità di scoprirlo, in queste pagine, senza evitare i percorsi più battuti (ma affrontandoli con uno sguardo nuovo) e magari lanciandoci alla ricerca di modi alternativi per conoscere la splendida Ville lumière. Perché Parigi è una «città che è mille città in una», come scrisse Alba de Céspedes, autrice che scelse di trasferirvisi, come tanti, italiani e non, che da sempre gravitano intorno alla capitale francese e ne restano affascinati e magari decidono di rimanere in questa metropoli «che ti accoglie, ti celebra, ti abbandona e ti ignora, con la stessa premura; dove puoi esibirti o nasconderti, sparire, ad libitum, nella medesima rispettosa indifferenza». Perché Parigi concilia gli opposti, e fa contenti tutti. E poi, dove altro è possibile fare picnic su un ponte, riposare sulle sedie del Senato, aggirarsi fra Budda, pagode e passaggi in India, mangiare ostriche al mercato, vedere film di oggi e di ieri a ogni ora del giorno, fare un tuffo in piscina o visitare musei la sera? A Parigi c’è di tutto, e si può fare di tutto: è una «festa mobile», diceva Hemingway. Eppure non è più quella di una volta. Cos’è diventata? Lo capiremo insieme, seguendo le tracce di chi l’ha voluta raccontare. C’è il jazz, ma manca il rock; c’è il Giappone e non la Russia; c’è l’opera, eppure il teatro latita… Niente paura, però: se ci sono 101 città possibili, e ne mancano (almeno) altrettante è perché Parigi non finisce mai, e non smette mai di cambiare. Ciò nonostante, non abbiamo rinunciato a dare indicazioni anche precise e dettagliate di luoghi, eventi e atmosfere, perché – anche se rischiano di mutare nel tempo – ci danno comunque un’idea della forma che questa metropoli può avere, in momenti diversi, soprattutto se la si guarda senza idee preconcette. Parigi è cara? Parigi o cara, piuttosto, come dimostreranno queste pagine piene di consigli su musei, eventi e ristoranti per tutte le tasche. I suoi abitanti sono freddi? Proviamo a entrare in un vero bistrot, o a scoprirla d’estate. È una metropoli immensa? Evitiamo gli Champs-élysées e scegliamo piuttosto le strade del Quartiere Latino o della Butte-aux-Cailles. Ma a dire il vero, non c’è nulla qui che vada evitato, perché Parigi è tutte queste cose insieme: le prospettive vaste e gli angoli incantati, la confusione e la tranquillità, gli hôtels particuliers e il verde dei parchi, i locali trendy e quelli démodé. «Paris est un véritable océan», scrive Balzac: un vero oceano, è vero. Impossibile da dominare. Forse proprio per questo, nella Ville lumière si può essere tanto felici o tanto infelici: «Un disgraziato a Parigi è un disgraziato totale, perché trova ancora un po’ di gioia nella consapevolezza della sua miseria». La capitale francese – come tutte le metropoli, e magari ancora di più proprio a causa dei tanti mondi che racchiude – può essere frustrante, lo sa anche chi ci approda per pochi giorni e torna a casa con l’impressione di non aver visto niente. Questo libro, invece, ha l’ambizione di consigliare ben 101 cose da fare a Parigi almeno una volta nella vita, nella speranza che almeno una – fosse soltanto vedere la Tour Eiffel – venga fatta con un po’ di curiosità e con la disposizione d’animo per innamorarsi di questo straordinario luogo. Perché, come dice uno dei memorabili personaggi di Hemingway: «Solo gli scemi lasciano Parigi». Tutti gli altri ci ritornano, cercando ogni volta nuove, insolite cose da fare almeno una volta nella vita.

    1.

    Fermarsi alle facciate

    A volte limitarsi all’aspetto esteriore non è poi un’idea così sbagliata. A Parigi gli edifici d’interesse sono talmente tanti che molto spesso non si ha nemmeno il tempo di fermarsi o, più semplicemente, di entrare. Passeggiare per la Ville lumière limitandosi a guardare le facciate delle case, immaginare la vita che scorre, ad esempio, dietro ai loro bow window, può rivelarsi un buon (primo) approccio alla città, e in alcuni casi un’occasione per godere dell’arte en plein air. La Parigi che resta impressa è quella dei palazzi haussmanniani (dal nome del prefetto di Napoleone III che si occupò del più grande piano di ristrutturazione urbanistica cittadina), dalle proporzioni definite e le rigide regolamentazioni relative a balconi e decorazioni. I risultati sono ben visibili nelle omogenee ed eleganti arterie principali della capitale francese (il boulevard Haussmann, innanzitutto, ma anche la rue Soufflot che apre sul Panthéon), dove solitamente sono ammessi solo due colori: il bianco della pietra da taglio e il grigio dei tetti in ardesia.

    Tornando indietro nel tempo, possiamo arrivare fino alle vestigia della Parigi medievale. Non sono molte, eppure attirano l’attenzione: sono case di pietra, sormontate da travi su cui poggia un’intelaiatura in legno. È la tecnica à colombage o a graticcio. Se ne possono trovare esempi in particolare nelle zone più antiche della città, come il Mouffetard, il Marais e il Quartiere Latino. Proprio in quest’ultimo, in rue Saint-Julien le Pauvre, una casa medievale ospita la sede della Maison historique de la Vieille Chanson de France. È vicina a un’incantevole piazzetta, in cui si trovano il più vecchio albero di Parigi (risalente all’inizio del Seicento) e la chiesa Saint-Julien le Pauvre.

    Guardare le facciate alla ricerca di dettagli può riservare più di una sorpresa. Ogni tanto, infatti, si possono notare delle meridiane, e non a caso: questa è la città che ne annovera di più al mondo. Sono oltre cento, la più antica è del Cinquecento. La Société Astronomique de France ne include nel proprio repertorio anche di moderne, come quella orizzontale installata nel 1992 nel Jardin de Reuilly. Persino Dalì si cimentò in questo tipo di opera, realizzando nel 1968 un quadrante solare con le sembianze di un volto femminile: si può ancora ammirare al 27 di rue Saint-Jacques.

    Un altro viaggio nel tempo, ed eccoci in piena Art nouveau: le facciate dei palazzi, ma anche gli interni delle case e dei caffè. Alcuni arrondissements – in particolare il VII e il XVI – ne offrono un’eloquente testimonianza: le linee che si curvano, le colonne che prendono colore, i portoni in legno scolpito, lo squilibrio e la variazione dei motivi decorativi. Un esempio su tutti: l’edificio al numero 29 di avenue Rapp, del 1901, con cui Jules Lavirotte (che abitava lì vicino, al civico 3) si aggiudicò il concorso destinato a premiare la più bella facciata tra i palazzi parigini. La casa era quella del ceramista Alexandre Bigot. Vi si entra poggiando la mano su un rettile, che altro non è se non la maniglia in ferro del bel portone.

    Tuttavia, gli elementi che più ravvivano gli esterni degli edifici cittadini sono probabilmente le statue ornamentali, dai soggetti più vari. Si possono incontrare mascheroni che fanno la linguaccia (5, rue Joseph Bara) o cariatidi che, sorreggendo imponenti frontoni, sembrano indicare l’entrata in un tempio, come all’ingresso del Conservatoire National des Art et Métiers. Ma non sono solo i palazzi pubblici a poter vantare simili decorazioni. Architetti, scultori e statuari hanno lavorato a lungo in dimore private o nelle sedi di attività commerciali. Rue Réaumur, costruita fra il 1897 e il 1905 proprio per accogliere edifici industriali, è un esempio di tale tendenza. Quattro Atlanti – la testa piegata dallo sforzo – sorreggono un balcone nel palazzo a rue de Charenton 199-201: ognuno tiene in mano uno strumento che simboleggia un mestiere. Al 51 di rue de Miromesnil, le allegorie dello scultore Pierre Granet rappresentano invece la Pace, la Forza e l’Abbondanza. Mentre un angelo, opera di un autore ignoto, svetta su oltre due piani per poter sorreggere con le sue ali l’ultimo balcone di un palazzo noto proprio come la casa del genio della rue de Turbigo.

    Oltre alle figure mitologiche, sulle facciate troviamo anche dei ritratti: al 2 di rue Alexandre Dumas, è inevitabile il busto dedicato allo scrittore che ha dato il nome alla via. Un volto accigliato, in contrasto con i due putti che lo sovrastano, è quello di Beethoven, in un frontone del numero 10 di rue Chaptal, nell’antica sede della SACEM (Société des Auteurs, Compositeurs et Editeurs de musique, la siae francese). E anche altrove, busti, medaglioni, sculture fanno la loro comparsa per le strade cittadine.

    Ma sono le numerosissime targhe poste sulle facciate, vicine ai portoni d’ingresso, a ricordare la presenza, la nascita e la morte di persone celebri. Tracce di passaggi che, se messe tutte insieme, ci permetterebbero di farci un’idea dell’attrazione che da sempre Parigi esercita su uomini di scienza e intellettuali. E se la Ville lumière non riesce ad accogliere ufficialmente tutti gli artisti (o sedicenti tali) che vorrebbero avere un posto di primaria importanza nella città, alcuni di essi trovano comunque il modo di prendersi da soli il proprio spazio. In rue de Rivoli, infatti, si trova una delle facciate più famose della capitale: uno squat di artisti, il 59rivoli, è diventato la sede ufficiale di una trentina di atelier aperti al pubblico. L’esterno di questa struttura, dai balconi decorati, colorati e sempre cangianti, sembra simboleggiare il fatto che la fantasia, da queste parti, possa ancora essere un po’ al potere. Fra un qui visse e un da qui passò, insomma, Parigi ci offre un altro invito a non abbassare mai lo sguardo, e a tenere sempre d’occhio le sue splendide facciate.

    2.

    Guardare il Trocadéro

    da un’altra prospettiva

    Esiste davvero un modo alternativo per guardare il Trocadéro, senza dover fare lo slalom tra le centinaia di riproduzioni della Tour Eiffel in vendita per i turisti? Contemplare uno dei più famosi panorami del mondo, in solitudine e circondati dal più totale silenzio, può essere uno dei modi migliori per immaginarsi com’era il Trocadéro… prima che venisse trasformato nel Palais de Chaillot.

    Le due ali del palazzo che attualmente dominano il Parvis des Libertés et des Droits de l’Homme, circondato da statue in bronzo dorato, risalgono al 1937, anno dell’Esposizione universale che cambiò la fisionomia di quest’area. Il Palais de Chaillot, infatti, è stato giustamente definito: «L’ultimo manifesto monumentale della Terza Repubblica». Al suo interno ospita ben tre musei: il musée national de la Marine, il musée de l’Homme, e la più recente Cité de l’Architecture et du Patrimoine. Oltre al Théâtre National de Chaillot, consacrato alla danza. Scendendo dalla collina, poi, i giardini del Trocadéro ci riservano altre sorprese: vi si trovano 15.000 pesci. E non nella fontana che è al centro dei dieci ettari di giardino, ma nell’acquario Cinéaqua.

    Il Trocadéro è, quindi, molto di più di un punto di osservazione. Ce lo ricordano le parole di Paul Valéry, incise sui frontoni: «Dipende da colui che passa / che io sia tomba o tesoro / che io parli o che taccia / non spetta che a te / non entrare senza desiderio». Tutto dipende da noi, quindi, dalle nostre attese. E se la nostra aspettativa non fosse quella di entrare, ma di restare fuori?

    In questo caso, troveremmo un punto di osservazione particolare sempre dall’alto della piazza del Trocadéro, ma entrando nel limitrofo cimitero di Passy, la cui presenza ci ricorda la storia di un villaggio che finì per essere inglobato dalla città: fu annesso nel 1860, insieme ad alcuni paesi circostanti, come Auteuil. Il suo camposanto, degli inizi del XIX secolo, si ritrovò quindi dentro la struttura urbana, e anzi in una posizione privilegiata come quella della collina di Chaillot. Altra caratteristica: per le sue proporzioni (17.000 metri quadri) è il cimitero di Parigi con la maggiore concentrazione di personaggi celebri, fatto in parte dovuto al prestigio del quartiere. Vi si contano 130 personalità, numerosi gli uomini politici (fra cui Georges Mandel, resistente ucciso dai tedeschi nel 1944, ed Edgar Faure, più volte ministro e presidente dell’Assemblée Nationale negli anni Settanta), pionieri dell’aviazione come Dieudonné Costes e Henri Farman, attori come Fernandel, artisti come Édouard Manet e Berthe Morisot, mecenati come i Cognac-Jay (fondatori delle Samaritaine, un tempo uno dei più bei grands magasins della capitale) e i Marmottan (cui si deve l’omonimo museo, oggi dedicato agli impressionisti). Notevole la cappella della giovane Marie Bashkirtseff, artista e scrittrice nata in Ucraina da una famiglia di origine aristocratica, «genio precoce», come la definiva Maurice Barrès, vissuta nella metà dell’Ottocento. Sua una delle più belle dichiarazioni d’amore alla Ville lumière: «La vita, è Parigi! Parigi, è la vita!». La guglia del suo mausoleo russo si intravede anche dall’esterno, spicca dal muro di cinta del cimitero e attira l’attenzione dei passanti.

    Basterà quindi superare l’imponente cancello d’ingresso di Passy, per ritrovarsi a contemplare la Tour Eiffel e il palais de Chaillot lontano da tutti.

    3.

    Evitare il métro e scoprire

    un mondo

    Se si hanno a disposizione pochi giorni per visitare la città, si può rischiare di passare buona parte del tempo sottoterra; e solo dopo aver familiarizzato con la mappa della metropolitana, con le sue 14 linee e i quattro RER, e con i treni regionali che attraversano la città (per proseguire verso l’hinterland). Così spesso si rischia, data la copertura capillare che la rete metropolitana assicura, di non rendersi conto che talvolta tra una fermata di una linea e un’altra, invece di fare un cambio basterebbe uscire all’aria aperta e percorrere poche centinaia di metri per raggiungere la nostra meta. Un’alternativa valida al métro, se non si ha troppa fretta, può essere il bus. A Parigi non solo ci sono molte corsie preferenziali che rendono veloce il transito dei mezzi pubblici, ma i bus ci offrono un’esperienza che la metropolitana non ci regalerà mai: mostrarci senza intermediazioni il vero volto della città. Se ne sono resi conto anche gli agenti della RATP (la società che gestisce il trasporto pubblico), che di recente hanno stretto un accordo con il Pavillon de l’Arsenal, un Centro di informazione, documentazione e mostre sull’urbanistica e l’architettura di Parigi situato sul boulevard Morland, nel IV arrondissement: si tratta di un padiglione aperto al pubblico, dove si può entrare per approfittare del bar à journaux, ossia sfogliare – magari sorseggiando un caffè – i quotidiani francesi e stranieri messi a disposizione degli avventori (compreso il nostro «Corriere della Sera»). Il principio dell’accordo è quello di valorizzare i percorsi dei bus, in primis, ma anche di altri mezzi di superficie come il tram e la linea 6 della metro, che effettua gran parte del suo percorso su un viadotto sopraelevato. Non ci sono, infatti, solo i bus turistici come l’OpenTour, che permettono di visitare la città, ma anche il trasporto pubblico. Si può prendere, ad esempio, la linea 96, armati della mappa Archi-Bus messa gratuitamente a disposizione della RATP (ma basterebbe anche una qualsiasi buona guida, e un po’ di senso dell’orientamento) per muoversi alla scoperta dell’architettura della capitale. In un viaggio nel tempo, pieno di andate e di ritorni, si parte dal tanto bistrattato grattacielo Tour Montparnasse (1973), si attraversa l’Île de la Cité, lasciandosi alle spalle il palazzo di Giustizia e la Sainte-Chapelle (consacrata nel 1248). Si passa poi per il Marais per ritrovarsi davanti al Cirque d’hiver del 1885 (110, rue Amelot), poi si percorre rue Oberkampf fino a Belleville, osservando dal finestrino la città cambiare sulla rue Ménilmontant: (almeno) un paio di paesaggi diversi si presentano allo sguardo di chi, dopo essere passato per il cuore storico della capitale, approda all’arrondissement che è entrato a far parte di Parigi solo nel 1860. Et voilà, ci si è fatti un’idea dei suoi tanti volti da scoprire, al prezzo di una corsa. L’esperienza è ripetibile su ogni linea, ma alcune più di altre ci offrono un percorso particolarmente pittoresco. La linea 29, ad esempio, permette di partire dalla gare Saint-Lazare, la prima stazione di Parigi, costruita nel 1837; si passa davanti ai begli orologi in bronzo realizzati da Arman, che dal 1985 si trovano sulla cour du Havre (l’opera si chiama l’Heure de tous, non lontana dalle sue valigie intitolate La Consigne à la vie). A seguire, il bell’edificio dei grandi magazzini Printemps, l’Opéra e il Café de la Paix cantato da Franco Battiato, poi la Borsa, place des Victoires. E ancora la rue des Francs-Bourgeois, arteria del Marais, poi place des Vosges fino a place de la Bastille, dove il Genio della Libertà svetta dall’alto della Colonna di Luglio. E giù fino a un’altra stazione e a un altro orologio, quello della gare de Lyon, poi la bella facciata del XII Municipio fino al capolinea, alla porte de Montempoivre. Fra aprile e settembre, infine, è attivo il Balabus: un mezzo che attraversa, praticamente, la città come fa la linea 1 dalla Défense alla gare de Lyon. Con un biglietto giornaliero si scende e si sale ogni volta che si vuole, se siamo attratti da un monumento, da un caffè, da un giardino. Sempre meglio che salire su quei bus rossi o gialli che rischiano di farci finire dritti dritti nel girone dei turisti. Dobbiamo ammettere che la metropolitana è comoda e veloce, ma Parigi si gusta meglio quando non si ha fretta.

    4.

    Esplorare i sotterranei

    bui della Ville lumière

    La Parigi sotterranea non è solo quella della metro. È anche la Parigi della necropoli più sorprendente che vi sia: due chilometri di ossa meticolosamente impilate nelle catacombe. Le avvertenze che si trovano nella brochure di accompagnamento alla visita, all’ingresso di place Denfert-Rochereau, sono quanto mai eloquenti: «Visita sconsigliata alle persone che soffrono di insufficienza cardiaca o respiratoria, alle persone sensibili e ai bambini». Non tranquillizzano, certo, le postazioni per le chiamate d’emergenza, all’inizio di un percorso al quale si accede a 20 metri sottoterra (e dopo 130 gradini). Per mezzo chilometro il visitatore attraversa tunnel ipogei: unica consolazione, l’indicazione del nome delle vie sotto le quali si sta camminando, o le sculture della galleria di Port-Mahon (salvo poi scoprire che sono opera di un tale Décuré, cavapietre morto durante una frana). La sensazione è quella di una città sotto la città, e non è un caso che questi tunnel, e la rete delle cave, siano stati particolarmente sfruttati durante rivoluzioni e guerre, oltre che da banditi in fuga.

    L’entrata all’ossario vero e proprio, dopo tanta attesa, sembrerebbe la fine di un viaggio sotterraneo, e invece è solo l’inizio. «Fermati! Questo è il regno della morte», si legge scritto a caratteri cubitali sull’architrave dell’ingresso, ed è solo la prima di una serie di sentenze che accompagneranno la visita. Altre citazioni di poeti e di scrittori si trovano su lastre di pietra, lungo gli umidi muri che separano i mucchi di ossa. «Ils furent ce que nous sommes / poussière, jouet du vent; / fragiles comme des hommes / faibles comme le néant», scandiscono i versi di Lamartine («furono ciò che siamo, polvere, in balia del vento; fragili come uomini deboli come il nulla»). «Furono» sei milioni circa di parigini (alcuni sono illustri vittime della ghigliottina, come Danton e Robespierre), qui stipati lungo quasi 800 metri di gallerie. I primi resti risalgono al 1786 quando, per motivi di salubrità, venne chiuso il cimitero più grande dell’epoca, quello degli Innocenti, che si trovava nel cuore stesso della città, a Les Halles. «Le catacombe – ricorda Corrado Augias nelle pagine de I segreti di Parigi – nacquero quando mutò la filosofia della morte che aveva resistito per secoli e la folla dei defunti, incombente e in continuo aumento, diventò insopportabile ai vivi», anche per il suo odore. Da allora e per cento anni, nelle antiche cave di calcare di Parigi furono riversate le ossa di tutti i cimiteri della capitale, per fare spazio ai lavori di urbanistica. Dapprima alla rinfusa, poi, dall’inizio del XIX secolo, le ossa e i teschi vennero impilati per creare delle facciate, dietro cui furono posti gli altri resti. Poche varianti scandiscono il percorso del visitatore di oggi: una coppa che fungeva da braciere; alcune lapidi in ricordo di due battaglie avvenute durante la Rivoluzione francese; una pietra tombale, l’unica, in onore di una esponente del gentil sesso, Françoise Géllain, «donna ammirevole» che passò la vita a cercare di far liberare tale Latude, da trent’anni in prigione. Quasi un flusso continuo, con pochi intervalli, a volte anche funzionali: un sarcofago, ad esempio, detto di Gilbert (dal nome di un giovane poeta morto nel 1780), serve più che altro a nascondere un’opera di rinforzo della struttura, alla quale è necessario portare un continuo lavoro di consolidamento. Numerose sono infatti le infiltrazioni, e la temperatura resta fissa intorno

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