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E-book328 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Tenleigh Falyn lotta ogni giorno per la sopravvivenza, nella povera cittadina di provincia in cui vive insieme alla sorella e alla madre malata. Il suo sogno è quello di vincere una borsa di studio assegnata dall'impresa locale al migliore studente. Per Tenleigh significherebbe sfuggire alla miseria e lasciarsi la sofferenza alle spalle.
Anche Kyland Barrett vive tra le colline e si impegna duramente, nonostante la fame, la solitudine e tutte le difficoltà, per accedere alla borsa di studio. 
Sono entrambi determinati e non hanno alcuna intenzione di complicare le cose affezionandosi l'una all'altro, ma un momento di intesa è destinato a cambiare tutto. Che cosa succederà quando solo uno di loro avrà la possibilità di andarsene? Troverà il coraggio di voltare le spalle al proprio cuore?

Mia Sheridan
è una scrittrice bestseller di «New York Times», «USA Today» e «Wall Street Journal». La sua passione sono le grandi storie d’amore. Vive a Cincinnati, nell’Ohio, con il marito e quattro figli.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2019
ISBN9788822734785
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    Anteprima del libro

    Torna da me per sempre - Mia Sheridan

    La leggenda del Toro

    La leggenda del Toro narra di un toro solo ed errante di nome Cerus. Sebbene non fosse immortale, tutti pensavano che lo fosse a causa della sua incredibile forza.

    Cerus era selvaggio e senza alcun controllo; non apparteneva a nessuno. Un giorno, la dea della primavera, Persefone, lo trovò a calpestare un campo di fiori e gli si avvicinò. La sua bellezza e la sua gentilezza lo calmarono e si innamorò di lei. La dea ammansì Cerus, insegnando al toro la pazienza e a usare la sua forza con saggezza.

    In autunno, quando Persefone si ricongiunge a Ade, Cerus viaggia nel cielo e si trasforma nella costellazione del Toro. In primavera, quando Persefone ritorna sulla terra, anche Cerus fa lo stesso per unirsi a lei. Ella si siede sul suo dorso e il toro corre tra i campi soleggiati, mentre la dea fa rifiorire le piante e i fiori.

    Capitolo uno

    Tenleigh

    Diciassette anni

    La prima volta in cui ho davvero notato Kyland Barr ett stava sgraffignando gli scarti della colazione di qualcuno da un tavolo della mensa. Avevo distolto lo sguardo, cercando di preservare la sua dignità, una reazione istintiva da parte mia. Ma poi lo avevo guardato di nuovo mentre camminava verso di me diretto alla porta, ficcandosi la piccola porzione di cibo avanzato in bocca. I nostri occhi si incontrarono, i suoi illuminandosi per un attimo e poi stringendosi mentre io, di nuovo, distoglievo lo sguardo, sentendomi le guance infiammarsi come se mi fossi appena intromessa in un momento profondamente personale. E così era. Lo sapevo bene. Lo avevo fatto anch’io. Ne conoscevo la vergogna. Ma conoscevo anche il doloroso vuoto di un lunedì mattina dopo un lungo, affamato fine settimana. Era evidente che ne sapeva qualcosa anche Kyland.

    Ovviamente, lo avevo già visto prima. Avrei scommesso che chiunque di sesso femminile aveva lasciato indugiare gli occhi su di lui, col suo viso straordinariamente bello e la sua corporatura alta e robusta. Ma quella fu la prima in cui lo vidi davvero, la prima volta in cui sentii nel petto un moto di comprensione per quel ragazzo che sembrava avere sempre un’espressione di nonchalance, come se non gli importasse di niente e di nessuno. Mi erano molto familiari gli uomini a cui non fregava un cazzo di niente. Portavano problemi da cui preferivo tenermi alla larga.

    Ma, a quanto sembrava, non tutte le ragazze della scuola si facevano troppi scrupoli su questo rischio, perché se Kyland era in compagnia di qualcuno, era sempre di sesso femminile.

    Era una scuola grande, che accoglieva studenti da tre paesini diversi. Avevo avuto poche lezioni insieme a Kyland nei tre anni e mezzo che avevamo frequentato il liceo e si sedeva sempre in fondo all’aula, pronunciando raramente qualche parola. Io mi sedevo sempre davanti, in modo da poter vedere la lavagna (probabilmente ero miope, non che potessimo permetterci una visita oculistica, ancora meno un paio di occhiali). Sapevo che aveva buoni voti. Sapevo che doveva essere intelligente a dispetto di quel suo fare all’apparenza svogliato. Ma dopo quel giorno in mensa, non riuscivo a fare meno di guardarlo diversamente e i miei occhi sembravano trovarlo sempre. Lo cercavo nel corridoio affollato di studenti che si dirigevano con calma alle loro lezioni come mandrie guidate verso pascoli più verdi, nella mensa o quando camminava davanti a me. La maggior parte delle volte lo trovavo con le mani affondate in tasca e, se invece erano fuori, con la testa bassa contro il vento. Mi piaceva guardare il modo in cui si muoveva il suo corpo e mi piaceva che non lo sapesse. Ormai mi aveva incuriosita. E all’improvviso il suo sguardo mi sembrò più diffidente che insensibile o distante. Sapevo pochissimo di Kyland. Viveva sulle colline come me. E, a quanto sembrava, non aveva molto di che mangiare, ma non eravamo in pochi a essere affamati dalle nostre parti.

    In mezzo a distese di colline verdi, montagne dalla vista mozzafiato, cascate e caratteristici ponti coperti si trova Dennville, in Kentucky, una parte dei monti Appalachi che farebbe impallidire tutti i bassifondi urbani, dove la disperazione è un luogo comune tanto quanto le querce, e la disoccupazione è la regola più che l’eccezione.

    Mia sorella maggiore, Marlo, dice che Dio ha creato gli Appalachi e poi se ne è prontamente andato per non ritornarci mai più. Qualcosa dentro di me sospettava che le persone deludessero Dio più spesso di quanto lui deludesse loro. Ma cosa ne sapevo io di Dio, comunque? Non andavo nemmeno in chiesa.

    Ciò che invece capivo era che in un posto come Dennville, in Kentucky, era Darwin che ci aveva visto giusto: solo i più forti sopravvivevano.

    Dennville non era sempre stata così marcia, però. C’era stato un tempo in cui la miniera di carbone era aperta e le famiglie della zona avevano uno stipendio decente, anche se alcuni dovevano compensare con i buoni spesa. Questo quando c’erano ancora almeno un paio di aziende floride in paese, lavori per chi ne cercava uno e persone che avevano qualche soldo da spendere. Persino noi che vivevamo in montagna in una triste schiera di casette, baracche e case mobili (i più poveri di tutti) sembravamo avere abbastanza per sopravvivere, al tempo. Ma poi ci fu l’esplosione. È passata alla storia come la peggiore tragedia mineraria degli ultimi cinquant’anni. Sessantadue uomini, la maggior parte con famiglie a casa che dipendevano da loro, rimasero uccisi. Sia il padre che il fratello di Kyland persero la vita quel giorno. Viveva in una casa minuscola in montagna, poco più giù della miniera, con sua madre invalida. Da cosa fosse affetta non lo so con precisione.

    Per quanto mi riguarda, vivevo con mia madre e mia sorella in una piccola roulotte annidata in un boschetto di pini. Nei mesi invernali, il vento ci soffiava attraverso e faceva oscillare il rimorchio così violentemente che ero certa che si sarebbe ribaltato. Ma in qualche modo era riuscito a tenere duro fino a quel momento. In qualche modo, tutti noi sulla montagna eravamo riusciti a tenere duro. Fino a quel momento.

    Un giorno di fine autunno, mentre risalivo la strada che conduceva alla roulotte, stringendomi nel maglione mentre il vento mi soffiava tra i capelli, vidi Kyland camminare poco più avanti di me. All’improvviso, Shelly Galvin mi superò per raggiungerlo e lui si girò e annuì mentre lei gli camminava a fianco, d’accordo con qualcosa che aveva detto. Li persi di vista quando girarono a una curva lungo la strada e mi lasciai traportare dai miei pensieri. Pochi minuti dopo, quando girai anch’io, non c’era traccia di loro, ma, mentre attraversavo un boschetto di noci, sentii Shelly ridacchiare e mi fermai a sbirciare tra la boscaglia. Kyland la teneva stretta contro un albero e la baciava come un animale selvaggio, indomabile. Lei aveva la schiena rivolta verso di me, per cui potevo vedere solo il volto di lui. Non so perché rimasi lì, a guardarli, intromettendomi palesemente nella loro privacy, anziché continuare a camminare. Ma qualcosa nel modo in cui Kyland aveva gli occhi chiusi e un’aria di calda, infiammata concentrazione mentre muoveva la sua bocca su quella di lei mi fece serrare le gambe e, presa dalla lussuria, un’ondata di calore mi invase le vene. Le mise una mano sul seno e lei emise un gemito dal fondo della gola. I miei stessi capezzoli si inturgidirono, come se fosse me che stava toccando. Mossi un braccio per afferrare l’albero che avevo accanto e il lieve rumore che feci muovendomi dovette catturare la sua attenzione, perché i suoi occhi si spalancarono e cominciò a fissarmi mentre continuava a baciare Shelly. Le guance gli si incavavano leggermente mentre faceva qualcosa con la lingua che potevo solo immaginare. E lo stavo effettivamente immaginando. Una calda vergogna mi salì in viso mentre i nostri occhi si incrociavano. Non fui più capace di muovermi; lui strinse gli occhi. Mentre la realtà riprendeva il sopravvento, incespicai all’indietro, piena di umiliazione.

    E gelosia. Ma difficilmente lo avrei ammesso. No. Problemi da cui volevo tenermi molto alla larga.

    Mi voltai e corsi su per la montagna fino alla mia roulotte, spalancando la porta di metallo, fiondandomi all’interno, sbattendo il portellone dietro di me e accasciandomi sul divano, in debito d’aria.

    «Santo cielo, Tenleigh», cantilenò mia mamma, in piedi nella minuscola cucina a mescolare in un pentolino sul fornello elettrico qualcosa che, dall’odore, sembrava essere zuppa di patate. Le rivolsi lo sguardo appena ripresi fiato. Gemetti dentro di me nel vedere che indossava un négligé e la sua lacera fascia Miss Abbronzatura del Kentucky sul petto. Stava velocemente diventando una pessima giornata. Su più versanti.

    «Ciao, mamma», dissi. «Faceva freddo fuori», fu tutto ciò che offrii come spiegazione. «Hai bisogno di aiuto?».

    «No, no. Ho tutto sotto controllo. Stavo pensando di portare qualcosa di caldo in città a Eddie. Adora la mia zuppa di patate e stanotte farà freddo».

    Feci una smorfia. «Mamma, Eddie sarà a casa sua con sua moglie e la sua famiglia stasera. Non puoi portargli la zuppa di patate».

    Una nuvola oscurò i lineamenti di mia mamma, ma mi rivolse un sorriso luminoso e scosse la testa. «No, no, la lascerà, Tenleigh. Non è adatta a lui. È me che ama. E avrà freddo stasera. Il vento…». Continuava a mescolare la zuppa, canticchiando dei motivetti sconosciuti e sorridendo tra sé e sé.

    «Mamma, hai preso la medicina oggi?», chiesi.

    Alzò la testa di scatto; uno sguardo confuso aveva preso il posto del sorriso. «Medicina? Oh, no, tesoro. Non mi servono più le medicine». Scosse la testa. «Quella roba mi fa venire voglia di dormire sempre… mi fa sentire strana». Arricciò il piccolo naso come se fosse una cosa così stupida. «No, ho smesso con quella medicina. E mi sento meravigliosamente!».

    «Mamma, io e Marlo ti abbiamo detto cento volte che non puoi semplicemente smettere di prendere le tue medicine». Andai verso di lei e le poggiai la mano sul braccio. «Mamma, ti sentirai meglio per un po’, ma poi la cosa finirà. Sai che ho ragione».

    Abbassò un po’ il capo mentre continuava a mescolare la densa zuppa. Poi scosse la testa. «No, questa volta sarà diverso. Vedrai. E stavolta Eddie ci porterà tutte nella sua bella casa. Capirà che ha bisogno di me… ha bisogno di tutte noi lì con lui».

    Il senso di sconfitta che mi inondò mi fece crollare le braccia. Ero troppo stanca per occuparmi di lei.

    Mia mamma si ravviò i capelli nocciola, il colore che avevo ereditato anch’io, e mi rivolse un altro sorriso luminoso. «Ho ancora un bell’aspetto, Tenleigh. Eddie dice sempre che sono la donna più bella di tutto il Kentucky. E questa fascia prova che non mente». I suoi occhi si fecero sognanti come accadeva sempre quando parlava del suo titolo di Miss Abbronzatura, vinto quando aveva la mia età. Si voltò verso di me e mi fece l’occhiolino. Sollevò una ciocca dei miei capelli e sorrise. «Sei bella proprio come io alla tua età», disse, ma poi assunse un’espressione corrucciata. «Vorrei avere i soldi per iscriverti a qualche concorso di bellezza. Sono certa che vinceresti come ho vinto io». Sospirò pesantemente e tornò a mescolare la zuppa.

    Fui colta di sorpresa dalla porta spalancata e da Marlo, che irruppe all’interno con le guance arrossate e il respiro affannato. Mi sorrise. «Dio, il vento è pungente oggi».

    Annuii, senza sorridere, e spostando lo sguardo su mamma, che stava versando a cucchiaiate la zuppa in un contenitore di plastica. Il sorriso sparì dal viso di mia sorella.

    «Ciao, mamma, cosa stai facendo?», chiese mentre si toglieva la giacca e la metteva da parte.

    Mamma alzò lo sguardo e sorrise gentile. «Porto la zuppa a Eddie», disse, facendo scattare il coperchio sul contenitore e portandolo poi con sé verso la nostra piccolissima zona pranzo.

    «No, non lo farai, mamma», disse Marlo, con una voce che suonava amara.

    Mamma sbatté le palpebre. «Invece sì, Marlo, lo farò».

    «Dammi la zuppa, mamma. Tenleigh, va’ a prendere la sua medicina».

    Mamma cominciò a scuotere vigorosamente la testa mentre mi precipitavo a prendere la sua medicina, quella medicina che a stento potevamo permetterci, quella medicina che avevo comprato con i soldi guadagnati spazzando i pavimenti e spolverando gli scaffali di Rusty’s, il minimarket del paese, di proprietà di uno dei più grandi coglioni della zona. Quella medicina per cui io e Marlo avevamo saltato i pasti pur di avere i soldi per comprarla.

    Sentii una zuffa dietro di me e mi affrettai in bagno, dove afferrai con mano tremante dall’armadietto delle medicine il flaconcino con le pillole di mamma.

    Quando corsi di nuovo nella stanza principale della roulotte, mamma stava piangendo e la zuppa era tutta per terra e addosso a Marlo. Mamma cadde sulle ginocchia, si portò le mani al viso e pianse. Marlo prese la medicina dalle mie mani e vidi che anche le sue tremavano.

    Si abbassò, si inginocchiò nel disordine accanto a mamma e la abbracciò, cullandola.

    «So che mi ama ancora, Mar. So che è così!», diceva piangendo. «Sono bella. Sono più bella di lei!».

    «No, mamma. Lui non ti ama», disse Marlo con dolcezza. «Mi dispiace. Ma noi . Io e Tenleigh ti amiamo tantissimo. Tantissimo. Abbiamo bisogno di te, mamma».

    «Vorrei solo qualcuno che si occupasse di noi. Ho bisogno di qualcuno che ci aiuti. Eddie ci aiuterebbe se solo io…».

    Ma quel pensiero si perse tra i singhiozzi mentre Marlo continuava a cullarla, senza dire un’altra parola. Le parole non servivano con mamma, non quando era in quello stato. Il giorno dopo si sarebbe tolta la fascia. Sarebbe rimasta a letto tutto il tempo. E dopo un paio di giorni, la medicina avrebbe fatto effetto e lei sarebbe tornata quanto possibile normale. E poi avrebbe deciso di non averne più bisogno e avrebbe smesso segretamente di prenderla e sarebbe ricominciato tutto da capo. E mi sarei dovuta chiedere di nuovo se fosse giusto che una diciassettenne fosse così stanca. Stanca fino alle ossa… esausta nell’animo.

    Aiutai mamma e Marlo a rialzarsi e somministrammo a mamma la sua medicina con un bicchiere d’acqua, la accompagnammo a letto e poi tornammo silenziosamente nella stanza principale. Ripulimmo la zuppa di patate, rimettendola a cucchiaiate nel Tupperware, cercando di salvarne quanta più possibile. Vivevamo una vita in cui sprecare cibo semplicemente non era accettabile, anche se era finito sul pavimento. Più tardi quella sera, mettemmo la zuppa in due ciotole e la mangiammo per cena. Sporca o no, ci riempì comunque lo stomaco.

    Capitolo due

    Tenleigh

    «C iao, Rusty», dissi entrando nel minimarket dove lavoravo dopo scuola quattro giorni a settimana. Avevo il fiatone ed ero zuppa per la pioggia. Mi passai una mano tra i capelli. Fuori stava appena cominciando a rasserenarsi.

    «Sei in ritardo. Di nuovo», mi ammonì lui.

    Tremai dentro di me di fronte al suo tono duro e lanciai un’occhiata all’orologio. Percorrere sei miglia dalla scuola, che si trovava a Evansly, in un’ora e quindici minuti era impossibile. Correvo per buona parte del percorso e arrivavo sempre in negozio sudata e senza fiato. Non che a Rusty interessasse. «Solo due minuti, Rusty. Resterò due minuti in più dopo, ok?», dissi offrendo il mio sorriso più bello. Il suo sguardo si fece solo più accigliato.

    «Resterai quindici minuti in più a causa della bottiglia di birra rotta nel pacco da sei che Jay Crowley mi ha portato in cassa stamattina».

    Strinsi le labbra.

    Il fatto che Jay Crowley comprasse birra la mattina presto non era scioccante, ma cosa c’entrassi io con una bottiglia di birra rotta non era chiaro, visto che era Rusty quello che spacchettava gli alcolici. In ogni caso, mi limitai ad annuire senza proferire parola mentre andavo nel retro a prendere il mio grembiule e la scopa.

    Era il primo del mese per cui dovevo pulire e ordinare gli scaffali delle bibite velocemente perché entro un’ora, non appena le carte di debito con i buoni spesa fossero state ricaricate, Rusty sarebbe stato affollato da gente con carrelli pieni di bibite gassate da vendere. Una vera e propria frode ai danni dello Stato: prendere i circa cinquecento dollari che una famiglia di quattro persone riceveva per mangiare per un mese, comprare bibite alla stazione di servizio di JoJo sull’autostrada e rivenderle a Rusty per cinquanta centesimi al dollaro, convertendo i sussidi del governo in duecentocinquanta dollari in contanti. Con i contanti si possono comprare sigarette, alcol, biglietti della lotteria… metanfetamine. Con i buoni spesa no. E Rusty era ben felice di quel guadagno, incurante che questo significasse che molti bambini non avrebbero avuto nulla da mangiare. In tutta onestà, comunque, se non fosse stato Rusty a comprare le bibite, sarebbe stato qualcun altro. Funzionava così dalle nostre parti.

    Un paio d’ore dopo, la folla si era ridotta e io stavo spolverando in fondo a uno scaffale quando suonò il campanellino sulla porta. Mi tenni occupata, quando con la coda dell’occhio vidi qualcuno aprire la porta del frigorifero sulla parete di fondo. I miei occhi incontrarono quelli di Kyland Barrett mentre lui si girava e io mi alzavo da dov’ero rannicchiata, faccia allo scaffale. Il mio sguardo cadde sulla sua mano, che nascondeva un sandwich all’interno della giacca. I suoi occhi si spalancarono e sembrò scioccato per un secondo prima che il suo sguardo guizzasse dietro di me, da dove sentivo provenire dei passi. Girai la testa. Rusty si avvicinava lungo il corridoio, con il volto accigliato, mentre dalla giacca di Kyland, dietro di me, si intravedeva la protuberanza che nascondeva la sua mano con il sandwich. Se mi fossi spostata, lo avrebbe colto in flagrante. Presi una decisione in una frazione di secondo. Finsi di inciampare sgraziatamente, urtando varie scatole di Cheerios sicuramente raffermi, cereali non zuccherati mai venduti, che caddero dal ripiano mentre lanciavo un gridolino. Non so bene perché lo feci, forse lo sguardo impaurito sul volto di Kyland toccò qualcosa dentro di me, forse per l’esperienza della fame che ci accomunava. Decisamente non fu perché sapevo che la mia reazione istintiva avrebbe alterato completamente il corso della mia intera esistenza.

    Misi goffamente i piedi sulle scatole, schiacciandole e facendo riversare i cereali sul pavimento.

    «Che problema hai, stupida ragazzina?», domandò Rusty a voce alta, piegandosi per raccogliere un contenitore ai suoi piedi mentre Kyland ci passava accanto. «Sei licenziata. Ne ho abbastanza di te». Sentii il campanellino della porta e mi alzai velocemente, incrociando ancora lo sguardo di Kyland mentre si girava, con gli occhi sgranati e un’espressione indecifrabile. Si fermò per un istante, trasalendo leggermente, poi la porta si richiuse dietro di lui.

    «Mi dispiace, Rusty. È stato un incidente. Per favore, non licenziarmi». Avevo bisogno di quel lavoro. Per quanto odiassi doverlo implorare, c’erano delle persone che contavano su di me.

    «Ti ho dato abbastanza possibilità. Domani ci sarà la fila fino alla strada per avere questo lavoro». Mi puntò un dito contro, con occhi freddi e cattivi. «Avresti dovuto apprezzare ciò che avevi e lavorare più duramente. Il tuo bell’aspetto non ti porterà da nessuna parte nella vita se non hai la testa sulle spalle».

    Ne ero consapevole. Dolorosamente consapevole. Mi bastava guardare mia madre per averne la prova tangibile.

    Il sangue mi schizzò alle orecchie. Sentivo il collo caldo. Mi tolsi il grembiule e lo lanciai a terra mentre Rusty continuava a borbottare di quanto ingrato e inutile fosse stato il mio aiuto.

    Uscii dal negozio pochi minuti dopo. Il sole stava calando sulle montagne dietro di me e il cielo si era colorato di rosa e arancione. L’aria era fredda e aveva l’odore fresco e pungente di pioggia e di pini. Feci un respiro profondo, avvolgendomi nelle mie stesse braccia, persa e sconfitta. Aver perso il lavoro era davvero una cattiva notizia. Marlo mi avrebbe uccisa. Ringhiai ad alta voce. «Qualcos’altro?», sussurrai all’universo. Ma non era stato l’universo il responsabile della mia stupida scelta. Ero io l’unica colpevole.

    A volte la mia vita mi sembrava così piccola. E mi chiedevo perché a noi, a cui erano state date vite così piccole, toccasse comunque avere dei dolori così grandi. Mi sembrava ingiusto.

    Mi misi le mani in tasca e cominciai a camminare fino ai piedi della montagna, con lo zaino su una spalla. In estate e in primavera leggevo mentre camminavo e la strada mi era talmente familiare che potevo concentrarmi sul mio libro. Le auto passavano raramente e, se lo facevano, avevo tutto il tempo di sentirle arrivare in lontananza. Ma una volta iniziato l’autunno era troppo buio quando uscivo da Rusty (e questo ormai non sarebbe più stato un problema), per cui camminavo e tenevo la mente occupata. E anche quella sera feci lo stesso. Avevo bisogno di distrarmi sognando. Di focalizzarmi sulla speranza che la vita non sarebbe sempre stata così dura. Mi immaginai vincere la borsa di studio della Tyton Coal, quella per cui stavo lavorando sodo dall’inizio del liceo. Ogni anno, uno dei migliori studenti veniva scelto per vincere la borsa di studio che gli o le avrebbe pagato le spese di quattro anni di università. Se l’avessi vinta, avrei finalmente potuto lasciare Dennville, la povertà e la disperazione, le frodi allo Stato e i montanari spacciatori di farmaci. Avrei finalmente potuto provvedere a mamma e Marlo, portarle via da lì, far aiutare mamma da un vero professionista e non da quel dottore con lo sguardo vuoto all’ospedale, che sospettavo essere al centro del business dello spaccio di farmaci. Mi sarei fermata da Rusty andando via dal paese e gli avrei detto di ficcarsi una scatola di Cheerios stantii su per quel suo sporco culo rachitico.

    Girato l’angolo ai piedi della montagna, vidi l’anziana signora Lytle seduta sui gradini dell’ormai chiuso ufficio postale che mangiava ciò che restava di un sandwich confezionato. Strizzai gli occhi e le sorrisi debolmente quando i suoi occhi incrociarono i miei. Il mio sguardo si spostò verso la carta nella sua mano con la scritta Rusty’s – Prosciutto e formaggio e un grande bollino rosso con la data odierna. Era quello che Kyland Barrett aveva rubato dieci minuti prima. «Buonasera, signora Lytle», dissi. Lei annuì, sgranando gli occhi tristi mentre dava l’ultimo morso al sandwich. La signora Lytle ormai era quasi parte del paesaggio… un’alcolizzata che vagava per le strade del nostro minuscolo paese, mormorando tra sé e sé e collezionando spiccioli dai passanti per alimentare la sua dipendenza. Aveva perso tutti e tre i suoi figli e il marito nell’incidente della miniera. Sospettavo che desiderasse seguirli al più presto. «Se la caverà stasera, signora Lytle?», chiesi, ficcandomi le mani ancora più a fondo nelle tasche. Non che potessi offrirle qualcosa se ne avesse avuto bisogno, ma volevo che sapesse che le ero vicina. Magari era già qualcosa.

    Annuì, continuando a masticare. «Oh, penso di sì», biascicò. «Andrò da qualche parte appena avrò finito di godermi questo spettacolo». Indicò con la testa il sole calante.

    Annuii in risposta, lasciando andare un sospiro e sorridendole. «Va bene, allora. Buonanotte».

    «Notte».

    Mentre cominciavo a camminare lungo la strada polverosa su per la montagna, qualcuno mi si parò davanti, facendomi sfuggire un grido spaventato e indietreggiare proprio dentro una pozzanghera di fango. Kyland.

    Ansimai. «Mi hai spaventato!». Mi allontanai dalla pozzanghera e sentii l’umidità penetrare nei calzini, dove le suole delle scarpe erano rotte o cedevano. Ottimo. Grazie, Kyland.

    Mi guardò i piedi, ma non fece menzione delle mie scarpe rovinate. Strinse gli occhi e mi studiò per qualche secondo. «Perché l’hai fatto? Al negozio. Perché mi hai aiutato?». La mascella gli tremava per la rabbia.

    Strinsi anch’io gli occhi, inclinando leggermente la testa. Lui era arrabbiato con me? Che cavolo! «Perché hai dato il sandwich alla signora Lytle?», chiesi. «Perché non lo hai mangiato tu?». Incrociai le braccia. «So che ti serve il cibo». Abbassai lo sguardo dopo il riferimento a quel momento privato nella mensa in cui i nostri occhi si erano incrociati. Ma poi guardai di nuovo di fronte a me.

    Non mi rispose e restammo entrambi a fissarci per pochi, silenziosi secondi. Alla fine, disse: «Ti ha licenziato?».

    Il suo viso era teso e serio e non potevo che ammirare la sua mascella forte, la dritta linea del naso, la pienezza delle sue labbra. Sospirai. Non sarebbe venuto nulla di buono da quel mio attento osservare. «Sì, mi ha licenziato».

    Kyland si ficcò le mani in tasca e quando cominciai a camminare lo fece anche lui, imprecando sottovoce. «Merda. Avevi bisogno di quel lavoro».

    Mi scappò

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