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Le donne che cambiarono la seconda guerra mondiale
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Le donne che cambiarono la seconda guerra mondiale
E-book538 pagine7 ore

Le donne che cambiarono la seconda guerra mondiale

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Info su questo ebook

Dall'archivio segreto americano, una storia vera che diventerà presto una serie TV

Il progetto top secret che decise le sorti del conflitto

Al culmine della seconda guerra mondiale, la località di Oak Ridge, in Tennessee, contava una popolazione di 75.000 anime e consumava più energia di New York, eppure il resto del mondo non sapeva nemmeno che esistesse.
Chi erano gli abitanti di questa strana città-fantasma? E quali attività top secret vi si svolgevano? Migliaia di cittadini americani – incluse molte donne provenienti soprattutto dai paesini di campagna degli Stati del Sud – furono condotti qui per un esperimento riservatissimo del governo USA: lavorare l’uranio e il plutonio per la realizzazione della bomba atomica. Ma l’opinione pubblica non seppe nulla di questo progetto – e delle persone che vi presero parte – almeno fino a dopo il lancio della bomba a Hiroshima. Grazie allo straordinario lavoro di ricerca di Denise Kiernan, basato su interviste esclusive alle donne che vissero a Oak Ridge e su una documentazione desecretata solo di recente, oggi possiamo conoscere una pagina di storia rimasta finora oscura e inedita, tra le più interessanti e originali della seconda guerra mondiale.

Bestseller del New York Times
Tradotto in 6 paesi
Presto una serie TV

«Uno sguardo ravvicinato e significativo su uno degli esperimenti scientifici più importanti della storia. Piacerà al grande pubblico.»
Publishers Weekly

«Denise Kiernan ci racconta l’affascinante storia di donne normali che fecero qualcosa di straordinario.»
USA Today

«L’innovativa storia della città costruita tra le montagne del Tennessee per far parte del Progetto Manhattan durante la seconda guerra mondiale.»
Kirkus Reviews
Denise Kiernan
È autrice di diversi testi – dai saggi a una serie di libri per bambini – ha collaborato anche con varie testate, come «The New York Times», «The Wall Street Journal» e «The Village Voice», e ha lavorato anche come autrice e produttrice televisiva. Le donne che cambiarono la seconda guerra mondiale è stato un grande successo in America, a lungo in classifica sul «New York Times» e sul «Los Angeles Times». I diritti del volume sono stati acquistati dalla Sony che ne ha tratto la serie TV Manhattan.
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2015
ISBN9788854175617
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    Anteprima del libro

    Le donne che cambiarono la seconda guerra mondiale - Denise Kiernan

    e-saggistica.jpg

    287

    Titolo originale: The Girls of Atomic City

    Copyright © 2013 by Denise Kiernan

    First Touchstone hardcover edition march 2013

    All rights reserved

    All photos are by James Edward Westcott, courtesy of the National Archives,

    with the exception of: insert page 1, top left, courtesy of Celia Klemski;

    insert page 1, top right, courtesy of Colleen Black; insert page 1, bottom, courtesy

    of Jane Puckett; insert page 16, top left, courtesy of the author; insert page 16, top

    right, courtesy of the author; insert page 16, bottom, courtesy of Jack Parker.

    Map reproduced from Vincent C. Jones,

    Manhattan: The Army and the Atomic Bomb

    (US Government Printing Office, Washington, DC 1985).

    Traduzione dall’inglese di Gabriele Giorgi

    Prima edizione ebook: marzo 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7561-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it

    Denise Kiernan

    Le donne

    che cambiarono

    la seconda guerra

    mondiale

    Il progetto top secret

    che decise le sorti del conflitto

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    A Joe

    Introduzione

    Da molto tempo nelle profondità degli Appalachi meridionali sono sepolti segreti, coperti da strati di scisto e carbone, sotto le antiche colline delle Cumberlands e in agguato tra le ombre delle Smoky Mountains, al termine della dorsale che serpeggia giù per la costa est. Questa terra dei Cherokee fu teatro di trattati, colonizzazioni e concessioni territoriali. I nuovi arrivati traversarono il valico di Cumberland Gap, creandosi piccole fattorie e grandi vite, in una regione dove l’alternanza di crinali e vallate cullava le nuove comunità negli anfratti più reconditi della terra. Isolate. Indipendenti. Nascoste.

    Nel 1942, un nuovo segreto giunse in questa parte del mondo. La terra tremò con vigore e fece spazio a un’alleanza senza precedenti tra forze militari, industriali e scientifiche, forze che si unirono per creare l’arma più potente e controversa che l’umanità abbia mai conosciuto. Quest’arma liberava il potere presente nel principale elemento invisibile di tutti i tempi, scatenava l’energia dell’unità base della materia nota come atomo.

    Lo scrittore H.G. Wells avrebbe potuto definire imbrigliatori del sole le persone che calarono su questi crinali e valli. «E ora sappiamo che l’atomo, che una volta ritenevamo duro e impenetrabile, invisibile, definitivo e senza vita – senza vita – in realtà è un immenso serbatoio di energia…», scriveva nel suo libro del 1914, La liberazione del mondo, un titolo minore dell’autore della Guerra dei mondi, in cui descriveva come il potere del nucleo venisse imbrigliato: «E queste bombe atomiche che la scienza fece detonare sul mondo quella notte furono strane perfino per gli uomini che le usavano».

    Wells scriveva tutto questo molto prima che fosse scoperto il neutrone o addirittura la fissione, e la sua opera cominciò a rendere popolare l’espressione bombe atomiche prima ancora che quegli ordigni prendessero forma, al di là delle sue pagine. Ma anni addietro, la gente sulle montagne affermava che un altro Profeta giaceva a terra, sopraffatto da visioni di un Progetto che avrebbe portato a imbrigliare il sole tra le colline del Tennessee.

    Dicevano che un Profeta l’avesse predetto.

    La supervisione era affidata a un Generale.

    E a una squadra costituita dalle massime menti scientifiche del mondo era stato assegnato il compito di mettere assieme il tutto.

    Ciò nonostante, furono gli altri – i migliori e spesso invisibili – a trasformare in una realtà le visioni del Profeta, i piani del Generale e le teorie degli scienziati. Decine di migliaia di individui – alcuni ancora allo sbando a causa della Grande Depressione, altri nella morsa dell’ansia e della paura perché i loro cari combattevano in terra straniera nella guerra più devastante che chiunque di loro avesse mai conosciuto – lavoravano giorno e notte a questo progetto, i cui dettagli non venivano mai spiegati. Per i giovani avventurieri, uomini e donne, che si recavano a Oak Ridge, Tennessee, durante la seconda guerra mondiale, fare la propria parte significava vivere e lavorare in una città segreta, un posto creato da zero per una e una sola ragione: arricchire uranio per la prima bomba atomica al mondo da usare in combattimento.

    Qui le radici arrivano da sempre in profondità. Furono estratte e sparpagliate quando i forestieri giunsero con il loro progetto alle pendici delle Cumberlands, ma anche i nuovi arrivati non poterono resistere al richiamo della terra e scavarono le proprie radici nelle profondità dell’argilla del Tennessee, inzuppati dalla pioggia di montagna e scottati da mille soli. Radici permanenti. Durature.

    Molti di coloro che lavoravano al progetto segreto nascosto tra le colline erano giovani donne che avevano lasciato la loro casa per combattere la guerra a proprio modo. Abbandonavano volentieri le fattorie per andare nelle fabbriche, scrivevano lettere cariche di speranza, attendevano con pazienza e lavoravano instancabilmente.

    Parecchie di queste donne – e di questi uomini – vivono ancora oggi a Oak Ridge, Tennessee. Ho avuto l’emozionante privilegio e onore di poterle incontrare e intervistare, ridere e piangere con loro, e udire dalla loro viva voce i racconti della vita in una città segreta mentre contribuivano a un progetto di cui erano in gran parte tenute all’oscuro. Nel corso degli anni sono state così gentili da concedermi il loro tempo, e da sopportare le mie reiterate domande e quelle che a loro dovevano essere sembrate folli richieste di rievocare momenti delle loro attività quotidiane di quasi settant’anni prima. Lo hanno fatto in modo entusiastico e appassionato, e senza mostrare mai e poi mai un minimo di prosopopea. Non era nel loro stile. Non solo ho appreso del loro ruolo nel Progetto Manhattan, sono anche stata colta alla sprovvista dal loro senso di avventura e di indipendenza, dalla loro modestia e dalla dedizione a conservare la storia. Vorrei poter includere ciascuna di loro in queste pagine, ma non posso. Spero che quelle che si ritroveranno soltanto nei Ringraziamenti di questo libro accetteranno il mio grazie al posto del loro spazio nel testo principale. Mi ritengo estremamente fortunata a conoscere quelle di loro che sono ancora in vita e sento la mancanza di quelle che se ne sono andate dopo che ho cominciato a lavorare a questo libro.

    Senza di loro, questo modo di imbrigliare il sole – questo Progetto Manhattan – non avrebbe mai raggiunto i suoi obiettivi, e grazie a loro è nata una nuova era che avrebbe cambiato il mondo per sempre.

    Queste sono alcune delle loro storie.

    DENISE KIERNAN, estate 2012

    Elenco dei personaggi principali

    Personaggi (le donne, in ordine di apparizione)

    Celia Szapka. Segretaria trasferita dagli uffici principali del Progetto Manhattan a New York, ma cresciuta nella cittadina mineraria di Shenandoah, Pennsylvania.

    Toni Peters. Segretaria della vicina Clinton, Tennessee, venne a sapere del Progetto fin dai suoi inizi, quando il governo confiscò la fattoria dei suoi zii per far posto alla cittadina segreta.

    Jane Greer. Statistica e matematica di Paris, Tennessee, a cui era affidata la supervisione di una squadra di giovani donne che macinavano numeri giorno e notte per tenere sotto controllo i tassi di produzione dell’impianto Y-12.

    Kattie Strickland. Donna delle pulizie di Auburn, Alabama, che giunse a Oak Ridge con suo marito per lavorare al K-25.

    Virginia Spivey. Chimica di Louisburg, North Carolina, che venne a Oak Ridge dopo essersi laureata all’università del North Carolina. Lavorava nel dipartimento chimico dell’Y-12 per le analisi del prodotto.

    Colleen Rowan. Ispettrice addetta al controllo delle perdite delle tubature all’enorme impianto K-25, che lasciò Nashville, Tennessee, per venire a Oak Ridge assieme a più di dieci membri della sua famiglia allargata.

    Dorothy Jones. Operatrice addetta al calutrone di Hornbeak, Tennessee. Dot fu reclutata appena uscita dalla scuola superiore.

    Helen Hall. Anche lei era un’operatrice addetta al calutrone, nonché un’appassionata di sport, proveniente da Eagleville, Tennessee. Fu reclutata in un piccolo caffè annesso alla farmacia in cui lavorava.

    Rosemary Maiers. Infermiera di Holy Cross, Iowa, che venne a Oak Ridge per aiutare ad aprire la primissima clinica.

    Altre donne importanti

    Vi Warren. Opinionista dell’«Oak Ridge Journal» e moglie del capo del personale medico, Stafford Warren.

    Ida Noddack. Geochimica tedesca che teorizzò la possibilità della fissione anni prima della sua scoperta.

    Lise Meitner. Fisica austriaca che sfuggì alla Germania nazista e fece parte della squadra che scoprì la fissione.

    Leona Woods. Fisica americana che lavorò alla prima reazione nucleare mai realizzata.

    Signora H.K. Ferguson. Rappresentante della H.K. Ferguson Company, principale appaltatore dell’impianto S-50. Il suo vero nome sarà rivelato…

    Joan Hinton. Fisica americana che lavorò con la squadra di Enrico Fermi a Los Alamos, New Mexico.

    Elizabeth Graves. Fisica americana, lavorò al riflettore di neutroni che circondava il nucleo del Gadget.

    Personaggi (gli altri)

    Il Generale. Il generale Leslie Groves, capo del Progetto Manhattan.

    Lo Scienziato. Robert Oppenheimer, direttore di laboratorio del Progetto Manhattan a Los Alamos. Coordinatore della fissione rapida.

    L’Ingegnere distrettuale o l’Ingegnere. Il colonnello Kenneth Nichols, capo amministrativo del Progetto Manhattan.

    Il Segretario. Henry Stimson, segretario alla Guerra.

    Il Fotografo. James Edward Ed Westcott, fotografo ufficiale della Clinton Engineer Works (CEW) durante la seconda guerra mondiale.

    Eric Clarke. Capo psichiatra del Progetto Manhattan a Oak Ridge.

    Ebb Cade. Un operaio edile addetto al K-25.

    Stafford Warren. Capo del dipartimento sanitario del Progetto Manhattan.

    Enrico Fermi. Noto anche come Henry Farmer e il Navigatore italiano. Fisico italiano e capo del gruppo di colleghi del Chicago Metallurgical Laboratory (MET Lab), assistente direttore di laboratorio a Los Alamos.

    Ernest Lawrence. Noto anche come Ernest Lawson. Fisico americano che sviluppò ciclotroni e calutroni per il processo di separazione elettromagnetica. Capo del Berkeley Radiation Laboratory per il Progetto Manhattan.

    Niels Bohr. Noto anche come Nicholas Baker. Fisico danese che contribuì alla moderna comprensione della struttura dell’atomo e al campo della meccanica quantistica.

    Arthur Compton. Noto anche come Arthur Holly o Holly Compton o Comus. Fisico americano e capo del Chicago Metallurgical Laboratory.

    Luoghi

    Oak Ridge, Tennessee. Noto anche come Sito X, Kingston Demolition Range, Clinton Engineer Works (CEW) e a volte la Riserva. La designazione Clinton Engineer Works si riferiva al Sito X nel Tennessee nella sua interezza, mentre con Oak Ridge si intendeva più nello specifico l’area cittadina e altre zone residenziali e prive di impianti.

    Y-12. L’impianto di separazione elettromagnetica a Oak Ridge, dove si trovavano i calutroni.

    K-25. L’impianto di diffusione gassosa a Oak Ridge e, per un certo periodo, il singolo edificio più grande al mondo.

    X-10. Il reattore pilota a Oak Ridge per produrre plutonio su cui si basavano i reattori a Hanford, Washington.

    S-50. L’impianto di diffusione termica liquida a Oak Ridge.

    Los Alamos, New Mexico. Noto anche come Sito Y o la Collina. Il sito del Progetto Manhattan dove fu progettato il Gadget.

    Hanford, Washington. Noto anche come Sito W, dove si trovavano i reattori al plutonio.

    Metallurgical Lab, Chicago, università di Chicago, Illinois

    Noto anche come MET Lab, sito della Chicago Pile 1 e della prima reazione nucleare autoalimentata.

    Cose notevoli

    Il Gadget. La bomba atomica, sia il modello a innesco balistico sia a implosione. Chiamato anche Esso.

    Tubealloy (Tube-Alloy). L’uranio. A volte denominato lega o prodotto nella sua forma arricchita, che era usata come combustibile per la bomba atomica.

    49. Il plutonio. Elemento 94. Denominato anche Prodotto o materiale nel contesto di combustibile per la bomba atomica.

    Il Progetto. Il Progetto Manhattan. Conosciuto in modo più formale come Manhattan Engineer District (MED). Il MED si riferiva in origine alla designazione geografica della prima sede centrale a New York, ma arrivò a includere tutti i siti del Progetto Manhattan.

    Nota dell’autrice

    Le informazioni in questo libro sono suddivise per categoria, proprio come buona parte della vita e del lavoro durante il Progetto Manhattan.

    mappa

    Rivelazione, agosto 1945

    Quella mattina, l’eccitazione che attraversava il complesso noto come il Castello era contagiosa. Le parole che nessuno avrebbe dovuto pronunciare – parole che molti non sapevano nemmeno che esistessero – rimbalzavano da una parete all’altra e volavano liberamente di bocca in bocca perfino degli abitanti meno informati sul Sito X.

    Toni era fuori di sé. Come poteva non esserlo? I telefoni squillavano e le donne chiacchieravano in modo incontrollato, non pensando minimamente a cosa potevano e non potevano dire, e nessuno cercava di fermarle. I minimi dettagli raccolti dai giornali, dalla radio o da singole persone che non la smettevano di parlare si facevano strada lungo i corridoi, negli angoli degli uffici e tra i capannelli delle segretarie. Lentamente l’intera Riserva stava prendendo fuoco, con le informazioni che si propagavano verso l’esterno su parole e via filo. Per ogni voce che pronunciava la notizia, almeno altre due la diffondevano oltre, sempre più veloce, aumentando in maniera esponenziale il raggio di coloro che ne erano al corrente.

    Rosemary era incollata alla radio, stipata nell’ufficio del suo capo con le altre che avevano abbandonato le loro postazioni. Anche Colleen e Kattie erano al lavoro, a chilometri di distanza, nell’impianto cavernoso il cui scopo ormai era diventato fin troppo chiaro. Jane udì un tale trambusto di fuori che spalancò la finestra, in attesa di sentir provenire dal basso grida del tipo: «Avete sentito cosa è successo?». Virginia e Helen si erano prese delle vacanze, pianificate da lungo tempo, ma la notizia riuscì a raggiungere anche loro, nonostante fossero a centinaia di miglia di distanza. E Celia e Dot erano a casa: dopotutto, adesso erano delle casalinghe. Era cambiato parecchio in due anni.

    Chuck lo sa già?, si domandò Toni.

    Aveva sempre presunto che l’avrebbe saputo prima di lei, ma non aveva importanza. Toni sapeva e non c’era alcun dubbio al riguardo. Le occorreva sentire cosa ne pensava lui. Ora tutto sarebbe cambiato.

    Cambierà per davvero?.

    Ma quando Chuck rispose al telefono e Toni sputò fuori la verità, non udì nulla in risposta.

    «Chuck! Chuck! Mi hai sentito?!».

    Tutto quello che udì fu un clic all’altro capo della linea.

    Chuck le aveva riattaccato il telefono in faccia senza dire una parola.

    Lei non avrebbe dovuto sapere.

    Giusto?.

    Aveva trascorso anni senza sapere, ponendosi delle domande, a volte ipotizzando e poi lasciando perdere. Aveva accettato la necessità e l’obbligo di non sapere, e ora questo. Quel giorno, per nessun motivo apparente, senza alcun preavviso e come un fulmine a ciel sereno, era giunto il segreto. Toni aveva pronunciato la parola che, fino ad allora, non doveva essere pronunciata. Una parola che avrebbe cambiato il mondo.

    O aveva ragione, o era in grossi guai.

    Capitolo 1

    Ci occuperemo noi di tutto

    Treno diretto nel nulla, agosto 1943

    I convogli diretti a sud fendevano l’umidità del mattino. Il ferro e l’acciaio del progresso tagliavano il paesaggio al suo risveglio.

    Celia sedeva nella sua cuccetta; le pieghe delicate del suo vestito nuovo le ricadevano sulle ginocchia e fissava fuori dal finestrino del treno. Andava a sud. Sapeva almeno quello, e che aveva una cuccetta perché ci sarebbe voluto del tempo per arrivare a destinazione. Cittadine e stazioni che bollivano nel caldo d’agosto scorrevano via indistinte. Edifici e fattorie spuntavano all’orizzonte quando il treno sfrecciava lì vicino. Tuttavia, nulla di quello che vedeva attraverso il vetro appannato rispondeva alla domanda più incalzante nella sua testa: dove stava andando?

    Erano già trascorse diverse ore, e a Celia quel viaggio sembrava ancora più interminabile perché la destinazione finale restava un mistero. Non aveva modo di sapere quanto mancasse, né di indurre il suo inconscio a rimuginare sulla parte del tragitto già fatta. C’era solo la vasta distesa del paesaggio e la compagnia di un gruppetto di donne, che non aveva mai conosciuto prima ma che condividevano con lei quell’avventura intrisa di segretezza. Celia si era imbarcata quasi di buon grado in quel viaggio senza prima ottenere alcuna informazione reale, tangibile. Così se ne stava seduta, in attesa di giungere alla sua ignota destinazione.

    Ventiquattro anni, capelli ondulati, Celia era sempre stata disposta a cambiare aria e quello non era il suo primo viaggio. La sua chioma era di un castano intenso, ma non nero come la polvere di carbone che ricopriva ogni cosa nella cittadina della Pennsylvania che si era lasciata alle spalle solo un’altra volta: Shenandoah. Distava centosessanta chilometri – e all’incirca il suo equivalente in anni-luce – da Philadelphia. Lo scrittore George Ross Leighton l’aveva definita «un memoriale all’epoca d’oro dell’industria». Considerava «un tempo prospero» il suo luogo di nascita, era una sorta di archetipo di molte altre cittadine americane: aveva superato il suo periodo di massimo splendore, lottava per sopravvivere ed era stata abbandonata dall’azienda che l’aveva portata al benessere… un’azienda che aveva tenuto il grosso dei profitti lontano dalla portata delle mani annerite e graffiate dalle rocce di chi l’aveva costruita. Era già una zona in declino, perfino nel 1939. Ma quella cittadina mineraria aveva dato lavoro a famiglie polacche – e ceche, russe, slovacche – come la sua. A volte era un impiego continuativo, spesso no, ma costituiva la possibilità di una vita decente.

    La terra dell’antracite! La città natale di Celia era simile a molti centri minerari nell’Est, la sua linfa vitale era collegata alla preziosa roccia sepolta in profondità nelle colline e nelle valli circostanti: una varietà del carbone minerale ad alto contenuto di carbonio, con basse impurità e più lucente. Sigillata nei legami che lo tenevano assieme, c’era l’energia stessa. Poteva essere rilasciata in belle fiamme blu e dare potere ai suoi liberatori. Ma presto il fascino e la lucentezza del carbone avevano lasciato spazio al sudiciume e all’incuria, proprio come la sede dello Shenandoah Trust, la banca citttadina: una vittima della Grande Depressione ancora fresca nella memoria della gente, che aveva ceduto il posto al drugstore e tavola calda Stief’s Cut Rate Drug and Quick Lunch. Invece di prosperare, la cittadina stava soffocando. Ciminiere arrugginite punteggiavano l’orizzonte ora inquinato, edifici di mattoni rossi avevano perduto il loro colore vivido davanti alla fuliggine di una terra impoverita: squallidi promemoria di un’industria che una volta era fiorente e adesso arrancava, allo stremo delle forze.

    Tutto questo se l’era lasciato alle spalle, adesso. Ogni istante che passava separava Celia da quella che avrebbe potuto essere una vita piena di polvere come moglie di un minatore qualunque. Non aveva mai voluto quel futuro, ma solo di recente si era resa conto che il suo destino non era immutabile. Per quanto riguardava il suo nuovo impiego e quella che sarebbe stata la sua nuova casa, la parola d’ordine era segreto. Veniva ripetuta di frequente e faceva sembrare un impiccione perfino chi poneva la più innocua delle domande. Quando Celia aveva chiesto due cose ovvie – «Dove andrò? Di cosa mi occuperò?» –, la risposta era stata che non le era permesso sapere più di quanto le era già stato detto. Le sarebbero state fornite solo le informazioni necessarie per arrivare dove stava andando.

    Fare domande era malvisto.

    Celia aveva avuto un assaggio di questo ambiente di lavoro dove non si ponevano interrogativi nel breve periodo in cui era stata impiegata come segretaria per il Progetto a New York. I segreti erano segreti per un motivo. Lei doveva crederlo. Se c’era bisogno che lei fosse al corrente di qualcosa di cruciale, le sarebbe stato detto al momento opportuno. Qualunque cosa esso fosse, doveva essere stato qualcosa di molto importante. Detto questo, salire su un treno con la sua unica valigia in mano le era sembrato non poco bizzarro. Avrebbe saputo qual era la sua fermata? Qualcosa le sarebbe balzato incontro dal paesaggio, con qualche dettaglio che le urlava: «Sì, Celia Szapka! Ci siamo!»? D’altro canto, non si era mai avventurata a sud e adesso era quella la direzione. Almeno questo lo sapeva.

    «Ci occuperemo noi di tutto…».

    Celia aveva scelto di fidarsi del suo capo e finora quel poco che le aveva detto si era rivelato vero. La limousine era passata a prenderla il mattino prima a casa di sua sorella a Paterson, New Jersey. Era stata sola in macchina e l’autista non aveva fatto altre fermate; l’auto si era diretta a sud passando per il cuore industriale del Garden State¹, prima di arrivare alla stazione ferroviaria di Newark. Lì era salita sul treno, aveva messo i suoi miseri averi sulla cuccetta a lei assegnata e aveva atteso che il treno partisse. Una volta alla stazione, a lei si erano unite altre giovani donne, molte all’apparenza della sua età e nessuna con più informazioni di lei. Celia era in qualche modo sollevata di sapere che non era la sola a essere tenuta all’oscuro. Lei e le altre giovani donne (presumibilmente nubili) sedute attorno erano dirette nello stesso posto. Erano tutte sulla stessa barca.

    Né Celia, né nessuna delle altre ragazze sul treno si sarebbero lamentate per la segretezza. Lamentarsi non andava di moda nel 1943, non con gente che si sacrificava così tanto a migliaia di chilometri di distanza, dall’altra parte di oceani che lei non aveva mai visto. Non con così tante vite perdute, così tante famiglie spezzate. Lei o le altre erano dirette a un lavoro buono e sicuro: non potevano certo lamentarsi. La guerra entrava in ogni aspetto dell’esistenza, dallo zucchero al carburante, dalle razioni di carne ai carichi di metallo da riciclo, fino alla leva. Le imprese di tutto il Paese stavano abbandonando la manifattura dei loro normali prodotti – dagli elettrodomestici alle calze di nylon – per poter realizzare quello che serviva per la guerra, da pneumatici e carri armati fino a munizioni e aeroplani.

    I dettagli sulle battaglie e le notizie sui movimenti di truppe facevano ben poco per abbreviare gli strazianti intervalli tra le lettere che arrivavano dall’estero o per alleviare la sofferenza delle perdite subite da amici, spesso seguita da una punta di sollievo carico di senso di colpa quando le notizie dei morti avevano risparmiato di nuovo casa tua. Le case di coloro che avevano parenti in guerra erano contrassegnate da piccole bandiere come ricordo, una stella per ogni persona cara. C’erano così tante stelle appese a così tante finestre, cucite con attenzione dalle mani nervose di madri, sorelle e fidanzate. In qualunque cittadina, passeggiando lungo qualsiasi strada residenziale, si potevano vedere bandiere con stelle blu che sventolavano da sole alle finestre dei soggiorni, chiedendo silenziosamente ai passanti di pregare affinché fratelli, padri o mariti – rappresentati da quegli emblemi di stoffa a cinque punte – tornassero sani e salvi. E ogni madre viveva nel timore che il blu della sua stella un giorno potesse diventare color oro a causa di un telegramma indesiderato o di qualcuno che era andato a bussare alla sua porta; e quello che una volta era un segno di preoccupazione si sarebbe tramutato in un simbolo di lutto.

    La pazienza e i nervi di tutti erano messi a dura prova, e Celia non faceva eccezione. Di sicuro la famiglia Szapka aveva sopportato la sua dose di difficoltà. Nonostante tutto – i pochi soldi, le lunghe ore di suo padre nelle miniere di carbone, il lavoro incessante a casa – avevano perseverato. Lamentarsi non avrebbe contribuito ad assicurare che i suoi fratelli Al e Clem tornassero a casa sani e salvi. Non avrebbe reso più stabile l’impiego di suo padre né avrebbe potuto far nulla per la tosse che lo assillava e che sembrava peggiorare a ogni suo respiro affaticato.

    In estate, le miniere non avevano lavoro per suo padre. Quel polacco orgoglioso, che non avrebbe mai accettato la carità per quanto la situazione potesse farsi difficile, rifiutava il sussidio di disoccupazione. Così, con pochissimi soldi per nutrire i loro bambini – Celia, i suoi fratelli e le sue due sorelle, quando erano ancora tutti assieme – venivano spediti a casa della nonna nel New Jersey. I ricordi di quelle visite estive non erano fatti di giornate passate a giocare a campana, di nuotate o di biscotti da infornare. Celia veniva messa al lavoro, a pulire e strofinare pavimenti. I nonni si prendevano cura di lei e dei suoi fratelli, rendendo ai loro genitori la vita un po’ più facile finché le miniere non avessero riaperto e fosse giunto il momento in cui i bambini tornavano a scuola. Ma non ci sarebbe stato alcun impiego nelle miniere per i suoi fratelli. I suoi genitori non avevano mai voluto nulla del genere per i loro figli. Adesso erano tutti lontani: Al nelle Filippine e Clem in Italia. E Ed, l’adorabile Ed, il suo fratello maggiore e preferito, era nella minuscola cittadina di Vernon, Texas, l’unico posto in cui poteva avere la propria parrocchia cattolica.

    E così Celia stava facendo la sua parte. Aveva appreso in fretta che a tutte le donne sul treno era stato detto che i loro nuovi impieghi servivano a un unico scopo: far giungere a conclusione la guerra, in modo rapido e vittorioso. Questo per lei era sufficiente.

    * * *

    C’erano voluti diversi anni per rompere i legami con Shenandoah e sua madre. L’anno in cui Celia si era diplomata, sua madre l’aveva mandata nel New Jersey – «È lì che c’è il lavoro» – per vivere con sua sorella maggiore a Paterson. Ma sua madre pretendeva che Celia non si allontanasse più di così. Celia aveva trovato un impiego da tre dollari a settimana come segretaria, ma ne odiava ogni minuto. Aveva una voglia matta di frequentare il college, però non c’erano soldi. I suoi genitori credevano che sua sorella minore Kathy fosse più portata di lei per gli studi. A tre dollari a settimana, Celia sapeva che non sarebbe stata in grado di mettere da parte in poco tempo il denaro per il college. Le sue prospettive non erano più promettenti a Paterson di quanto lo fossero state a Shenandoah.

    Poi si presentò una nuova opportunità. Il cugino di Celia le parlò di una prova per entrare nell’amministrazione governativa. Le spiegò che ci sarebbero state delle lezioni e poi un esame. Diceva che il posto di lavoro poteva essere ovunque. A volte il governo ti mandava all’estero, in luoghi come l’Europa. Europa. La sola possibilità era stata sufficiente a convincere Celia a presentarsi a lezione. Inoltre, pensava, che male può fare tentare un esame?.

    Come previsto, entro tre settimane giunse la prima offerta: lavorare per una società di ricostruzione finanziaria. Celia non era del tutto certa di cosa si trattasse, ma non aveva importanza: sua madre glielo proibì.

    «Non andrai via. Sei troppo giovane. Ci occorri vicino a casa…». Sua madre aveva sciorinato una litania di motivi per cui a Celia non doveva essere permesso di cogliere la migliore opportunità che le si fosse mai parata davanti. Sua sorella maggiore si era sposata. Sua sorella minore stava per andare al college. Celia era bloccata nel mezzo, stretta come una chiave di volta in maniera inesorabile, soffocante. Su insistenza di sua madre, declinò l’offerta. Poi ne arrivò un’altra, stavolta con il dipartimento di Stato a Washington, DC.

    In quell’occasione, quando Celia posò la lettera in grembo, suo fratello, che aveva recentemente preso i voti, era tornato a casa in visita dal Texas. Quanto le era mancato. Di sette anni maggiore rispetto a lei, Ed si era trasferito quando Celia era ancora alle elementari. Lei aveva pianto per giorni. Forse non era bello avere delle preferenze, ma a lei non importava. Ed era suo. Sua madre aveva sempre detto che erano fatti della stessa pasta. E aveva visto gli occhi di Celia illuminarsi quando aveva ricevuto la lettera del dipartimento di Stato, poi la giovane aveva assunto un’espressione afflitta quando sua madre aveva cominciato a protestare sul fatto che Washington fosse troppo lontana. Celia aveva superato la delusione di non poter andare al college, poi di aver dovuto dire di no all’ultima offerta di lavoro, così pensava che avrebbe superato anche quella.

    Ma padre Ed non volle saperne. E la dura ma amorevole Mary Szapka non poteva competere con un prete in missione. La discussione fu accalorata ma breve e si giunse a una decisione: Celia sarebbe andata a Washington per accettare quel lavoro, aveva detto Ed. «E ce la porterò io».

    Washington era stata un’esperienza spettacolare e aveva dato nuova forma alle idee che Celia aveva sul proprio futuro. Adorava vivere nella pensione su E Street, avere compagne di stanza della sua stessa età, lavorare per il dipartimento di Stato. E lo stipendio! Quando lasciò DC, stava guadagnando 1440 dollari l’anno! Non aveva mai pensato di vedere cifre così alte su un assegno col suo nome sopra, tanto meno a ventitré anni. Divideva una camera in una pensione con altre cinque ragazze, e ogni giorno percorreva gli ampi marciapiedi della capitale per andare al lavoro. Lì l’ufficio che condivideva con le altre segretarie aveva un balconcino con vista sul roseto della Casa bianca. Celia usciva lì fuori durante le pause e, in qualche fortunata occasione, lei e le altre giovani donne spiavano il presidente Roosevelt lì sotto, mentre passeggiava lentamente per i terreni ben tenuti. Le ragazze agitavano la mano con entusiasmo. Una volta lui rispose perfino al loro saluto. Il presidente degli Stati Uniti… chi se lo sarebbe immaginato!

    Quegli anni a Washington avevano allentato i legami con casa… ma sua madre continuava a strattonarla. Quando il suo capo, l’ambasciatore Joseph Grew, volle che Celia si trasferisse in Australia – una grossa dimostrazione di fiducia nelle sue capacità – quello strattone fu molto più deciso. Ma la ragazza non poteva tornare a casa. Non più. Aveva visto troppo, fatto troppo, guadagnato troppo. Il futuro a Shenandoah sembrava misero e sicuramente privo di qualsiasi attrattiva. Doveva esserci un modo migliore per placare sua madre e non abbandonare tutto quello che aveva costruito per se stessa. Doveva fare in modo di ottenere un lavoro più vicino a casa… solo non a casa.

    New York. Quando giunse il trasferimento di Celia, tutto ciò che sapeva sul suo lavoro era che aveva come obiettivo lo sforzo bellico, non era a Shenandoah e sua madre non poteva lamentarsi che fosse in Australia. Stava tornando a vivere nel New Jersey, ma stavolta era diverso. Era una vera lavoratrice adesso, che si univa alle orde di altri pendolari che prendevano il treno ogni giorno per superare l’Hudson e scendere alla Penn Station.

    Celia adorava Manhattan: il rumore e il sudiciume, lo sfarzo e le folle. Il suo tragitto dal treno all’ufficio era pieno di negozi, persone e un brusio costante che sosteneva ogni suo passo. A volte dopo il lavoro camminava lungo la Fifth Avenue o per Times Square. Di nuovo, Shenandoah era solo un ricordo.

    A una prima occhiata, non c’era nulla di particolarmente degno di nota nell’Arthur Levitt State Office Building, al numero 270 di Broadway. Proprio di fronte al City Hall Park, si trattava di un grosso palazzo di uffici in un mare di edifici simili che affollavano le strade tortuose della parte inferiore di Manhattan. Quando Celia salì sul suo treno diretto a sud, nell’agosto 1943, il diciottesimo piano del numero 270 di Broadway ospitava la Divisione nordatlantica del Genio militare ed era la prima sede centrale del Progetto da quasi un anno.

    Il numero 270 non era l’unico luogo sull’isola a giocare un ruolo nel Progetto per cui Celia lavorava ora. In tutta New York, altri pezzi stavano andando al loro posto. Il Madison Square Area Engineers Office al 261 della Fifth Avenue – dove lavorava Celia – aveva il compito di procurare i materiali. La ricerca si svolgeva nella Pupin Hall alla Columbia University. I magazzini Baker and Williams fornivano stoccaggio temporaneo per tonnellate di materiale trattato proveniente dalla Eldorado Mining and Refining Limited, in Canada; materiale che era la chiave del Progetto. Non il tipo di minerale di quel paesino della Pennsylvania da cui proveniva Celia, ma un tipo completamente diverso di roccia. Questo era chiamato Tubealloy da molti esponenti del Progetto, ma il suo nome non veniva mai pronunciato ad alta voce o messo per iscritto. Il Tubealloy era l’elemento da cui dipendevano tutte le speranze del Progetto ed era stoccato in grandi quantità nel porto di New York, nei magazzini Archer Daniels Midland, sulla vicina Staten Island.

    Il Tubealloy era il motivo per cui esisteva il lavoro di Celia, anche se in proposito lei non sapeva nulla più del newyorchese medio che le passava accanto e la spintonava sulle affollate banchine dei treni. Ma in tutta l’isola, in edifici e uffici anonimi, innumerevoli persone erano impegnate silenziosamente a trovare, estrarre e purificare il Tubealloy necessario per il Gadget.

    Celia si era abituata rapidamente alla segretezza nel suo impiego da segretaria. Firmava molte carte, offriva di buon grado le impronte digitali e sopportava non poche conferenze sull’importanza di non discutere mai nulla di ciò che faceva sul lavoro. Poteva ancora udire la voce di sua madre che la ammoniva sui pericoli dei contratti.

    «Assicurati di leggere tutto quello che firmi! Con una firma potresti dar via la vita!», le diceva.

    Celia le aveva risposto con il suo abituale: «Oh, mamma…». Ma aveva comunque letto ogni cosa che aveva firmato. In qualche modo, tutto le sembrava naturale, come se l’assenza di dettagli sottintendesse l’importanza del lavoro.

    Quest’ultimo, particolare trasferimento era giunto poco dopo che era stata spostata agli uffici del Progetto a New York. Erano passati solo quattro mesi da quando il capo di Celia, il tenente colonnello Charles Vanden Bulck, l’aveva convocata nel suo ufficio e le aveva chiesto se fosse disponibile a un nuovo cambio di sede. Aveva spiegato che gli uffici stavano traslocando e gli occorreva sapere se lei era disposta a spostarsi assieme a essi.

    «Dove stiamo andando?», chiese Celia.

    «Non posso dirglielo».

    Celia non era certa di cosa pensare al riguardo e lo incalzò un po’, volendo sapere almeno da che parte era diretta. Se fosse stato lontano, chi l’avrebbe sentita sua madre?

    «Dipende tutto da quanto è lontano», cercò di spiegare.

    Ma Vanden Bulck non voleva comunque dirglielo. Tutto quello che era disposto a rivelare era che il trasferimento era per un progetto importante e la destinazione era segretissima.

    «Bene, e quale sarà il mio compito?», domandò.

    Ancora nessun vero dettaglio. Celia non era ancora disposta a lasciar perdere. Dovevano dirle qualcosa.

    Giusto?.

    «Per quanto tempo?», tentò infine. Se aveva intenzione di andar via di nuovo, come minimo sua madre avrebbe voluto sapere quanto sarebbe stata lontana. Di sicuro almeno quello potevano dirglielo.

    «Probabilmente circa sei mesi, forse nove», fu la risposta.

    Eccola, la sua offerta ufficiale: una specie di nuovo lavoro in una specie di luogo, e probabilmente per circa sei, forse nove mesi. Perfetto. Sua madre l’avrebbe adorato.

    «Come ci arriverò?»

    «La passeremo a prendere e andrà col treno. Ci occuperemo noi di tutto».

    Celia acconsentì.

    Avrebbe spiegato a sua madre che era per la guerra, per Clem e Al. Non avrebbe potuto dire di no a quello.

    Mio Dio, era un lavoro! Un buon lavoro, un lavoro ben pagato. Esisteva un destino peggiore di un po’ di segretezza, per come la vedeva lei. Altre donne, in altre città, si stavano arrangiando come potevano, entrando a far parte della forza lavoro in cifre da record. La copertina del «Saturday Evening Post» dell’inizio di quel settembre raffigurava una donna vestita a stelle e strisce, che marciava trasportando un mucchio di cose: latte, una macchina da scrivere, una bussola, un innaffiatoio, un telefono e una chiave inglese. I ruoli delle donne nella forza lavoro andavano crescendo in maniera esponenziale. E con non uno ma due fratelli a combattere all’estero, Celia provava qualcosa che superava ogni dubbio: un senso di finalità. Di dovere. Se fare la sua parte significava lasciare casa per un luogo ignoto e dimenticato da Dio, era proprio ciò che avrebbe fatto.

    * * *

    Mentre i binari si estendevano davanti al treno, la distanza che separava Celia dai suoi genitori era più grande che mai e continuava ad aumentare. Era riuscita a dormire un po’ durante la notte, mentre il rollio e l’ondeggiamento traballante del treno scuotevano gentilmente i corpi avanti e indietro. Si era fatta delle nuove amiche durante il viaggio. Ma adesso era passata l’alba e stava diventando impaziente. Indossava il suo vestito nuovo, quello che le aveva comprato sua sorella Kathy. L’abito era bianco e nero, con una gonna dritta, non troppo lunga ma di certo non troppo corta. Poteva non avere l’etichetta di uno stilista, ma era alla moda del momento. Un cappello elegante era posato sui suoi boccoli sistemati in maniera meticolosa e portava le agognate scarpe di I. Miller che si era comprata vicino a Times Square in onore di questo nuovo lavoro segreto. Ovunque stesse andando, voleva avere un aspetto magnifico. «Non trattenetela», aveva detto padre Ed ai suoi genitori. Celia non si sarebbe trovata lì se non fosse stato per lui. Aveva l’opportunità di fare qualcosa della sua vita. Non aveva intenzione di sprecarla.

    Presto un lieve brusio divenne un chiacchiericcio vero e proprio, che rimbalzava tra le persone semiaddormentate all’interno del vagone. Le ragazze, raccolte in un capannello, cominciarono a sussurrare che il treno stava rallentando e che sarebbero scese tutte alla fermata successiva. Celia guardò fuori dal finestrino e il cartello appeso sopra la banchina della stazione cominciò a essere in vista: Knoxville, Tennessee.

    Tutto qua?, si domandò.

    Raccolse la sua borsa e seguì le altre donne lungo il vagone, giù per le scale e sulla banchina. L’agosto la colpì in faccia senza tante cerimonie, un saluto umido e stagnante che la accolse non appena scese dal treno. Era un vero e proprio esodo. A Celia sembrava che fossero scesi tutti dal treno.

    Si avvicinò un uomo, spiegando loro che un’auto le stava aspettando per trasportarle nel resto del tragitto.

    Ci occuperemo noi di tutto…

    Celia si ammucchiò assieme ad altre su uno dei diversi veicoli parcheggiati fuori dalla stazione, morendo dalla voglia di conoscere la loro prossima fermata. Ma era ancora presto – all’incirca le sei del mattino – e l’uomo dall’aria ufficiale che era venuto a prenderle disse che stavano andando tutte a colazione.

    Gli edifici del centro svettavano alti a Knoxville, ma non così tanto agli occhi di Celia, che era abituata ai grattacieli di New York. La macchina svoltò su Gay Street, una delle arterie principali della cittadina. Le strade stavano cominciando a risvegliarsi. Dei fattorini portavano quel poco di carne razionata e di altri generi alimentari disponibili per i negozi che si contendevano le loro quote, mentre un venditore di giornali che sbraitava sovrastava il mormorio del primo mattino e lo scalpiccio dei lavoratori diretti al primo turno. L’auto rallentò e si fermò davanti al 318 di North Gay Street. Celia alzò lo sguardo. Annidato sotto il Watauga Hotel

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