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I gatti di Roma
I gatti di Roma
I gatti di Roma
E-book347 pagine3 ore

I gatti di Roma

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Storie, curiosità e leggende dei gatti che hanno popolato e popolano le vie della Capitale

I gatti di Torre Argentina, i gatti della Piramide, i gatti di Tor Pignattara. Un simbolo, quello del felino, ormai entrato a pieno titolo nell’immaginario collettivo: basti pensare a calendari e cartoline che li ritraggono al sole su qualche monumento. Nella Roma Antica il gatto era un compagno nella vita terrena e anche in quella oltre la morte. Alcuni reparti dell’esercito romano avevano sugli scudi il simbolo di gatti di colori differenti. Da qui giunsero alla Roma Imperiale, dove il gatto domestico conobbe la definitiva affermazione e consacrazione. In un tempio, dove oggi sorge la chiesa di Santo Stefano del Cacco, venne rinvenuta la piccola statua della gatta che ancora oggi si può ammirare su un cornicione di Palazzo Grazioli, in via della Gatta… Storia, aneddoti, fatti meno noti e piccole vicende della vita di tutti giorni che raccontano il gatto romano e, con lui, anche il volto più scanzonato della nostra città. 

Scopri il lato felino della Capitale!

Il primo gatto romano de’ Roma
Un gatto nella Cappella Sistina
La prima spending review: nun c’è trippa pe' gatti…
Goethe e il gatto
Anna Magnani e il clan degli attori gattari
Pepe, il gatto ciclista
Elsa che si è perduta in metropolitana
Monica Cirinnà
consolida la sua militanza nel movimento animalista, dopo la laurea in Giurisprudenza, ottenendo come primo successo la legge che vieta in Italia la soppressione degli animali randagi. Oggi è senatrice del PD, si occupa di Diritti civili, ma è anche imprenditrice agricola e vive con quattro gatti trovatelli e quattro cani, tra i quali una beagle salvata dalla morte per sperimentazione.
Lilli Garrone
nata e cresciuta a Roma, laureata in Lettere, con una tesi in Etnologia, ha lavorato al «Corriere della Sera» e all’«Avvenire». Ha raccolto dal cortile Miufi, la gattina con cui vive. Insieme hanno scritto L’alfabeto del gatto, I gatti di Roma e i bestseller 101 storie di gatti che non ti hanno mai raccontato e 101 storie di cani che non ti hanno mai raccontato.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2015
ISBN9788854187917
I gatti di Roma

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    Anteprima del libro

    I gatti di Roma - Monica Cirinnà

    COLOPHON

    Prima edizione: novembre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8233-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di 8x8 Srl di Massimiliano D’Affronto, Roma

    Stampato nel novembre 2015 presso Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)

    su carta prodotta con cellulose senza cloro gas provenienti da foreste controllate, nel rispetto delle normative ambientali vigenti

    FRONTESPIZIO

    Prefazione

    Roma è certamente una città dove la storia scorre nelle grandi vie principali come nei vicoli del centro e dove i gatti sempre più compaiono sui piedoni costantiniani del Campidoglio o accanto alla Bocca della Verità, stampati nelle cartoline ricordo, sui calendari o sulle targhette magnetiche da applicare sul frigorifero, a decine. E anche se, come racconta Cesare Terracina ( Gatti romani nel mito e nella leggenda , il catalogo della mostra Uscite, uscite o sorci disse un micio... tenutasi a Roma nel 2011), «oggi è solo un ricordo occasionale la presenza di gatti al Colosseo, nei Fori o al Palatino, colonizzati per lo più, monitorati e un po’ ghettizzati... Presenza a rischio, chissà, indebolita dalle ataviche difese immunitarie culturali urbane che vedono stampato il gatto, un po’ come Audrey Hepburn, quale attrazione vacanziera del paesaggio storico», quello fra la capitale e i gatti è un lungo romanzo d’amore.

    Roma è la città in cui c’è una strada che si chiama via della Gatta, a un passo da piazza Venezia e in cui un gatto preistorico è sepolto accanto al focolare; il suo accento, tra i tanti possibili, è stato prescelto per dar voce a Romeo, il protagonista degli Aristogatti, e la presenza dei mici è rintracciabile tanto nei mosaici delle dimore signorili dell’antica Roma quanto nelle storiche colonie di cui i monumenti sono parte integrante, come all’Argentina o alla Piramide Cestia.

    Una gatta rossa è stata la compagna di san Filippo Neri nella sua prima dimora in via Monserrato, che il santo poi lascerà per la nuova residenza della Valicella: i sacerdoti filippini le preparavano ogni giorno il pasto e riferivano sul suo stato di salute. E ancor oggi, in memoria dell’amore che Filippo nutriva per i gatti, le porte della bellissima chiesa di San Giovanni dei Fiorentini si aprono per accogliere loro e gli altri amici animali dei fedeli. A Roma visse anche John Keats, il poeta inglese innamorato della vita e dei felini, che sfamava ai piedi della scalinata di Trinità dei Monti: tuttora, forse in segno di gratitudine, un gatto veglia sulla sua tomba, al cimitero inglese.

    E se è dunque certo che le tracce nell’Urbe della presenza felina risalgono a millenni fa, se i più famosi poeti romaneschi li hanno più volte cantati nelle loro strofe, la storia d’amore non è ancora finita: i romani continuano ad avere un’atavica passione per i mici, e ne è una chiara dimostrazione il fatto che proprio qui nella capitale ci sia un’altissima concentrazione di gattare. Come non notare, tra l’altro, gli improvvisi piattini con i croccantini che a volte compaiono lungo le strade? Proprio a loro, come scrive Cesare Terracina, spetta un posto d’onore in quanto «vere e proprie mamme di variopinti bambini miagolanti e viziati, orecchie all’erta, vibrisse sull’attenti».

    I gatti e i luoghi di Roma

    Il primo gatto romano de’ Roma

    C’ era una volta... c’era una volta un gatto che si chiamava... il suo nome purtroppo non lo sapremo mai. La cosa che invece sappiamo è che è uno dei primi gatti vissuti a Roma e come tale l’antenato di tutti i gatti della città. Anche la sua storia è difficile da ricostruire, sappiamo però dove abitava e – più o meno – quando: durante l’età del ferro, quindi tra l’808 e il 760 a.C. in una capanna protostorica a Fidene, sulla Salaria.

    È qui, dunque, alla periferia di Roma nord, che per la prima volta si hanno testimonianze di un gatto romano de’ Roma. Di aspetto ben diverso, forse, da quelli che oggi ancora abitano le vie della città, ma certamente simile. Ed era sicuramente un gatto che articolava il suo miao in maniera differente dai gatti sapiens di oggi. Il suo era forse un miagolio gutturale, paragonabile ai fonemi dei suoi rozzi padroni ancora abbastanza simili agli uomini di Neanderthal, ma già tanto evoluti da sapersi costruire una casa di tutto rispetto, in legno, arredata con ogni confort e dotata di una vasta gamma di utensili in ferro. Quindi il protostorico era a tutti gli effetti un gatto domestico che viveva in casa e amava stare accanto al fuoco. E qui la storia prende un risvolto triste. Il nostro, forse, stava facendo le fusa quando la capanna prese fuoco: per lui non ci fu via di scampo. Unica vittima di quell’incendio stando ai rilevamenti degli archeologi, quello di Fidene resta a tutt’oggi il più antico esemplare di gatto domestico finora mai rinvenuto in Italia. E le ceneri dell’incendio sembra abbiano contribuito alla conservazione della capanna e dello scheletro del povero felino. Inconsapevole vittima, forse i suoi padroni, pastori nomadi insediatisi su quella collina vicino al fiume, erano usciti per la caccia lasciando il fuoco acceso.

    E chi vuole vedere quel che resta del primo gatto romano può ancora farlo, anche se le visite archeologiche al sito presentano una certa difficoltà. Ma ci si può sempre provare. Oggi Fidene è una moderna borgata sulla Salaria. È quell’antica Fidenae del Latium Vetus collocata da Plinio il Vecchio tra i populi albenses, appartenenti cioè all’area albana. Infatti quei popoli, confederati (antesignani di certe forme di stato attuali), usavano riunirsi per i loro riti sul Monte Albano, l’attuale Monte Cavo vicino Tivoli. E a quei tempi doveva essere già un nucleo urbano strutturato, su un territorio assai fertile grazie alla vicinanza del sottostante fiume Tevere.

    Una volta giunti a Fidene, e precisamente in via Quarrata (una piazzola più che una strada), con stupore ci si troverà di fronte a una larga capanna, così anacronistica nel contesto. Si tratta della fedele ricostruzione, effettuata con tecniche costruttive antiche, proprio di una casa protostorica dell’età del ferro, anteriore alla fondazione di Roma, mentre i resti originali sono conservati presso il Museo Nazionale Romano a piazza dei Cinquecento.

    I resti della capanna furono rinvenuti nella seconda metà degli anni ’80 nel corso dei lavori di sterro per la costruzione in zona di case di edilizia pubblica. L’antico manufatto abitativo, di circa 30 metri quadri di superficie e dalle pareti di argilla impastata con frammenti di ceramica ed elementi vegetali, ha pianta rettangolare, un tetto a quattro spioventi e un bel portico. Durante i lavori di scavo furono rinvenute varie suppellettili, tra le quali alcuni vasi e un braciere. E proprio quel braciere ha permesso di ricostruire la toccante storia del nostro gatto senza nome, perché probabilmente l’incendio della capanna partì da lì. Il nostro povero gatto protostorico non ha avuto via di scampo, ma grazie a lui noi abbiamo avuto la possibilità di sapere qualcosa del primo gatto di Roma. La sua morte non è stata vana.

    Il gatto di Tarquinia

    Chissà come l’hanno chiamato, ma un nome l’ha avuto sicuro. Perché il gatto dipinto nella Tomba del Triclinio a Tarquinia (470 a.C.) è già un gatto completamente domestico, un bel soriano acquattato in attesa di un boccone sfuggito ai commensali. E non è l’unica testimonianza di un micio immediatamente pre-romano, anzi in pratica romano. Gli etruschi i gatti li dipinsero, infatti, un po’ ovunque, anche sui vasi e sulle coppe, oltre che sulle pareti. E ne fecero delle piccole statuette decorative, oppure bellissimi gioielli, perché vi sono piccoli gatti d’oro a forma di spille. A differenza degli egizi, gli etruschi consideravano il gatto un animale di casa, non una divinità né un essere diabolico: era un arredo vivo degli ambienti familiari e partecipava tranquillamente alla vita domestica. Sicuramente i gatti erano molto amati e anche considerati utili: in quel periodo liberavano la casa oltre che dai topi anche da lucertole e altri animaletti, e tenevano buona compagnia alle matrone e ai piccoli, che con loro giocavano volentieri.

    Ma osserviamo bene la testimonianza del nostro soriano etrusco così come è stato dipinto nella Tomba del Triclinio (le pitture oggi sono state staccate ed esposte al Museo Archeologico di Tarquinia). Il banchetto, al quale prendono parte tre coppie, è in pieno svolgimento. L’insieme è completato da un suonatore di flauto doppio a sinistra, da un’ancella in piedi e da un coppiere. Dei tavolini arredano questo ambiente dove – insieme al nostro soriano – ci sono anche un gallo e degli uccelli. E lungo le pareti si muovono danzatori e danzatrici, riccamente abbigliati, che eseguono coreografie vivaci in un bosco di alberi popolato da bellissimi uccelli. Sulla parete d’ingresso, infine, sono collocate due figure di cavalieri forse nell’atto di scendere da cavallo.

    Se ci siamo soffermati così a lungo nel descrivere il dipinto è per dimostrare che il nostro gatto anche se aspettava che gli dessero qualche avanzo del banchetto, qualche bocconcino prelibato, era in realtà molto fortunato perché apparteneva a una ricca famiglia. E quindi non solo è ben pasciuto, ma si doveva proprio godere la vita con i cibi dei suoi familiari, che non disdegnavano le interiora e altre ghiottonerie molto amate dai felini.

    Iulius, il gatto del Foro

    Iulius è uno dei gatti che probabilmente visse a Roma durante il regno di Augusto, un imperatore che nutriva nei confronti dei felini una grande passione. Fu un’epoca di grande opulenza, della quale di sicuro beneficiavano anche i mici liberi che popolavano le strade della capitale dell’impero. Bastava aggirarsi tra i banchi del mercato, carichi di ogni ben di Dio, per constatare di essere immersi in periodo d’oro, in cui Roma rappresentava praticamente il centro del mondo allora conosciuto.

    A quei tempi infatti, agli horrea, ovvero i magazzini generali in cui veniva raccolto il cibo che poi sarebbe stato rivenduto al dettaglio nei mercati, confluivano merci provenienti dai quattro angoli dell’impero: grano egiziano o africano, olio spagnolo, vino italiano, selvaggina e formaggi francesi (allora si chiamava Gallia, ma i formaggi erano già un’eccellenza di quelle zone), spezie orientali, pesci degli allevamenti campani, prosciutti andalusi (anche in questo caso, un tempo l’Andalusia veniva chiamata in un altro modo, cioè Betica, ma i suoi affettati erano già molto famosi).

    Gli horrea inizialmente erano granai, ma poi vennero adibiti alla conservazione di svariate merci: in epoca imperiale a Roma ce n’erano trecento e vi poteva essere contenuta una quantità di cibo tale che nel 211 d.C., alla morte di Settimio Severo, vi si sarebbe potuta sfamare l’intera popolazione della capitale per sette anni. Immaginiamone quindi le dimensioni: per esempio, gli horrea di Ostia, particolarmente comodi per conservare le merci che arrivavano via mare, all’epoca dell’imperatore Adriano si estendevano per circa dieci ettari. Se il povero Iulius vi si fosse perso, a stento avrebbe ritrovato la via d’uscita. Più probabilmente sarebbe rimasto a vagare tra le derrate di cibo per il resto dei suoi giorni.

    Dopo aver sostato in questi magazzini, le merci venivano smistate nei mercati cittadini. I Fori romani, infatti, prima di essere fulcro della vita culturale della città, erano sede di mercati che in termini di globalizzazione e consumismo non avrebbero avuto niente da invidiare a quelli moderni. Il nostro Iulius, che li conosceva bene e vi trascorreva gran parte della sua giornata, era la mascotte di una vasta gamma di mercatari: i magnarii, ovvero i grossisti, che consegnavano le merci ai venditori al minuto specializzati ognuno in un particolare settore; i vinarii, ambulanti che giravano con il loro carretto carico di anfore e barili e vendevano il vino ai passanti; gli olitores, antenati degli odierni coltivatori diretti, che avevano sul bancone olio e vari prodotti del loro orto; i piscatores, che prima pescavano e poi vendevano gli sfortunati pesci che incappavano nelle loro reti. Il più antico di questi mercati era il Foro Boario: si trovava alla destra del Tevere, tra il Campidoglio e l’Aventino, in una zona originariamente paludosa e poi bonificata. Qui si teneva il mercato del bestiame, sin da tempi remotissimi, quando Roma era ancora un villaggio. Ai tempi di Iulius, ovvero quelli dell’imperatore Augusto, l’area era diventata per lo più residenziale, poiché vi vennero edificate tante abitazioni private, ma la vocazione mercantile rimase, tanto che nel iv secolo d.C. vi venne costruito l’Arco di Giano, il cui scopo era quello di riparare i mercanti dalle intemperie.

    Iulius e i suoi amici felini, insomma, erano dei gatti fortunati. L’imperatore Augusto li adorava, il cibo non mancava e i Fori erano in perfetto stato, pieni di colonne integre dietro cui nascondersi e di viali lungo i quali rincorrersi.

    Roma: Pianta del Foro Romano all’epoca imperiale.

    Felicla, la gattina romana

    Il nome del gatto protagonista di questa storia ha la stessa radice di quello con cui oggi indichiamo la loro razza, felina per l’appunto. Perché nell’antica Roma i gatti venivano proprio chiamati così: spesso Felis (da cui deriva il nostro felino) o Felicla , che altro non vuol dire che micetta. La prova è in una stele funeraria rinvenuta presso Porta Pia che una matrona, Calpurnia Felicla, fece scolpire per sé e per il proprio marito, Germullus. Sotto l’iscrizione vi è il bassorilievo di un gatto dal folto pelo, in piedi e con la coda piegata verso l’alto, a indicare la donna: Felicla vuol dire, infatti, gattina, micetta. Ed era evidentemente questo il vezzeggiativo – diciamo così – con il quale la matrona era conosciuta e che lei ha fatto scolpire perfino sul suo monumento funebre dove ha voluto anche il gatto di casa, un bel micione al quale era evidentemente molto affezionata. 

    È così nella Roma imperiale che si vede affermata e consolidata in modo definitivo la presenza del gatto nelle abitazioni: di questo periodo ci sono giunte numerose testimonianze quali affreschi, mosaici, bassorilievi ma soprattutto steli funebri, dove il gatto viene rappresentato o come ricordo dell’animale in vita o come compagno nell’aldilà. E una delle connessioni più sorprendenti di questo periodo è il gran numero di persone con un cognome derivante dal nome gatto in latino, all’inizio definito felis, ovvero anche un po’ selvatico, e successivamente con cattus. Nella sola Roma sono state rinvenute più di 250 iscrizioni soprattutto di donne chiamate Felicula, Felicla o Felicia, quindi praticamente Gattina o Micina, Cattus e Catta, Gatto e Gatta, oppure Cattulus e Cattula, Gattino e Gattina, ma anche Catia e Cattius.

    Tornando alla matrona della stele, il fatto che avesse il soprannome di micetta fa subito pensare a quanto ormai l’animale fosse diventato parte della famiglia: probabilmente nelle grandi case romane aveva tutta la libertà possibile e veniva tenuto in grande considerazione. Poteva stare vicino al fuoco, giocare nelle stanze con i bambini più piccoli, tenere buona compagnia alla padrona di casa o alle ancelle e godere degli avanzi di cibo delle ricche mense. Ma anche i gatti di strada all’epoca non dovevano passarsela male: la città era ricca di taverne e lungo il greto del Tevere potevano trovare di tutto, compresi i mitici topi romani.

    L’iscrizione più significativa che riguarda il nostro amato animale risale al 144 d.C. e proviene dal Campo Pretorio di Roma; da questa apprendiamo che la sesta centuria della prima coorte della guardia era detta Catti cioè i gatti. Mentre il reparto dell’esercito romano degli Ordines Augusti aveva sugli scudi l’immagine di un gatto rosso, e quello dei Felices Seniores esibiva un gatto verde. Un colore non proprio tipico della bestiola in natura, ma evidentemente pur di avere sugli scudi questo animale si è ricorso anche a qualche artifizio artistico e si è scelto di dare all’immagine dell’animale un colore più forte del normale, forse per poter riconoscere meglio gli scudi.

    Come dicevamo all’inizio, comunque, quelle dei bassorilievi o dipinte sulle armi non sono le uniche immagini di felini della Roma imperiale giunte fino a noi. C’è anche un gatto, questo sì ancora un po’ selvatico, disegnato in un mosaico oggi conservato ai Musei Vaticani: rappresenta la bestiola mentre sta ghermendo un gallo e le due ochette vicino sembrano quasi fuggire spaventate. Il gatto, anche se con gli occhi molto grandi e l’aspetto feroce, visto che sta uccidendo la sua preda, ha il corpo tigrato grigio scuro: esattamente identico a quello di tanti soriani di oggi. Certo, anche se l’aspetto non è quello di un pacifico gatto di casa, l’immagine la dice lunga su quanto i mici fossero ormai entrati a far parte della vita familiare sia in città che in campagna. Così se nelle famiglie abbiamo felini già un po’ aristocratici, anche nelle case periferiche un bel gatto da cortile non manca.

    E c’è un altro mosaico di età imperiale, conservato nel Museo archeologico di Palazzo Massimo alle Terme, dove è rappresentato un micio, molto simile a quello del quale abbiamo appena parlato. Anche qui l’immagine è quella di un soriano, anche qui occhi molto grandi, ma il bel tigrato in questo caso sta ghermendo un piccione, pronto a farne uno squisito pranzetto. E pure qui sullo sfondo ci sono le oche, in questo caso meno spaventate, ma egualmente un po’ perplesse.

    Spaccato di un’antica casa romana, da La Patria di G. Strafforello.

    Portus, l’approdo dell’amicizia

    Le aree portuali sono sempre il luogo più ambito per i gatti: il cibo non manca e con poca fatica ci si possono procurare pesci pescati, piccoli roditori intenti a cercare, uccelli più o meno grandi becchettanti le granaglie residue, crostacei distratti arrampicati sugli scogli dei moli frangiflutti.

    I porti navali vivono sempre, tutto l’anno e tutti i giorni della settimana e la vita dentro e intorno al porto è costante e ininterrotta. Micimao ci sta bene, è grassottella, e durante l’estate preda e ingoia qualche lucertola più che per fame per divertimento. Peserà più di sei chili ed è di un grigio striato brillante con due occhi fosforescenti e decisi. Severa con tutti, con i suoi simili così come con gli altri animali, in particolare con i cani che gironzolano nel porto. La colonia felina in cui vive è immensa come del resto era immensa l’area dei porti imperiali, iniziati da Claudio nel 46 d.C. e terminati da Traiano nel 112 d.C.

    Venti secoli fa, infatti, Roma non riusciva più a sfamare la crescente popolazione, che aveva superato il milione di abitanti; le infrastrutture erano insufficienti, come insufficienti erano le strade e soprattutto i porti di Ostia e di Pozzuoli che erano in grado di accogliere la nuova domanda di traffico navale. Il porto di Ostia era piccolo, interno alla linea di costa e troppo esposto ai frequenti venti di sud ovest, che lo rendevano impraticabile per le grandi navi. Pozzuoli invece era troppo distante da Roma e quindi rendeva l’approvvigionamento del cibo lento e costoso.

    Già l’imperatore Augusto all’inizio del suo regno aveva cominciato a porsi il problema. Poi, nel 41 d.C., dopo l’uccisione di Caligola, per un bizzarro destino, le guardie pretoriane incoronarono imperatore Claudio perché unico rappresentante della dinastia giulio-claudia. Il nuovo imperatore si mise subito all’opera: bisognava approvvigionare Roma, non c’era tempo da perdere. Nel 46 d.C. iniziò quindi la costruzione del nuovo porto, a circa quattro chilometri da Ostia, lungo la riva destra del Tevere, sul mare e in collegamento con il fiume attraverso un canale artificiale.

    Il bacino era immenso e chiuso da due moli guardiani a semicerchio con l’ingresso segnalato da un faro eretto su un’isola artificiale, costruita affondando una grande imbarcazione precedentemente utilizzata da Caligola per trasportare un grande obelisco dall’Egitto.

    Il portus iniziò a popolarsi di gatti multicolori, a pelo lungo come a pelo corto, bianchi e neri, grigi striati e rossi tigrati. Dovevano essere uno spettacolo: mangiavano e giocavano, venivano scacciati o coccolati, derisi o amati.

    La vita di questa antica colonia felina proseguì tranquilla fino al 64 d.C., quando Nerone inaugurò il nuovo porto. Il bacino era troppo esposto alle mareggiate e infatti solo due anni dopo l’inaugurazione una poderosa libecciata fece

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