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Nome in codice: Dagger 22
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E-book462 pagine6 ore

Nome in codice: Dagger 22

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Info su questo ebook

La guerra in Afghanistan come nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontarla

La vera storia di un marine americano nell’inferno dell’Afghanistan

Bala Murghab, Afghanistan, 2010. La squadra speciale dei Marine, nome in codice Dagger 22, è impegnata in una dura missione in territori inospitali. L’inverno è lungo e i ventidue uomini devono proseguire l’offensiva contro i soldati talebani, che preferirebbero nascondersi fino alla primavera successiva. Ciò comporta uno scontro a fuoco dietro l’altro, fino a che il gruppo si ritrova nel villaggio di Daneh Pasab, un inferno in terra. Quando le forze speciali degli Stati Uniti e gli alleati decidono di lanciare l’assalto alla roccaforte talebana, i membri di Dagger 22 sono in prima linea. Ma nelle azioni di guerra nulla va mai come dovrebbe… 

Sapete come è fatto l’inferno in terra?
Un’emozionante storia vera sulla guerra in Afghanistan

I commenti dei lettori:

«Un racconto complesso e straziante sulle imprese vere di un gruppo di giovani eroi.»

«Un punto di vista eccezionale sugli eventi e le azioni che accadono in una guerra.»

«Libri come questi dovrebbero essere letti nelle scuole.»
Michael Golembesky
è nato nel 1976 negli Stati Uniti e dopo l’11 settembre ha deciso di entrare nel corpo dei Marine per sostenere la guerra al terrore del suo Paese. Ha partecipato a operazioni in Iraq e Afghanistan. Oggi vive in Colorado con la moglie e la figlia.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2017
ISBN9788822705372
Nome in codice: Dagger 22

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    Anteprima del libro

    Nome in codice - Michael Golembesky

    Nota dell’autore

    Ore 4:00

    Novembre 2015

    Bar dell’albergo

    Cripple Creek, Colorado

    Non ci sono parole per descrivere il dolore e la pena che provo quando ripenso alla storia che state per leggere, ma tutto questo svanisce davanti al ricordo del coraggio e dell’ardimento di cui sono stato testimone, quando la situazione della mia squadra in Afghanistan si è fatta disperata. Ho scelto di raccontare questa storia non perché lo volessi, ma perché ho promesso di farlo. Si tratta di una promessa fatta ai miei commilitoni, amici e fratelli. È stato un onore prestare servizio tra di voi, quando la luce della speranza sembrava sul punto di spegnersi.

    Questo libro mantiene quella promessa.

    Lo straordinario successo di Level Zero Heroes (2014) mi ha reso più umile e mi ha aiutato a chiudere quel capitolo della mia vita. Le reazioni dei lettori parlano da sole e testimoniano la determinazione e la passione delle persone presentate in questa storia, a prescindere dalla loro nazionalità o dal loro background. Gli uomini e le donne che hanno militato nella valle di Bala Murghab – e in tutto l’Afghanistan – l’hanno fatto perché glielo ha chiesto il loro Paese.

    Sono venuto in questo piccolo albergo tra le montagne del Colorado da solo, per dare un’ultima lettura a Nome in codice: Dagger 22 prima di inviarlo al mio editore. È incredibile quante cose si dimentichino o semplicemente non ci vengano più in mente, finché non ci si siede e si cerca di metterle per iscritto. L’intero processo di scrittura di questa storia si è spinto più in là di quanto avrei mai potuto immaginare. Spero solo di aver fatto del mio meglio per onorare e dare il giusto riconoscimento a tutti coloro che hanno dato così tanto e chiesto così poco in cambio. Alla fine, le uniche persone verso cui mi sento responsabile sono i miei compagni di squadra e l’unica cosa che hanno chiesto in cambio del loro servizio incondizionato e del sacrificio per il proprio Paese è stata l’invio di più munizioni e bevande energetiche.

    Ski

    Prologo

    Era buio e avevo la vista appannata. Il pavimento irregolare e le spartane pareti di fango emanavano un tenue bagliore per effetto dei raggi lunari che filtravano da una piccola finestra sull’altro lato della stanza.

    Un fascio di luce azzurro pallido penetrava obliquo all’interno, colpendo il pavimento e illuminando parzialmente una piccola rampa di scale strette e sudicie che conducevano al primo piano. Sentii urla provenire dal piano di sotto, mentre barcollando colpivo la parete, posizionandomi in cima alle scale. Era fredda e la sentivo sottrarre calore al mio corpo.

    Poi la vidi – la sagoma scura di un uomo con la mano stretta intorno a un’arma, in fondo alle scale. In ombra, dai lineamenti confusi e nel più assoluto silenzio, si affrettò su per le scale verso di me. Senza esitare premetti il grilletto, e dalla bocca della mia arma esplosero un lampo e un crepitio.

    Ma l’uomo non si fermò.

    Portai l’arma all’indietro verso il corpo, mentre raggiungeva gli ultimi due gradini, e sollevai il ginocchio; calciando con tutta la mia forza, il tacco del mio stivale lo colpì in pieno petto.

    «Ahi!», gridai in preda al dolore.

    Il soggiorno era buio e il pesante tavolino da caffè di legno era riverso su un fianco. In genere si trovava a una trentina di centimetri dal divano su cui avevo dormito nell’ultimo mese, ma ora giaceva ad almeno un metro di distanza. Il dolore mi attanagliava le dita dei piedi.

    Che cazzo avevo fatto? Avevo forse appena preso a calci il tavolino nel sonno?

    Di primo acchito pensai di essermi rotto un dito del piede, perché faceva un male d’inferno. Il mio cane, Bear, che in genere dormiva sul pavimento accanto a me, era schizzato dall’altra parte della stanza e mi stava fissando, con la mia stessa espressione sorpresa e confusa. La casa era tranquilla: nessun movimento al piano di sopra, dove c’erano mia moglie e mia figlia, Sabrina e Devlyn, che dormivano profondamente.

    «Va tutto bene, Bear, vieni qui».

    Ciondolò lentamente verso di me, appoggiandomi il muso sulla gamba e lo grattai dietro le orecchie corte.

    Il battito del cuore e il respiro iniziarono a rallentare, mentre sedevo sul divano con lo sguardo perso nel buio. I sogni erano di nuovo peggiorati; era precisamente per quel motivo che mi ero trasferito dalla camera da letto al divano. Il mio scattare, rigirarmi e agitarmi nel letto, unito agli occasionali accessi di violenza, si stavano facendo un po’ troppo frequenti. L’ultima cosa che volevo era colpire inavvertitamente Sabrina o, Dio non volesse, prendere a calci mia figlia addormentata – che spesso si infilava nel letto con noi – come avevo fatto con il tavolino da caffè. Il rischio di ferire qualcuno era troppo alto, perciò ormai c’eravamo solo io e Bear, finché non mi fosse passata.

    Zoppicando per il male al piede, barcollai fino alla cucina. La luce del frigorifero mi accecò quando lo aprii. Mandai giù un po’ di succo d’arancia per dare sollievo alla gola, che si era seccata per il respiro affannoso della notte.

    Prima o poi sarebbe finita… no?

    Chiusi piano lo sportello del frigo e la stanza ripiombò nell’oscurità, mentre mi facevo strada a tentoni tastando le pareti fino al soggiorno, dove rotolai sul divano. Rimasi lì a fissare il soffitto, con gli occhi sbarrati e l’adrenalina che scemava lentamente.

    Il sogno mi era familiare, sapevo perfettamente dove mi trovavo. Era il villaggio di Daneh Pasab, a un chilometro a sud dalla base operativa avanzata (FOB) Todd di Bala Murghab, in Afghanistan. Quel posto non voleva smettere di perseguitarmi, o forse ero solo io che non riuscivo a lasciarmelo alle spalle. Il sogno era ancora fresco e vivido nella mia mente quanto lo era il dolore al piede. Sapevo con precisione in quale edificio mi trovassi: in fondo all’area del triangolo rovesciato, dove si incrociavano due strette strade sterrate. Ero stato lì solo una volta, in passato – cinque anni prima, ma mi sembrava letteralmente di esserci appena stato.

    Tutti i ricordi, ogni dettaglio, gli odori, la consistenza delle pareti erano ancora vividi; era ancora tutto lì, sepolto nel profondo della mia testa.

    Dov’era il resto della squadra? Ero l’unico a sentirmi così? Se l’avessi detto al medico vudù della clinica degli Affari dei Veterani qui in Colorado mi avrebbe prescritto l’ennesimo farmaco. Hanno medicinali per tutto, sapete, persino quelli per controbilanciare gli effetti collaterali di quelli che si stanno già assumendo.

    No, grazie. In un certo senso ci siamo guadagnati queste condizioni, meri rimasugli di ciò che abbiamo vissuto.

    È uno schifo, ma anche questo con il tempo passerà. Anche potendo, non avrei comunque cambiato niente; vorrei solo aver fatto di più per aiutare, aver salvato una persona in più, aver preso parte a una missione in più. Di certo non sono l’unico a sentirsi così.

    I cinque anni passati da quando ho lasciato i Marine sono volati. La maggior parte dei ragazzi della squadra fa del proprio meglio per tenere i contatti: un messaggio su Facebook qui, un SMS o una telefonata lì, ma non è la stessa cosa di quando si operava in squadra a BMG (Bala Murghab). Sapevo che quell’esperienza non sarebbe durata in eterno, ma sarebbe potuta durare un po’ di più. Il tempo diluisce ogni cosa.

    Saranno state le tre del mattino. Bear si sdraiò sulle fredde piastrelle del pavimento accanto alla cucina con un rumore sordo.

    «Accidenti, Bear, Dio non voglia che ti sdrai piano invece di buttarti a terra come un sacco di patate», gli dissi piano, pensando che in qualche modo avrebbe capito le mie parole.

    Cos’altro giace in fondo alla mia mente?

    Cos’altro è stato diluito e dimenticato?

    Chiusi gli occhi, lasciando che i miei sogni mi trasportassero all’inizio di tutto…

    Mi chiamo Michael Golembesky, Ski è il nome con cui mi chiamavano i membri della squadra. Durante l’inverno del 2008 fui assegnato al Comando Operazioni Speciali del corpo dei Marine (MARSOC), dove prestai servizio presso il secondo battaglione (MSOB) come controllore aereo tattico della squadra. Si era trattato di un grosso cambiamento per me, che avevo trascorso i precedenti sette anni nella tradizionale Fleet Marine Force (FMF), mobilitato quattro volte in supporto alla guerra globale al terrorismo.

    Ero entrato nel corpo dei Marine – come tanti altri – dopo aver assistito agli eventi dell’11 settembre trasmessi in televisione. Avevo smesso di fare il camionista per un caseificio locale in Colorado, avevo fatto i bagagli con quelle due cose che avevo accumulato in ventisei anni, infilandole in pacchi e scatoloni, ed ero partito per il centro di addestramento. Per la mia ragazza, Sabrina, il mio arruolamento era stato un cambiamento enorme e inatteso, che nessuno di noi due era veramente pronto a intraprendere. Ma lei si fidava di me abbastanza da sacrificare tutto ciò che conosceva per restarmi accanto, mentre mi accingevo ad arruolarmi in un periodo di guerra.

    Era tutto incerto, non solo per me e Sabrina, ma anche per il resto degli americani. Il 2001 non fu solo l’alba di un nuovo secolo, ma segnò anche il sorgere di una nuova minaccia globale a un livello mai visto prima. Mentre imperversavano le guerre in Afghanistan e Iraq, questa minaccia continuava a crescere e a diffondersi in zone diverse della Terra. Si trattava di un diverso tipo di arte bellica: una guerra senza confini, senza soldati in uniforme, in cui il nemico si confondeva tra la folla… una guerra senza una fine precisa. In questo clima ci fu l’ascesa dell’Islam radicale: fondamentalisti ed estremisti che credevano di combattere una guerra santa contro tutti i non musulmani ed erano disposti a servirsi di qualunque mezzo necessario per conseguire il proprio scopo.

    Nel settembre del 2009 fui dispiegato in Afghanistan occidentale come membro della Squadra Operazioni Speciali dei Marine (MSOT) 8222; l’identificativo della mia squadra era Dagger 22. Finalmente, dopo una lunga attesa, ero stato assegnato in Afghanistan. Mi ero unito ai Marine per quello che era successo l’11 settembre, ma non avrei mai pensato che ci sarebbero volute altre quattro mobilitazioni e una guerra totalmente diversa per arrivare finalmente nel Paese.

    Avevo appositamente allungato il mio contratto di arruolamento per poter andare in Afghanistan per il mio ultimo periodo di servizio. Sabrina, diventata nel frattempo mia moglie, era riluttante alla prospettiva di ritrovarsi di nuovo da sola e preoccupata che potessi non farcela, ma, sapendo che si trattava del mio ultimo periodo di servizio, si era fatta forza e mi aveva salutato, lasciandomi al parcheggio, con la nostra bambina di tre anni addormentata sul sedile posteriore dell’auto, mentre la pioggia tamburellava sul tettuccio sopra le nostre teste. La nostra squadra era stata mobilitata nel cuore della notte; avevamo preso un cargo C-17 diretto in Afghanistan ed eravamo atterrati all’aeroporto di Herat trentasei ore più tardi.

    Camp Stone si trovava nell’Afghanistan occidentale e ospitava i Paesi dell’ISAF (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) assegnati alla regione. Gli spagnoli erano responsabili di supervisionare questa zona del Paese con il sostegno delle forze statunitensi e italiane. Il nostro gruppo era stato assegnato alla Task Force Operazioni Speciali-Ovest (SOFT-W), un comando a parte che collaborava alle operazioni nella regione. La nostra squadra era responsabile della conduzione di operazioni terrestri di base per aiutare ad addestrare, consigliare e supportare il locale Esercito nazionale afghano (ANA). Non si trattava dell’incarico più eclatante all’interno della comunità delle operazioni speciali, ma sul finire del 2009 il concetto stesso di operazioni speciali dei Marine era ancora in fasce.

    Il corpo dei Marine divenne ufficialmente una branca del Comando Operazioni Speciali degli Stati Uniti (USSOCOM) nel 2006. Da allora le squadre MARSOC hanno mantenuto un brutale ritmo operativo in Afghanistan, dove c’era una grossa richiesta di team che operassero accanto alle forze nazionali. Il corpo dei Marine stava ancora dimostrando il proprio valore mantenendosi entro i confini della comunità delle operazioni speciali, strettamente sorvegliata, e il secondo battaglione MSOB, Compagnia G, era il prossimo della lista.

    Il periodo trascorso dalla squadra a Camp Stone fu breve. La SOFT ci aveva assegnati alla base operativa avanzata Todd (FOB Todd), situata nella valle fluviale di Bala Murghab. Fondata in origine dagli spagnoli con il nome di FOB Colombo, di recente era passata sotto il controllo degli italiani. Le forze amiche più vicine si trovavano nel capoluogo di provincia di Qala-i-Naw, a più di novanta chilometri e due catene montuose più in là della remota base. Bala Murghab, più spesso chiamata BMG, si trovava in una regione impietosa e poco conosciuta dell’Afghanistan; era rimasta per lo più isolata dalla guerra, e la presenza pressoché inesistente di forze NATO aveva consentito alla valle di divenire roccaforte e rifugio per i talebani.

    Per i successivi sette mesi, FOB Todd sarebbe diventata la nuova casa della squadra. La situazione a Bala Murghab era tragica, a voler essere ottimisti. Con una sola via d’accesso e di fuga, tutti rifornimenti dovevano essere recapitati per via aerea e il soccorso medico dipendeva da quanto in fretta l’elicottero MEDEVAC (Medical Evacuation, sgombero sanitario) fosse riuscito a raggiungere la valle. La squadra ci mise cinque giorni a coprire i 180 km da Camp Stone a Herat fino alla valle di Bala Murghab. Sembrava di essere finiti ai confini del mondo, bloccati in un’era biblica ormai dimenticata dal tempo.

    Non c’era niente ad attenderci al nostro arrivo: la piccola base aveva già raggiunto la massima capienza con gli italiani presenti e con una batteria di artiglieri diventata compagnia di fucilieri dell’82ª aviotrasportata. Avevano dovuto espandere le mura perimetrali della base solo per ricavare una superficie pianeggiante tale da permetterci di sistemare la nostra attrezzatura. Il nostro riparo consisteva in poche tende per scopi generici, container e due bagni chimici. Spettava a noi allestire il complesso per le Forze Operazioni Speciali (SOF), addestrando e istruendo allo stesso tempo la controparte dell’esercito afghano.

    Imparammo presto che a Bala Murghab non c’era niente di certo. Erano i primi di novembre e la squadra si trovava a FOB Todd da poco meno di ventiquattro ore quando si verificò un terribile incidente. Due paracadutisti dell’82ª aviotrasportata trovarono la morte nelle turbolente acque del Murghab, quando cercarono di recuperare dei bancali paracadutati finiti lontano dalla zona di raccolta. Quest’evento da solo innescò una reazione a catena che avrebbe inglobato l’intera valle e condotto tutte le unità a FOB Todd, con un unico obiettivo condiviso. Fu intrapreso un massiccio sforzo di recupero per trovare i due paracadutisti scomparsi, ma i talebani fraintesero quest’improvviso movimento di uomini e mezzi come un’azione offensiva per cancellare la loro presenza nella valle e reagirono di conseguenza.

    Era già novembre inoltrato quando il cadavere del secondo paracadutista fu rinvenuto e restituito alla famiglia. L’operazione di recupero era conclusa, ma l’eco che aveva provocato sarebbe durata ancora. L’intensa collaborazione tra tutte le forze in gioco aveva forgiato un legame che i talebani non sarebbero riusciti a spezzare; la nostra squadra aveva sviluppato un intimo cameratismo con i ragazzi dell’82ª aviotrasportata, che però si incrinò quando il comandante del loro battaglione – identificativo PRO 6 – giunse a FOB Todd per supervisionare di persona le operazioni nella valle.

    Si presumeva che PRO 6 sarebbe tornato a Camp Stone una volta recuperato il corpo del secondo paracadutista, ma non andò così: rimase alla base operativa avanzata e si lasciò coinvolgere nelle politiche locali e nelle lotte di potere della zona, orchestrando un piano operativo generale per mettere in sicurezza la vallata e promuovere una nuova era di governo afghano. Purtroppo furono tutte le unità di stanza a Bala Murghab – dell’ISAF e afghane – a dover sostenere le difficoltà e i sacrifici della sua visione.

    Nel dicembre del 2009 venne studiata una grossa operazione per espugnare il territorio controllato dai talebani, denominata Operazione Buongiorno; fu uno sforzo congiunto per conquistare due posizioni chiave sul lato occidentale del bazar di Bala Murghab. La nostra squadra, insieme a un distaccamento di paracadutisti e soldati afghani, fu incaricata di prendere possesso di una località collinare per farne un avamposto permanente. L’obiettivo ricevette il nome in codice di Pathfinder. I ragazzi dell’82ª e gli italiani furono incaricati di conquistare l’Obiettivo Prius, complesso situato su un incrocio stradale strategico vicino al bazar. La conquista di questi due obiettivi congiunti avrebbe permesso di dividere la valle a metà, restringendo la libertà di movimento a nord e a sud dei talebani.

    L’operazione iniziò la notte del 26 dicembre; entrambi gli obiettivi furono occupati senza incontrare alcuna resistenza da parte dei talebani, ma in seguito fummo tutti costretti a sopportare parecchi giorni di violente ritorsioni e rappresaglie, prima che gli obiettivi fossero messi del tutto in sicurezza. L’operazione era stata coronata dal successo, ma molte delle decisioni prese da PRO 6 nel cuore della battaglia avevano minato la nostra fiducia nella sua guida e nella sua leadership. Fu un periodo difficile non solo per la nostra squadra, ma anche per tutti quelli che risiedevano a FOB Todd. Poco tempo dopo la conclusione dell’operazione, PRO 6 lasciò la valle e fece ritorno a Camp Stone, a Herat, mentre la missione a BMG incalzava.

    La storia che state per leggere prese avvio da questo punto. Iniziò nel cuore del rigido inverno afghano, quando, anziché smaltire la sbornia di Capodanno 2010, la squadra fu lasciata a escogitare la mossa successiva. Non più costretti a portare avanti missioni legate alla stabilizzazione e all’espansione delle zone di sicurezza intorno alla base operativa avanzata e alle aree del bazar governativo, per i ragazzi di Dagger 22 era giunto il momento di farsi più aggressivi. L’inverno era considerato la stagione di riposo dei combattimenti; i talebani preferivano ritirarsi per riequipaggiarsi e pianificare la successiva stagione di combattimenti. L’offensiva primaverile a Bala Murghab si prospettava brutale; i talebani non si sarebbero fermati dinanzi a niente pur di riguadagnare ciò che avevano perso e portare avanti le proprie ritorsioni.

    L’82ª e gli italiani non potevano fare molto: faticavano già così a mantenere la zona in sicurezza. L’esercito afghano e le forze di polizia avevano la stessa mentalità dei talebani – andare in letargo per l’inverno, concentrandosi sul riuscire a superare la primavera. Dagger 22 era l’unica forza in loco in grado di concentrarsi principalmente sull’attacco alle strutture di comando talebane nella vallata. L’obiettivo era chiaro: ucciderli o causare così tanti danni da rendergli impossibile coordinare e lanciare un’offensiva contro FOB Todd in primavera. E qui ha inizio la nostra storia.

    1

    UN’ALBA PIÙ SCURA

    31 dicembre 2009

    FOB Todd

    Afghanistan occidentale

    Vivere a Bala Murghab era come stare in esilio; nel migliore dei casi le giornate erano monotone e tediose. Il freddo si andava facendo più intenso, non si limitava più a congelare le tende durante la notte, ma si protraeva fino a giorno inoltrato, finché il soffice terreno fangoso del nostro complesso non divenne gelido e duro come la roccia.

    La squadra fu abbastanza fortunata da poter disporre del proprio generatore mobile da cui ricavare calore e corrente elettrica. A volte il carburante si esauriva nel cuore della notte, facendo precipitare le temperature nella tenda di parecchio sotto lo zero nel giro di pochi minuti, e i ragazzi sprofondavano dentro i sacchi a pelo per tenere a bada i brividi. Parecchie notti era una benedizione essere di turno alla radio dentro il Centro operazioni tattiche (COT) della squadra, che consisteva in due container riadattati con un minimo di coibentazione per impedire al calore di sfuggire all’esterno.

    Per quanto misere ritenessimo le condizioni di vita alla nostra base, ai ragazzi dell’82ª aviotrasportata e ai soldati afghani sparsi nei vari avamposti e posti di blocco della vallata andava anche peggio. Dal gruppo misto di italiani e americani che ora occupavano l’avamposto di combattimento (COP) Pathfinder presero in prestito vecchie stufe a petrolio H-45 per riscaldare il loro piccolo capanno di compensato. I ragazzi di COP Corvette, sul confine del villaggio di Ludina, non potevano fare altro che bruciare tutto quello che gli capitava sotto mano. Non passò molto tempo prima che iniziassero a ricorrere alla compravendita e al baratto con gli abitanti dei villaggi locali pur di procurarsi legna da ardere e impedire alla loro piccola capanna di fango di trasformarsi in una cella frigorifera.

    Era dura trovare il coraggio di lamentarsi delle nostre condizioni di vita a FOB Todd, quando a meno di due chilometri di distanza c’erano uomini che soffrivano in silenzio, mentre le giornate si andavano facendo sempre più fredde. Se non altro avevamo a disposizione un pasto caldo due volte al giorno, presso la piccola mensa gestita dagli italiani in un vecchio tendone davanti al centro di comando dell’82ª, dove il mio amico Danny lavorava tutti i giorni per sedici ore. Mentre loro tiravano avanti con pasti pronti (MRES) e gli occasionali vassoi di cibi caldi forniti dalle pattuglie di rifornimento della base operativa, noi potevamo goderci l’opportunità di sedere in un tendone riscaldato a mangiare pane fresco, preparato dai cuochi italiani in un forno a legna improvvisato in fondo al tendone, ricavato da alcuni vecchi mattoni.

    Per quanto la vita a Bala Murghab facesse schifo, sarebbe potuta andare anche peggio. In Afghanistan le cose potevano precipitare del tutto nel giro di un battito di ciglia. Era meglio essere grati del poco che si aveva.

    Ricordo ancora la prima volta che incontrai Danny di persona. Era circa il terzo giorno dall’inizio della missione di recupero dei due paracadutisti scomparsi e la nostra squadra era arrivata nella valle appena qualche ora prima che i due soldati annegassero tragicamente nel fiume. Ero rimasto in contatto per più di trenta ore con il flusso continuo di velivoli che ci venivano inviati, perché all’epoca ero l’unico controllore aereo qualificato della vallata. Durante un breve viaggio di ritorno alla base operativa per recuperare pile nuove per la mia radio, prima di imbarcarmi in una malaugurata missione notturna verso il margine settentrionale della valle, mi fermai al Centro operativo di comando (COC) dell’82ª aviotrasportata.

    Al centro della stanza, circondato da una sfilza di computer e radio, vidi un sergente maggiore molto indaffarato. Immaginai che si trattasse di Barbarian Fires (incendi barbari), l’identificativo radio di Danny: basso di statura, capelli scarmigliati, circondato da lattine di Coca-Cola vuote e da block notes pieni di griglie. Sembrava esausto quanto me, ma lo avvicinai lo stesso e allungai la mano. Alzò gli occhi mentre gli dicevo il mio nome, aggiungendo: «Ehi, sono il tizio all’altro capo della radio. Volevo solo presentarmi e collegare una faccia alla mia voce».

    Mi strinse la mano e rispose: «Danny. Sei sveglio da quasi trenta ore. Maledizione, amico. Benvenuto a BMG».

    Da quel giorno di circa due mesi prima, Danny e io eravamo diventati buoni amici e continuavamo a lavorare fianco a fianco nella stessa battaglia. Ognuno dei due era diventato il collegamento principale tra le nostre due unità, anche quando le cose nella valle avevano iniziato a cambiare.

    Per quanto riguardava la squadra, gennaio non portò con sé solo un nuovo anno, ma anche nuove opportunità di operare fuori dai confini della base insieme al nostro piccolo gruppo raffazzonato di soldati dell’esercito afghano (ANA), che eravamo riusciti a sottrarre al controllo del loro comandante, il colonnello Ali. Il grosso dei dieci uomini che avevamo ottenuto proveniva dal plotone che occupava il posto di blocco della Scuola di Alkazai; si sistemarono in un grosso tendone che riuscimmo a procurarci. Pat e Jack, i due supervisori della squadra, erano i principali responsabili dell’organizzazione della routine quotidiana e tenevano d’occhio quei ragazzi.

    Il rispetto che nutrivo nei confronti di Pat non aveva fatto che crescere durante il periodo in Afghanistan. Il suo atteggiamento mentale nei confronti della guerra era da ammirare; non avevo dimenticato la mia prima impressione su di lui, durante l’addestramento in Nevada di qualche mese prima, in preparazione alla partenza.

    Avevo passato poco tempo con la squadra e ne conoscevo appena i membri, ma Pat saltava già all’occhio: energico e appassionato di tutto ciò che avesse a che vedere con l’esercito e mai troppo impegnato da non poter aiutare o spiegare qualcosa.

    Pat e Jack erano entrambi Marine delle forze speciali di ricognizione, riassegnati a MARSOC come molti degli altri ragazzi della squadra. Jack era un tipo pacato e mi fidavo moltissimo di lui; avevamo molto in comune: eravamo coetanei, entrambi sposati con figli e condividevamo la nozione di fondo che la vita militare avesse fatto il proprio corso per noi e le nostre famiglie. Pat e Jack erano due tipi in gamba su cui fare affidamento quando il gioco si faceva duro, e io cercavo di essere lo stesso per loro.

    All’inizio ci andammo leggeri con i nostri colleghi dell’ANA – qualche pattuglia a piedi nella zona circostante il bazar e a COP Pathfinder, dall’altro lato della valle. Volevamo vedere se riuscivano a gestire le basi: essere pronti a partire di pattuglia in qualsiasi momento, mantenere operative le armi e tutta l’attrezzatura – roba di base – il genere di cose che i Marine imparavano al centro di addestramento. La maggior parte dell’equipaggiamento personale, come calze, stivali e giacche, era destinata al baratto con gli abitanti locali in cambio di cibo. All’inizio tenemmo i soldati dell’ANA all’interno della zona di sicurezza; l’ultima cosa che volevamo era coinvolgerli in uno scontro a fuoco appena arrivati. Ci sarebbero state fin troppe opportunità più avanti.

    Costruire un rapporto di fiducia e confidenza è la parte più difficile e più importante quando si collabora con forze indigene. Se dovevano reagire bene e rendersi utili durante un conflitto a fuoco, i soldati afghani dovevano sapere di poter contare su di noi.

    Questo era un compito affidato a operatori come Pat e Jack; la mia specialità era tenere i contatti con la forza aerea, anche se non l’avevo più fatto da quando ce n’eravamo andati dall’Obiettivo Pathfinder. È una forma d’arte, un’abilità che tende a deteriorarsi se non viene messa a frutto.

    Il momento saliente delle mie giornate adesso consisteva nella consegna settimanale dei rifornimenti aviolanciati, che in genere avveniva ben oltre la mezzanotte, mentre il resto del personale della base operativa dormiva. Non ero proprio io a controllarla, ero solo una specie di baby-sitter e mi limitavo a comunicare al velivolo informazioni di base, come la velocità del vento, prima di dare il via libera per la consegna del carico.

    Il campo tra la base operativa e gli alti contrafforti montuosi sul lato occidentale della valle veniva utilizzato come zona di aviolancio. L’unica cosa piacevole dello svegliarsi alle due del mattino per ricevere un lancio CDS (Container Delivery System, sistema di consegna dei contenitori) era la possibilità di vedere la meravigliosa distesa di stelle nel cielo privo di nuvole. In genere aspettavo in piedi sul muro perimetrale della base con la mia radio e le cuffie Peltor, in attesa che l’aereo cargo C-130 previsto in arrivo rompesse il silenzio radio e stabilisse una comunicazione. Il cielo notturno mi ricordava i campeggi sulle montagne del Colorado.

    L’assenza di illuminazione moderna permetteva una visuale più profonda dello spazio, lasciando intravedere venti stelle in più per ognuna di quelle che si osservavano in genere nelle periferie o nei sobborghi delle città. Si riusciva a distinguere persino la nebulosa fascia esterna della Via Lattea, che si allungava da orizzonte a orizzonte. Nella notte silenziosa e bellissima, anche con il vento gelido che mi penetrava nella giacca e mi intorpidiva le guance, ancora una volta mi ritrovai a riflettere tra me e me…

    L’Afghanistan sarebbe un Paese bellissimo da visitare se solo non tentassero tutti di ucciderti.

    Con indosso gli occhiali da visione notturna PVS-15, nelle notti limpide riuscivo a distinguere il profilo dell’aereo cargo mentre sorvolava la Porta dell’Inferno, le due alte montagne che si fondevano sopra il fiume al margine più meridionale della valle. Mentre gli effetti dell’inverno inoltrato si facevano sentire con più intensità, il bisogno di carburante per alimentare il generatore della squadra si fece più pressante. I generatori militari consumavano carburante JP-8 come un bambino obeso a un buffet pieno di dolci. Alcuni lanci CDS consistevano unicamente di carburante: venti bancali contenenti quattro barili da circa duecentodieci litri di JP-8 precipitavano giù da un C-17, mentre sorvolava tonante FOB Todd a trecento metri di quota.

    Il carburante in Afghanistan è linfa vitale; è ai primi posti insieme ad acqua e munizioni. Se non ne hai, sei decisamente fregato.

    Nonostante lo splendido panorama, i CDS erano in genere piuttosto monotoni. Qualche volta capitava un paracadute che non si apriva bene. Questi fallimenti erano denominati burn-in. Una volta che il bancale veniva scagliato fuori dal retro del cargo, se il paracadute non prendeva abbastanza aria il carico precipitava a terra senza rallentare. Trascinato dietro di lui, il paracadute sembrava una specie di lunga coda color verde scuro. Il bancale produceva un suono sordo schiantandosi a terra. Era una delle ragioni principali per cui i soldati di turno nella zona di aviolancio si rintanavano all’interno dei veicoli corazzati cinque minuti prima che venisse sganciato il carico. Incredibilmente alcuni dei bancali sopravvivevano allo schianto mortale, mentre altri si incendiavano all’impatto, distruggendo tutte le provviste in essi contenuti.

    Quando non stavo controllando il traffico aereo, mi sentivo abbastanza inutile per il resto della squadra e, se non sei in missione, la noia diventa il tuo peggior nemico.

    Da quando PRO 6, il comandante di battaglione dell’82ª, se n’era andato da Bala Murghab, il ritmo operativo della squadra era rallentato di dieci volte. L’Operazione Buongiorno era stata la nostra ultima missione importante e ora ci limitavamo a quello che la nostra controparte dell’ANA era in grado di gestire.

    Era una buona cosa? Sì e no.

    Uscire regolarmente dai confini della base per contribuire alla battaglia era appagante, ma d’altro canto essere assegnati a ogni missione di reazione immediata finiva per stancare in fretta.

    Avere a disposizione del tempo di inattività mi consentì di lavorare ad altre cose per aiutare Rob e il resto della sezione di intelligence. Finalmente riuscii a preparare il mio drone Raven B, piccolo e leggero velivolo a elica con una camera montata su un lato, facile da approntare con breve preavviso. Se le unità in zona non erano direttamente coinvolte in un conflitto a fuoco, i mezzi aerei erano praticamente inesistenti, soprattutto per via della nostra posizione remota e della scarsa priorità data ai mezzi aerei per ragioni differenti dall’ingaggio attivo.

    Volevo davvero aiutare Rob in ogni modo possibile. Di tutta la squadra era quello che rispettavo di più. Era un leader naturale e aveva l’esperienza e la sicurezza necessarie a ricoprire quel ruolo. Era uno dei membri esperti dei Force Recon Marine, cui veniva assegnato un incarico ulteriore di intelligence dopo aver ricevuto un adeguato addestramento. Rob aveva

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