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I luoghi e le storie più strane di Roma
I luoghi e le storie più strane di Roma
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E-book407 pagine5 ore

I luoghi e le storie più strane di Roma

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Info su questo ebook

Il racconto curioso, mai banale della Città Eterna attraverso gli angoli e gli scorci più insolitiSu Roma tutto è stato scritto e tutto è stato detto. Ma la Città Eterna è come una persona in carne e ossa: non la si conosce mai abbastanza, neanche dopo una vita insieme. Basta cambiare punto di vista: ad esempio scoprendola attraverso i luoghi e le storie più strane. Ci sono posti vistosamente bizzarri che stuzzicano interesse e curiosità a prima vista, come il mostruoso portone di Palazzo Zuccari, il fantasioso quartiere Coppedè, la misteriosa Porta Magica di piazza Vittorio o la macabra cripta dei Cappuccini a via Veneto. E poi ci sono luoghi e monumenti molto noti che nascondono storie strane, misteriose o leggendarie: quali segreti cela il Baldacchino di San Pietro? Che c’entrano i serpenti con l’omonima via? Non è forse insolito che una discarica sia diventata un monte, che un tombino sia uno dei monumenti simbolo di Roma o che la città dei papi sia l’unica ad aver dedicato una piazza a una prostituta? Perché a rifletterci bene, a Roma non c’è proprio niente di normale, tutto è strano, ogni luogo, ogni storia, ogni cosa è insolita perché è una città unica prima ancora che eterna.Tra gli argomenti trattati:
• I misteri sotterranei della Basilica di Porta Maggiore
• La verità, vi prego, sulla Bocca della Verità
• La casa più stravagante del mondo
• L’incredibile storia dell’isola della medicina
• Il mausoleo di una santa... che santa non è
• Ortacci, ghetti e lupanari: quartieri a luci rosse
• I travagli e i vincoli di Mosè
• Parenti, serpenti e vicoli scellerati
• L’avventurosa epopea dell’Obelisco Vaticano
• Angeli, martiri, bagnanti e giubilei: le storie della “basilica termale”
• La chiesa delle frattaje
• Porta del Popolo: l’accoglienza di facciata per la regina delle stranezze
• La porta magica della disobbedienza
• L’unico buco della serratura dal quale è maleducato non sbirciare
• Quel che resta del “luogo più bello della terra”
• Angoli british
• Il faro romano: un monumento che guarda lontano
• L’archeologia dove meno te l’aspetti
Giulia Fiore Coltellacci
È nata a Roma nel 1982. È giornalista pubblicista e ha collaborato con la RAI scrivendo e conducendo trasmissioni radiofoniche dedicate alla cultura. Ha pubblicato Rome sweet Rome. Roma è come un millefoglie e, per la Newton Compton, 365 giornate indimenticabili da vivere a Roma, I libri che ci aiutano a vivere felici, I segreti tecnologici degli antichi romani e I luoghi e le storie più strane di Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2018
ISBN9788822726568
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    Anteprima del libro

    I luoghi e le storie più strane di Roma - Giulia Fiore Coltellacci

    Introduzione

    Siamo onesti e ammettiamolo: su Roma tutto è stato scritto e tutto è stato detto. Di fronte a questa constatazione oggettiva, chiunque dovrebbe resistere alla tentazione di scrivere un qualsivoglia libro sulla Città Eterna.

    Poi però…

    È anche vero che Roma è come una persona: non si conosce mai abbastanza, neanche dopo una vita insieme.

    E allora? Che fare? Scrivere un altro libro su Roma oppure no?

    Si potrebbe ma, per dirla come Carlo Verdone, si potrebbe farlo strano: scoprire Roma attraverso i luoghi e le storie più strane.

    La materia è tanta. Ci sono luoghi strani, vistosamente bizzarri che di per sé stuzzicano interesse e curiosità a prima vista, come il mostruoso portone di Palazzo Zuccari, il fantasioso quartiere Coppedè, la misteriosa Porta Magica di piazza Vittorio o la macabra cripta dei Cappuccini a via Veneto. E poi ci sono luoghi e monumenti molto noti che nascondono storie strane, misteriose o leggendarie: quali segreti cela il Baldacchino di San Pietro? E la basilica sotterranea di Porta Maggiore? Cosa o chi si nasconde dietro il restauro berniniano di Porta del Popolo? Che c’entrano i serpenti con l’omonima via? E i draghi con la chiesa di Santa Maria Antiqua? Non è forse insolito che una discarica sia diventata un monte, che un tombino sia uno dei monumenti simbolo di Roma o che la città dei papi sia l’unica ad aver dedicato una piazza a una prostituta? Senza contare gli infiniti dettagli che sfuggono a sguardi distratti o gli angoli meno frequentati che riservano insoliti retroscena: avete mai fatto caso a quel balconcino chiuso che adorna lo spigolo del palazzo all’angolo tra via del Corso e piazza Venezia? Siete curiosi di sapere chi spiava dietro quelle imposte chiuse? Avete presente quella casetta al Gianicolo, nel tratto della Passeggiata poco distante da Porta San Pancrazio? Era di Michelangelo, solo che si trovava nell’attuale piazza Venezia… come è arrivata lì? Già che siamo sul posto, vi siete mai chiesti che ci fa un faro sul Gianicolo, a chilometri di distanza dal mare? Sapevate che a San Giovanni a Porta Latina, alla fine del Cinquecento, si sono celebrati matrimoni gay? E che a Roma c’è stata una papessa e pure una vescova? Che a santa Costanza è dedicato uno splendido mausoleo ma santa non è mai stata? E che dire della finta donazione di Costantino, la prima grande fake news della storia, rigorosamente documentata nella basilica dei Santi Quattro Coronati e parzialmente smentita nel transetto di San Giovanni in Laterano… che storia, davvero incredibile!

    Ecco cosa succede a voler raccontare Roma: un argomento tira l’altro, una stranezza rimanda a un’altra curiosità e questa a un’altra stravaganza innescando un effetto domino dalle conseguenze travolgenti. Perché a rifletterci bene, a Roma non c’è proprio niente di normale, tutto è strano, ogni luogo, ogni storia, ogni cosa è insolita perché è una città unica prima ancora che eterna. E poco importa se alcune storie sono vere o frutto dell’inesauribile fantasia dei romani: questo è il fascino di Roma, un luogo dove tutto è possibile.

    Dove è possibile anche continuare a scrivere libri su Roma. D’altra parte non basta una vita per conoscerla, figuriamoci un libro. Proprio perché eterna, non stanca mai, non passa mai di moda e, soprattutto, non annoia mai. Eccoci a un altro punto fondamentale: la noia, o meglio il suo opposto, il divertimento. Dorothy Parker diceva che la cura per la noia è la curiosità e cosa c’è di più curioso e divertente della stranezza?

    La stravagante ultima volontà di un uomo ricco

    Anche chi è abituato alla sua secolare presenza, non può evitare di provare, fosse solo per un’impercettibile frazione di secondo, un leggero stupore di fronte a questo monumento che spicca come una strana anomalia nel pur variegato panorama capitolino. Insomma, che ci fa una piramide in mezzo al traffico? Si potrebbe quasi pensare a un’installazione moderna tanto è stravagante. E invece la piramide Cestia è un monumento antichissimo la cui origine è legata alla conquista dell’Egitto. Ma più che il simbolo della dominazione dell’impero romano sulla terra dei faraoni, la piramide è la testimonianza di un’altra, secolare, immutabile e ancora oggi immutata forma di dominio: la moda. Mi spiego. Proprio mentre l’imperatore Augusto portava avanti un programma politico basato su una rigida austerity con il quale mirava a ripristinare i valori dei vecchi (e ormai vetusti) mos maiorum, tra i membri più facoltosi e colti dell’élite romana si diffuse una forma acuta di egittomania, aggravatasi in seguito alla permanenza di Cleopatra nell’Urbe: tutte le matrone volevano imitare lo stile della regina d’Egitto – il bracciale a forma di serpente era un must – e arredare la propria domus con oggetti, decorazioni e pitture ispirati all’antico Egitto era considerato il non plus ultra dello chic. Caio Cestio Epulone, ricco pretore, tribuno della plebe nonché settemviro preposto ai banchetti sacri, volle osare di più. Volle esagerare. Volle strafare. Volle essere sepolto come un faraone, con un sepolcro a forma di piramide. E lo volle a tempo di record, minacciando gli eredi di privarli dei suoi cospicui lasciti qualora non avessero rispettato i tempi (il testamento è inciso nero su bianco su un lato della piramide). Piuttosto motivati a esaudire le ultime volontà – leggi imposizioni – del defunto, gli eredi terminarono la piramide perfino in anticipo: solo 330 giorni per realizzare un monumento alto 37 metri circa e con una base quadrata di 30 metri per lato. La loro solerzia era sollecitata non solo dalla minaccia di perdere l’eredità, ma anche dall’imminente entrata in vigore delle nuove leggi suntuarie promulgate da Augusto proprio contro l’ostentazione e il lusso esagerato. Per lo stesso motivo, il ricco Caio Cestio aveva dovuto rinunciare a essere sepolto come un faraone a tutti gli effetti, ovvero accompagnato dall’opulento corredo di ricchezze, arazzi e stoffe intessute d’oro e si era dovuto accontentantare di una sobria e discreta camera funeraria decorata con pitture policrome.

    Ad ogni modo i preziosi arazzi non andarono perduti: il figlio li vendette e con il ricavato fece realizzare due colossali statue in bronzo dorato da posizionare all’ingresso del monumento. Proprio sulla base di una delle statue compare il nome di uno degli illustri eredi: Marco Vipsanio Agrippa, braccio destro di Augusto e suo genero. Sembra che perfino lui, contravvenendo alla politica di austerity dell’imperatore, avrebbe voluto un monumento funebre a forma di piramide salvo poi finire con tutti gli onori e i parenti nell’imponente mausoleo di Augusto. Il mausoleo di Caio Cestio, quindi, non era un unicum all’epoca, una dimostrazione isolata di esibizionismo sfrenato. A renderla stravagante oggi, una bizzarria architettonica inglobata nelle mura Aureliane (che sono state la sua salvezza), è l’essere rimasto l’unico esempio eclatante di quella moda egittizzante che nel i secolo aveva contagiato un po’ tutti nell’Urbe. Certo, se l’intento di Caio Cestio era quello di attirare l’attenzione e passare alla storia, ha centrato l’obiettivo.

    Una curiosità: a distanza di secoli, e di chilometri da Roma, l’attore hollywoodiano Nicolas Cage ha scelto un mausoleo a forma di piramide come dimora eterna. Bianca, alta quasi tre metri e corredata dalla scritta omni ab uno (Tutto da uno), decisamente più kitsch di quella di Caio Cestio, è solo una delle tante stravaganze di un divo con fantasie da faraone ma è di certo l’ennesima riconferma che le mode passano ma le manie di grandezza restano. Sono solo forme di esibizionismo o nascondono l’affannoso tentativo di sconfiggere la morte lasciando un ricordo indelebile di sé? Perché una cosa è certa, tombe così non si dimenticano.

    Una stranezza tira l’altra: piramidi a Roma

    Per un certo periodo la piramide di Caio Cestio fu erroneamente identificata come tomba di Remo e per questo gemellata con la cosiddetta Meta Romuli, un’altra piramide che si trovava davanti all’antica basilica costantiniana di San Pietro e che con Romolo non c’entrava niente. Questa maestosa piramide ricoperta di lastre di marmo, infatti, non apparteneva al primo re di Roma ma a una famiglia romana non ben identificata, sicuramente molto ricca. In seguito entrò a far parte del sistema difensivo di Castel Sant’Angelo finché, già malconcia, nel Cinquecento Giulio ii ne ordinò la demolizione. La traccia della sua esistenza è immortalata sui battenti di bronzo della porta centrale della basilica di San Pietro realizzati dal Filarete nel 1439: nel riquadro raffigurante il martirio di san Pietro, in uno scorcio della Roma dell’epoca, sono visibili sia la piramide Cestia che la Meta Romuli.

    A farsi carico di un pomposo restauro della piramide Cestia, investendo la bellezza di 5 mila scudi, fu Alessandro vii, grande appassionato d’arte. Era il 1659 e il papa non sapeva che qualche anno più tardi avrebbe dovuto farsi carico, suo malgrado, della costruzione di un’altra piramide. La sua storia, davvero curiosa, è legata a un fattarello di cronaca sfociato in un incidente diplomatico dove di diplomatico c’è davvero poco trattandosi di una rissa epocale. Anzi, militare. Era il 20 agosto del 1662 e a Roma non si respirava per il caldo. Nel rione Regola, dalle parti di via degli Specchi, erano di stanza le truppe pontificie, soldati tosti e gagliardi, ruvidi e facilmente infiammabili provenienti dalla Corsica. A pochi passi si trovavano i soldati della guardia del re di Francia, il re Sole per la precisione, che si era trattenuto a Roma ospite dell’ambasciatore francese a Palazzo Farnese.

    Furono il sole e il caldo asfissiante a innescare la scintilla. Il sole, il caldo e i litri di vino tracannati dai soldati còrsi la cui molesta ubriachezza finì presto per infastidire le guardie del re, accaldate, annoiate, probabilmente assetate e anche prevenute considerando che tra francesi e còrsi non è mai corso buon sangue. Bastò un niente a far scoppiare una rissa: altri soldati delle truppe pontificie si unirono ai compagni per dar loro man forte, mentre da Palazzo Farnese si precipitarono altri francesi per tenere il punto. Dato che i romani non si fanno mai i fatti loro e quando c’è da mollare cazzotti sono sempre disponibili, alla rissa si aggiunsero alcuni abitanti del rione e la baruffa si ingigantì. La situazione precipitò inesorabilmente quando l’ambasciatore francese, il duca De Créqui, decise di ficcare il naso. Con poca diplomazia e tanta spavalderia, sordo ai suggerimenti del suo cocchiere che consigliava di tenere un profilo basso e non farsi notare, l’ambasciatore pensò bene di attraversare piazza Farnese, forse convinto che al suo passaggio i litiganti si aprissero come le acque del Mar Rosso di fronte a Mosè. Sbagliava: qualcuno caricò un archibugio, lo puntò verso la carrozza e fece fuoco colpendo in pieno uno dei suoi paggi, che morì sul colpo. Alla notizia che c’era scappato il morto scese il gelo sulla piazza, seguito dal fuggi fuggi generale: i francesi rientrarono in ambasciata, i soldati còrsi in caserma, i bulletti romani nelle proprie case. Créqui ingigantì le cose trasformando una banale rissa in un’ignobile violazione ai danni della Francia. Il re Sole colse al volo l’occasione per alzare la voce con il papa e, dopo lunghe trattative e dibattuti accordi di pace, Alessandro vii non poté fare altro che ingoiare l’umiliazione, giurando che non avrebbe più arruolato al suo servizio soldati còrsi (in seguito si è optato per le più pacate, composte e neutrali guardie svizzere) e accettando di imporre una pena esemplare: l’arresto di tre soldati, scelti a caso, e la loro impiccagione. Ma che c’entra la piramide con tutta questa storia, direte voi? Ora ci arriviamo. Come se l’esecuzione non fosse sufficiente, il re volle che l’affaire venisse suggellato con un altro gesto simbolico, anzi con un monumento simbolico che ricordasse il fatto. Il papa scelse una piramide e la fece erigere davanti alla caserma delle guardie pontificie. Rimase lì per sei anni, come un dito puntato contro eventuali alzate di testa.

    Il sepolcro a tema del fornaio e il travagliato mausoleo dell’imperatore

    Si nasconde bene dietro la maestosità di Porta Maggiore, appare e scompare, sembra giocare a nascondino contando sulla distrazione del passante disturbato dal traffico, intento a non sbagliare strada. Sarebbe da prendere il tram, il 19, solo e soltanto per poterlo vedere bene il Sepolcro di Eurisace, quella strana costruzione bianca mortificata dall’incuria a cui è condannato insieme alla vicina, splendida porta. Eppure l’intento del suo legittimo proprietario era proprio farsi notare, sbattere in faccia a tutti il suo stato sociale. Sì, perché nell’antica Roma anche la tomba era uno status symbol , l’eterna e imperitura dimostrazione del prestigio del defunto. Chiunque avesse due sesterzi, li investiva nella costruzione di una ricca e facoltosa domus eterna decorandola con rimandi e allusioni alla vita quotidiana e lavorativa per rendere esplicita l’origine della propria fortuna. Paragonato alla piramide di Caio Cestio, l’ostentazione di un ricco megalomane à la page , dobbiamo ammettere che il sepolcro di Eurisace non è meno eccentrico né meno dimostrativo. Marco Virgilio Eurisace era un fornaio, un ricco liberto d’origine greca la cui attività aveva fruttato tanto da permettergli la costruzione di una ricca tomba per sé e sua moglie Atistia. Era un parvenu , insomma, un arricchito, e non aveva problemi a dichiararlo, anzi era perfino un vanto. L’iscrizione lungo la cornice del monumento funebre ci informa che Eurisace aveva incrementato la sua attività di fornaio con altri incarichi prestigiosi: in qualità di appaltatore di commesse pubbliche era diventato un fornitore dello Stato e come apparitore aveva ricoperto il ruolo di subalterno di qualche pezzo grosso. Insomma si era saputo muovere e aveva fatto carriera. Ed era tanto fiero della sua professione da decorare il sepolcro con rimandi e allusioni al suo mestiere di fornaio: nel fregio sono rappresentate le diverse fasi della panificazione (consegna del grano, macinazione, setacciatura della farina, impasto, cottura e infine pesatura della pagnotta), tutte supervisionate da un personaggio in toga che presumibilmente è lo stesso Eurisace. Tra il fregio decorato che ne mette in scena l’attività e l’iscrizione che ne dichiara l’identità, tre file di cavità circolari sono un richiamo ai contenitori cilindrici in cui veniva impastata la farina. Sembra che in origine la monumentale tomba fosse sormontata – guardate un po’ le coincidenze – da una piramide. Anche Eurisace il fornaio aveva la sua piramide, mica solo gli alti membri dell’élite come Caio Cestio. Di fronte a tanto sfoggio di ricchezza, una riflessione nasce spontanea: se è vero che, come dicevano i latini, carmina non dant panem , evidentemente però nell’antica Roma il panem dava un sacco di pecunia . Ed Eurisace era talmente orgoglioso della sua scalata sociale da decidere di conservare le ceneri dell’adorata moglie in un’urna a forma di paniere, una scelta eccentrica almeno quanto quella di riposare per sempre in una caffettiera espressa recentemente dall’inventore della Moka Renato Bialetti. Una targa con un’iscrizione specificava che in quel paniere erano conservati i resti mortali della moglie Atistia che, Eurisace teneva a precisare, era una donna meravigliosa. Ricapitolando: la tomba ci informa che il fornaio era ricco, rampante e con una moglie meravigliosa. La coppia, rigorosamente in toga, era anche immortalata su una stele di marmo perché il ritratto di famiglia non poteva mancare.

    Quando nel 402 l’imperatore Onorio rafforzò la difesa di Porta Maggiore aggiungendo due torri laterali ed edificando un piccolo bastione, passò letteralmente sul cadavere di Eurisace inglobando nella costruzione il suo imponente sepolcro. Solo quando nell’Ottocento questa sorta di avamposto venne demolito, rispuntò fuori la singolare costruzione che altro non è se non l’eccentrica autoesaltazione di un ricco e ambizioso fornaio vissuto intorno al 30 a.C.

    Un paio di anni prima, anche l’imperatore Augusto aveva pensato alla sua dimora eterna e anche lui, come Eurisace, aveva sentito il bisogno di pubblicizzare ai posteri le sue gesta. Così, dopo la morte, ai lati del maestoso portale d’ingresso del suo monumentale mausoleo, fu esposto una sorta di testamento spirituale, le Res Gestae Divi Augusti, nel quale erano sintetizzati gli atti più importanti del suo principato. Nonostante le grandiose premesse, non esiste destino più travagliato e anomalo di quello del mausoleo del primo imperatore di Roma, la cui vita fu difficile fin dall’inizio. Nel 28 a.C. Augusto fece costruire per sé e i suoi discendenti un enorme tumulo cilindrico sormontato da un bosco di cipressi. La scelta del luogo, Campo Marzio, non era casuale: tutta l’area era dedicata all’imperatore e il mausoleo faceva "pendant" con l’Ara Pacis, originariamente all’altezza dell’attuale via in Lucina, che era disposta in asse con l’Horologium, il grande obelisco egiziano che il giorno del compleanno del princeps funzionava come una meridiana e colpendo con la sua ombra l’altare rendeva omaggio all’imperatore della pax. Pax che Augusto non riuscì a portare nel suo mausoleo. Il primo ospite non fu l’imperatore ma l’adorato e giovanissimo nipote Marcello, caduto forse vittima di una congiura ordita dalla first lady Livia. Con questa morte prematura e sospetta si inaugurò una stagione mortuaria che per via di complotti politici e congiure di famiglia, morti naturali e avvelenamenti vari, non conobbe momenti di crisi almeno fino all’età dei Flavi. Cassio Dione ci informa che all’epoca di Adriano il mausoleo era al completo tanto che l’imperatore fu costretto a costruirsene uno tutto suo, il futuro Castel Sant’Angelo. Nel mausoleo di Augusto furono ospitati quasi tutti i membri della dinastia giulio-claudia, con alcune clamorose eccezioni: l’accesso fu negato a Caligola e Nerone, considerati indegni di tale privilegio proprio come la figlia di Augusto, la ribelle Giulia che per la sua condotta libera e in contrasto con la politica paterna fu bandita da Roma e dalla tomba dinastica, insieme alla figlia omonima. Ma i travagli di famiglia erano niente in confronto alla sorte toccata all’imponente monumento in seguito al crollo dell’impero. Dopo essere stato abbandonato per lungo tempo, nel xii secolo fu occupato abusivamente dalla famiglia Colonna che se ne appropriò per trasformarlo in una strategica roccaforte difensiva: la struttura e la vegetazione fitta che ricoprivano la tomba, la rendevano perfetta per lo scopo (stesso destino militare è toccato anche al mausoleo di Adriano- Castel Sant’Angelo, riadattato con la medesima destinazione d’uso). Decaduti i Colonna e concluso il periodo delle sanguinose lotte tra famiglie nobili, il mausoleo continuò a rendersi utile: prima fu sfruttato come cava di travertino e depredato di tutte le decorazioni e le imperiali urne, e poi come vigna e orto. D’altra parte la sua struttura terrazzata su tre livelli sembrava pensata apposta per la coltivazione.

    Verso la metà del Settecento ci fu la svolta incredibile: diventato proprietà di un marchese di origine portoghese, Vincenzo Mani Correa, e dato in affitto allo spagnolo Bernardo Matas, il mausoleo di Augusto divenne un’arena dotata di strutture lignee e spalti dove si svolgevano giostre, corride di tori e spettacoli pirotecnici. E così, con la più assoluta disinvoltura, immemori del passato del monumento e della sua originaria funzione, i romani bisbocciavano e si divertivano allegramente riuniti in una tomba. Il successo fu tale che nel 1870 la famiglia Correa avviò i lavori per trasformare questa struttura effimera in una stabile, l’Anfiteatro Correa, per i romani er Corea. L’attività era talmente vantaggiosa che agli inizi dell’Ottocento perfino la Camera Apostolica fiutò l’affare e comprò la proprietà per realizzarvi un teatro di intrattenimento popolare. Affidò a Giuseppe Valadier il compito di risistemare il monumento, compito non privo di difficoltà: un incidente durante i lavori per la realizzazione della copertura costò la vita a un operaio, tanti problemi all’architetto e un processo esemplare. Dopo una breve parentesi come cantiere per la realizzazione del monumento equestre di Vittorio Emanuele, nel 1907 lo spazio fu acquistato dal Comune e trasformato in auditorium, l’Augusteo… finalmente qualcuno si ricordava del legittimo proprietario. La grande sala da concerti, punto di riferimento della mondanità romana, poteva contenere circa duemila spettatori, era elegantemente arredata con poltrone di velluto rosso e divanetti e dotata dell’immancabile bar. L’auditorium ospitò con successo importanti concerti fino al 1936 quando fu coinvolto negli sventramenti mussoliniani e la copertura di vetro e gli edifici sorti intorno al sepolcro vennero demoliti per far posto a piazza Augusto Imperatore. Paradossalmente quello che nasceva come un pomposo tentativo di rendere onore all’imperatore, restituendo al mausoleo il suo aspetto di tomba imperiale, ne decretò l’inizio della triste fine, un lento e inesorabile cammino verso l’abbandono e l’incuria che porterà negli anni Sessanta Antonio Cederna a definirlo un dente cariato. Solo recentemente, con un ritardo imperdonabile, sono iniziati importanti lavori di restauro e recupero di questo monumento d’inestimabile valore storico-artistico che versava in condizioni di indecente degrado, ingiustamente abbandonato alle spalle della più fortunata Ara Pacis, protagonista di un’importante e valida, anche se da molti criticata, opera di riqualificazione. Nonostante l’assurdità di un luogo di spettacolo all’interno di una tomba, quantomeno quella follia aveva fatto vivere il mausoleo, tenendolo in buona salute. Un destino preferibile all’oblio, all’incuria e all’abbandono che sono venuti dopo.

    Non esiste destino più travagliato e anomalo di quello del mausoleo di Augusto: paradigma per eccellenza della nobile arte tutta romana del cambio di destinazione d’uso, nella sua secolare esistenza è stato tutto, una roccaforte, una cava di marmo, una vigna, un’arena per tori, un anfiteatro, una sala da concerti, un dente cariato. Eh sì, all’inizio anche una tomba, anzi il tumulo funerario più grande mai costruito a Roma.

    I misteri sotterranei della basilica di Porta Maggiore

    Non c’è niente di più affascinante del mistero e il mistero è la caratteristica principale della basilica di Porta Maggiore, uno dei luoghi più segreti della Roma sotterranea che un recente e importante restauro ha reso finalmente visitabile (visite guidate, prenotazione obbligatoria).

    Come per quasi tutti i tesori sotterranei, il ritrovamento è stato del tutto casuale: era il 1917 e all’altezza di Porta Maggiore, in prossimità della linea ferroviaria, erano in corso alcuni lavori. Un improvviso cedimento del terreno svelò la presenza di un ambiente ipogeo. Le tempestive indagini sul posto rivelarono subito la prima curiosità: la presenza di un edificio che si trovava a circa nove metri sotto il livello stradale, ma non a causa dell’innalzamento del suolo che con il passare dei secoli a Roma ha fatto sprofondare ciò che prima era alla luce del sole, nascondendolo. No, la basilica era stata progettata fin dall’inizio per essere sotterranea, nascosta, segreta e inaccessibile se non a pochi. Quindi doveva trattarsi di un luogo particolare. Il mistero si infittisce. Abbiamo parlato di basilica ma il cristianesimo non c’entra: gli ambienti, infatti, presentano lo schema architettonico classico della basilica con le tre navate e l’abside semicircolare che era quello usato dai Romani per gli edifici pubblici e che in seguito i cristiani hanno riadattato per i propri spazi sacri. La basilica di Porta Maggiore quindi è pagana e secondo alcuni studiosi rappresenta uno degli esempi più antichi, se non il primo, a Roma di questo tipo di architettura. Un altro grande enigma è legato alla sua destinazione d’uso, un rebus che si nasconde anche nel prezioso apparato decorativo, in particolare nei meravigliosi stucchi figurati, impastati con polvere di travertino e di madreperla per rendere luminoso l’ambiente che ancora oggi rivela un fascino inaspettato proprio grazie a un bianco sfolgorante e a una luminosità che non ci si aspetterebbe di trovare sottoterra. E questa presenza di luce e di purezza non era certo casuale. Fin dall’inizio studiosi e archeologi si sono lambiccati il cervello per interpretare il complesso e ricco apparato decorativo, difficile da inserire all’interno di un progetto iconografico chiaro. Le scene rappresentate negli stucchi sono prevalentemente legate al mondo e alla mitologia greca: ci sono Orfeo ed Euridice, Giasone e Medea, Chirone e Achille, Ganimede che viene rapito, Ercole che fatica come al solito. Oltre ai personaggi mitologici sono raffigurati anche una serie di giovani impegnati in esercizi d’addestramento e prove culturali. Il filo rosso del complesso apparato decorativo sembra indicare un percorso di elevazione spirituale attraverso una serie di prove, allegorie della salvezza rivolte a un iniziato, ipotesi confermata anche dallo stucco con protagonista Saffo. Alla poetessa infelice è riservato il posto d’onore della basilica, il posto d’onore di tutte le basiliche, anche di quelle cristiane: la decorazione del catino absidale, dove è generalmente ospitata l’immagine più significativa, quella che attira su di sé gli occhi dei fedeli. Saffo è rappresentata mentre si getta dalla rupe Leucade incoraggiata da Apollo e attesa tra le onde da Faonte. La scelta di rappresentare un suicidio in un punto focale di primaria importanza è piuttosto inusuale e pertanto non può essere casuale. Più che un suicidio, sembra significare un trapasso verso una condizione migliore.

    Proprio questo labirinto di simboli e segni così complesso e il riferimento a prove da superare hanno fatto pensare che la basilica fosse un luogo di culto frequentato dagli adepti di una delle numerose religioni misteriche in voga nell’Urbe. Tra i primi ad avventurarsi nella difficile interpretazione degli stucchi e quindi a suggerire una possibile destinazione d’uso del luogo è stato Jerome Carcopino poco dopo la scoperta del sito. La scelta di un ambiente sotterraneo, la sua planimetria e soprattutto la criptica decorazione convinsero il grande storico francese a collegare il luogo al neopitagorismo, un culto di derivazione orientale. In quest’ottica il mito di Saffo, interpretato come rappresentazione simbolica della liberazione dell’anima dalla materia in un percorso di purificazione, riconfermava la tesi che i frequentatori della basilica fossero neopitagorici, i quali credevano nella metempsicosi, ovvero nell’immortalità e nella trasmigrazione dell’anima. Carcopino avanzò l’ipotesi che il complesso appartenesse a Tito Statilio Tauro il quale, denunciato da Nerone o da sua madre Agrippina per pratiche magiche, si era suicidato nel 53 d.C. per non subire l’onta del processo. Secondo l’interpretazione dello storico, quindi, Tauro sarebbe stato un adepto del neopitagorismo, pretesto per l’accusa, e la sede del culto sarebbe stata proprio la basilica di Porta Maggiore. Questa ipotesi è stata superata e oggi si tende ad attribuire all’edificio un uso funerario: secondo lo storico Gilles Sauron si tratterebbe di una tomba appartenente a un altro membro della famiglia degli Statili: Tito Statilio Tauro, influente generale, luogotenente di Augusto e console vissuto circa trent’anni prima del suo sfortunato omonimo nonché parente. Proprio i recenti restauri, però, hanno permesso di fare luce su alcuni dettagli relativi alla vita della basilica in base ai quali le teorie dei due studiosi non sarebbero poi così in contrasto. Il lavoro per salvare gli stucchi dalle infiltrazioni d’acqua e dall’umidità ha consentito di individuare due fasi di vita dell’edificio, una nell’età augustea e l’altra nell’età neroniana, che potrebbero quindi riferirsi a entrambi gli Statili laddove l’utilizzo funerario non escluderebbe una successiva destinazione religiosa.

    Che fosse il luogo di culto di una religione misterica o no, la visita alla basilica sotterranea di Porta Maggiore rappresenta un percorso iniziatico, un rituale di passaggio che attraverso il Dromos, il lungo corridoio in pendenza che dalla superficie conduce agli ambienti sotterranei immettendo nel vestibolo, consente di lasciarsi alle spalle la città, il caos e il presente per concedersi una preziosa incursione nella storia attraverso gli enigmi di un passato che a Roma è sempre presente. Basta solo sapere dove cercarlo.

    La verità, vi prego, sulla Bocca della Verità

    Per quanto mi sforzi, trovo difficile pensare a qualcosa di più strano della Bocca della Verità. Non è assurdo che il tombino di una fogna – ma che tombino e che fogna, la Cloaca Maxima , in assoluto la più antica e grandiosa rete fognaria mai esistita – sia diventato uno dei monumenti più famosi e visitati al mondo? Se un turista viene nella Città Eterna e non vede la Bocca della Verità è come se a Roma non ci fosse stato. Infilare

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