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I segreti del giardino del tè
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I segreti del giardino del tè
E-book685 pagine9 ore

I segreti del giardino del tè

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Info su questo ebook

Libby arriva in India piena di aspettative, ma i tumulti e l’ostilità verso i britannici potrebbero mettere in discussione ogni certezza

Con la fine della seconda guerra mondiale, Libby Robson lascia l’Inghilterra per raggiungere la casa in cui ha trascorso l’infanzia, in India, e il suo adorato padre, James. La folgorante bellezza dell’Asia la conquista subito: il brusio vivace di Calcutta, il profumo dei giardini di Assam... Ma una terribile minaccia si nasconde dietro l’apparente bellezza e tranquillità. Il Paese è sull’orlo di una rivolta e i giorni del dominio britannico sembrano contati. In quanto proprietario di una piantagione di tè, James incarna l’odiato regime coloniale. Costretta a confrontarsi con fatti e intrighi che non immaginava, Libby mette in discussione i ricordi idealizzati della sua infanzia, specialmente dopo l’incontro con l’affascinante Ghulam Khan, che combatte per la libertà del suo popolo. Mentre le tensioni crescono, nessuno è più al sicuro. E quando i segreti del passato di suo padre verranno alla luce, Libby vedrà le proprie certezze crollare: di fronte a lei c’è una vita da ricostruire.

Numero 1 in Inghilterra
Bestseller in Francia, Spagna, Russia e Italia
Finalista al Romantic Novel Award

Perfetto per gli amanti di Lucinda Riley e Dinah Jefferies

Janet MacLeod Trotter
È cresciuta nel Nordest dell’Inghilterra. È autrice di sedici bestseller, inclusa la popolare Jarrow Trilogy, e di un memoir, Beatles & Chiefs, presentato alla BBC Radio Four. La Newton Compton ha pubblicato La figlia del mercante di tè, finalista al Romantic Novel Award, La promessa sposa del mercante di tè e La ragazza nel giardino del tè.
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2020
ISBN9788822741356
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    Anteprima del libro

    I segreti del giardino del tè - Janet MacLeod Trotter

    Capitolo 1

    Caffè Herbert, Newcastle, Inghilterra, agosto 1946

    Libby Robson sentì un uomo chiamare il suo nome e si voltò. Per poco non le cadde di mano il vassoio pieno di tazze di tè sporche, per lo stupore. George Brewis!

    «Be’, accidenti, signorina Robson», disse George con un fischio d’apprezzamento. «Sei diventata una vera bellezza».

    Libby rise, e il suo viso chiaro divenne paonazzo sotto quello sguardo ammirato. «E tu sei sempre un adulatore spudorato, George Brewis!».

    «Ci puoi giurare». Sorrise. «Ti trovo benissimo».

    Libby sapeva di essere in disordine e sudata. Era il tardo pomeriggio di una domenica rovente e nella caffetteria mancava l’aria, anche se ormai era quasi l’ora di chiusura, quindi era vuota. Sentiva il vassoio scivoloso tra le mani. Se solo avesse saputo che lui sarebbe sbucato dal nulla, avrebbe indossato un vestito invece dei pantaloni sotto quel grembiule antiquato, si sarebbe messa un velo di rossetto e si sarebbe spazzolata i capelli rosso scuro invece di legarli con un elastico.

    George sembrava scoppiare di salute, il bel viso arrossato – con qualche piccola ruga intorno agli occhi – e i capelli e i baffi biondi ben curati. Le tornò in mente la cotta che aveva avuto da ragazzina per lui e ne fu sopraffatta ancora una volta.

    Libby riuscì a ritrovare la voce. «Non eri a Calcutta in questo periodo, a lavorare per Strachan’s?».

    Lui inarcò un sopracciglio. «Vedo che sei ben informata».

    «Mia cugina Adela mi scrive spesso».

    «Già, be’, è stata lei a dirmi che dai una mano qui. Tutti in famiglia ti sono molto grati per come aiuti Lexy nei tuoi giorni liberi».

    «Per me non è un problema: in fondo non c’è poi molto altro da fare, di sabato».

    «Be’, i ragazzi da queste parti non devono essere troppo interessanti, allora», le disse facendole l’occhiolino.

    Libby sentì le farfalle nello stomaco. Non poteva essere andato lì apposta per vedere lei, vero? Provò un folle senso di soddisfazione. Da anni considerava George un vero e proprio idolo.

    «Ti trattieni a lungo prima di tornare in India?», gli chiese, cercando di mostrarsi disinvolta anche se il cuore le batteva all’impazzata.

    «No, appena il tempo di sistemare alcune questioni di famiglia».

    Libby ebbe una fitta di delusione. Non lo vedeva da tre anni – da quando lui era stato nella Fleet Air Arm – ma aveva pensato spesso a lui. Aveva perso la testa per George quando l’aveva conosciuto a una festa di Natale organizzata al Caffè Herbert durante la guerra, e lui l’aveva riempita di attenzioni e complimenti. Lei era solo una goffa quindicenne, mentre George aveva ben dodici anni più di lei, eppure era stato capace di rallegrare gli animi di tutti con il suo canto sfrenato e la sua natura spensierata. Il venditore di tè era stato gentile con Libby e l’aveva invitata a cantare insieme a lui. A diciotto anni, le si era spezzato il cuore quando lui si era arruolato e poco tempo dopo si era sposato con una barista di nome Joan, da cui aveva avuto una figlia.

    Tuttavia, Libby aveva sentito dire che il matrimonio non andava affatto bene. Non riuscì a trattenersi dal chiedere: «Joan viene con te in India, stavolta?»

    «No». La guardò dritto negli occhi. «Mia moglie ha un altro uomo. Sono tornato per firmare il divorzio».

    «Oh, capisco. Mi spiace».

    «Non devi dispiacerti. Non siamo mai stati davvero sposati, con me sempre lontano con la Fleet Air Arm e lei… be’, diciamo solo che in questo momento desideriamo entrambi una vita diversa».

    Proprio in quel momento Lexy, la direttrice del locale, arrivò a passo pesante dalla cucina, con il fiato corto. Emise un gridolino strozzato. «Cosa vedo? Il mio ragazzone preferito! Come stai, caro George?»

    «Non potevo lasciare Newcastle senza passare al Caffè Herbert a salutare le mie belle ragazze», rispose lui dandole un bacio su una guancia.

    Il viso tondo e molto truccato di Lexy si distese in un sorriso estatico. «Resti a mangiare una fetta di torta? Voglio sapere tutte le novità». Si portò una mano sul petto ansante.

    «Siediti, Lexy», le ordinò Libby. «Vado a prendere un tè per George mentre voi due chiacchierate».

    La donna si accomodò su una sedia, grata, facendo cenno a George di unirsi a lei. Libby li lasciò a parlare e corse in cucina, dove poggiò il vassoio e si asciugò la fronte con il lungo grembiule a balze. Non aveva idea del motivo per cui Lexy volesse a tutti i costi che indossassero quei cosi tanto scomodi. Forse le ricordavano i tempi in cui lei era ancora giovane e in buona salute, non una donna di sessant’anni con il cuore affaticato e grandi difficoltà a camminare.

    Doreen, la pronipote di Lexy, dalle guance rosa e i capelli ricci, stava lavando le stoviglie. «Sembri nervosissima. È appena entrato Clark Gable?».

    Libby rise. «Quasi. George Brewis in abito di lino e profumato di colonia».

    «Brewis? Parente di quella Jane che un tempo lavorava qui?»

    «Esatto, sono fratello e sorella. È la loro zia Clarrie ad aver fondato la caffetteria».

    «Ah, sì, quella che vive in India da anni. La zia Lexy parla di Clarrie Robson come se fosse la regina. È un vero peccato che non torni mai… questo posto forse non sarebbe andato in malora, se lei fosse rimasta».

    «Non credo proprio sia colpa di Clarrie», rispose Libby posando una a una le tazze che Doreen doveva lavare. «Si occupa a tempo pieno della piantagione di tè a Belgooree. Sua sorella, Olive Brewis, la madre di George, avrebbe dovuto prendere in mano la gestione del locale, ma la cosa non le è mai interessata».

    «Già», fece Doreen. «La signora Brewis è quella strana tipa che non esce mai di casa, giusto?»

    «Così pare». Libby cominciò a risistemare il vassoio, lanciando occhiate verso la caffetteria. George stava facendo ridere Lexy così tanto che la donna si mise a tossire.

    «Libby, pensavi di darmi un’altra lezione di dattilografia, questo fine settimana?», chiese Doreen facendo sbattere i piatti nel lavello.

    Libby esitò. Chissà cosa aveva in programma George? Le aveva detto che stava per lasciare Newcastle, ma forse esisteva una possibilità di rivederlo prima della partenza. Desiderava tanto qualche emozione. L’ultimo anno era stato così monotono, a casa, con sua madre. Era tanto deprecabile provare nostalgia per la guerra? Non si era mai divertita tanto come quando lavorava come Land Girl.

    «Possiamo rimandare alla settimana prossima?», suggerì. «Verrò dopo il lavoro in banca. Che ne dici di martedì?»

    «Perfetto». Il viso accaldato e rotondo di Doreen si illuminò. «Voglio lavorare in un ufficio di dattilografia come te, un giorno. Non voglio fare la lavapiatti per tutta la vita».

    «Buona idea», rispose Libby con un sorriso. «Puoi fare qualsiasi cosa, se lo vuoi davvero».

    Libby pensò che lei, invece, non vedeva l’ora di abbandonare quell’ufficio; aveva ventun anni e desiderava qualcosa di più dalla vita che essere al servizio di direttori uomini che avevano molto meno cervello di lei. Si fermò qualche ciocca ribelle dietro le orecchie e si leccò le labbra gonfie e secche, poi prese il vassoio e tornò nella caffetteria.

    Libby faticava a entrare nel discorso, con Lexy che teneva banco ricordando i vecchi tempi prima della Grande Guerra, quando Clarrie aveva trasformato la sala da tè Herbert nella migliore di Newcastle, nonostante si trovasse in un quartiere industriale frequentato soprattutto da operai e oltretutto vicino al fiume.

    «E Olive fece quei bellissimi quadri da appendere alle pareti ispirati allo stile egizio. Eh, erano tempi incredibili. Tua mamma non dipinge più, George?»

    «Non l’ho mai vista con un pennello in mano da quando ero piccolo», rispose lui, mesto.

    «Libby, qui, è un’artista incredibile», dichiarò Lexy.

    «Disegno vignette», disse lei, arrossendo. «Non sono un’artista».

    «Guarda quello, George», disse Lexy indicando un disegno a china appeso al muro accanto a loro. «Quella sono io insieme alle cameriere al Victory Tea, vestite come regine, con tanto di corone sulla testa. Mi fa morire dalle risate».

    George sorrise. «Regina Lexy… ti calza a pennello. Che ragazza talentuosa sei, Libby».

    La giovane arrossì per il complimento e per il calore dello sguardo che lo accompagnò. George le fece l’occhiolino, poi tornò a rivolgersi a Lexy. «Vorrei tanto che mia madre mostrasse ancora un minimo di interesse per l’arte o per qualsiasi altra cosa si trovi fuori di casa. L’unica che riesca a farla sorridere è mia figlia Bonnie».

    «Già», rispose Lexy col fiato corto. «Almeno lei ha una nipotina. La porterai con te in India?».

    George scosse il capo. «Resterà con sua madre, Joan». Finì il tè e si alzò.

    Libby si innervosì al pensiero di non poter passare ancora un po’ di tempo con lui. Si maledisse per la timidezza che l’assaliva in sua presenza. Si sentiva di nuovo una ragazzina di quindici anni. Mentre George si metteva il cappello, raccolse tutto il suo coraggio e disse: «Ti andrebbe di passare a trovare mia madre? C’è anche mio fratello minore, Mungo, che è a casa per le vacanze estive. Ricordi quando avete suonato insieme i cucchiai a Natale?»

    «I cucchiai?», rise lui. «Sul serio?».

    Libby ricordava quell’episodio con tale precisione che faticò a credere che lui l’avesse dimenticato. Forse George notò la delusione nei suoi occhi, perché d’impulso le chiese: «Ti andrebbe di venire a bere qualcosa dopo il lavoro?».

    Libby sgranò gli occhi azzurri. «Sì, mi piacerebbe».

    «Bene». Sorrise.

    «Perché non stacchi subito, cara?», chiese Lexy. «Doreen e io possiamo finire di lavare i piatti. Non aspettiamo più nessuno ormai».

    Lei esitò, notando l’aria sfinita di Lexy, con quel caldo. Era troppo anziana e malata per gestire una caffetteria. Libby doveva scrivere a sua cugina Adela e informarla. Anche se era lontana, in India, Adela o sua madre Clarrie dovevano prendere in mano la situazione, o rischiavano di dover chiudere il locale.

    «No, va’ pure di sopra a riposarti, Lexy. Ci metterò poco ad aiutare Doreen», disse Libby. Poi si rivolse a George. «Ti andrebbe di rimboccarti le maniche anche tu? Così potremo andare a bere qualcosa ancora prima».

    Per un attimo lui parve colto alla sprovvista. Poi gettò indietro la testa ridendo – quanto adorava quella risata contagiosa! – e cominciò a togliersi la giacca.

    «Solo perché sei tu, Libby Robson», disse. «A Calcutta non sarebbe mai accaduto».

    Lexy alzò gli occhi al cielo. «È una vera Robson, fatta e finita», ridacchiò. «Questa ragazza è capace di ottenere qualsiasi cosa da chiunque».

    «Ci scommetto», concordò George osservando con attenzione la giovane.

    Doreen prestò a Libby un abito da indossare per evitarle di passare da casa a South Gosforth a cambiarsi. Nell’appartamento sopra la caffetteria, che Doreen condivideva con Lexy, Libby si infilò il vestitino a fiori. Le maniche corte le stringevano le braccia in carne e Doreen le fermò lo scollo davanti con una spilla.

    «Così non ti si scoprirà il seno», ridacchiò la ragazza. «I tuoi fianchi riempiono benissimo la gonna. Quanto vorrei avere una figura come la tua».

    «Grazie, Doreen», disse lei. «Sei molto più diplomatica di mia madre: lei mi definisce massiccia. Dice che mangio troppe crostate di Lexy».

    «Be’, io vorrei essere fatta come te. Fai sempre voltare i ragazzi a guardarti».

    «Non dire sciocchezze!», rise Libby, incredula.

    «È la verità. Quel George Brewis non riesce a staccarti gli occhi di dosso».

    «Piantala», fece Libby. «È solo gentile con una vecchia amica di famiglia, tutto qui».

    Ma la mano le tremava quando si spazzolò i capelli mossi e si mise un rossetto che sottolineava le labbra carnose. Quando scese nella caffetteria da George, che l’attendeva, cercò di placare il respiro troppo veloce e sperò che il battito forsennato del suo cuore non si notasse.

    George e Libby fecero una passeggiata nel parco, camminando vicini ma senza toccarsi, mentre si raccontavano le ultime vicende delle loro vite. Libby parlò con fervore del periodo trascorso con il Land Army in una fattoria del Northumberland; di come suo fratello maggiore, Jamie, fosse ormai un medico qualificato e di come il minore, Mungo, frequentasse l’università a Durham.

    «I miei fratelli sono felici – e la mamma è felice di averli vicini – ma non è la vita che desidero io».

    «Tu cosa vorresti?», le chiese George, prendendola per il gomito per indirizzarla verso una panchina.

    Libby emise un sospiro frustrato. «La guerra è finita da oltre un anno. Credevo che a quest’ora saremmo tornati nell’Assam per raggiungere mio padre. O almeno, che lui avrebbe preso una licenza per venire a trovarci. Invece non succede nulla. Vorrei che tornassimo a essere una famiglia. Mia madre invece non fa che inventare scuse per non partire. È come se non le interessasse affatto vedere papà».

    «Deve essere molto difficile per te non poter vedere tuo padre da tanto tempo», disse George, comprensivo. «Quanto è passato?».

    Gli occhi le bruciarono per la commozione. «Undici anni». Ogni volta che pensava a suo padre provava una fitta di nostalgia. Era una persona fuori dal comune, un omone dotato di una voce e una risata potenti, che da piccola lei adorava. «Mi manca tantissimo». Guardò George. «Tu l’hai incontrato, da quando sei in India?».

    Lui scosse il capo. «Non sono ancora stato nell’Assam, ma spero di andarci presto».

    Mise una mano sulla sua e la strinse, facendole accelerare il battito. «E quando lo farò, non mancherò di riferire a James Robson che la ragazza più carina di tutta Newcastle non vede l’ora di incontrarlo».

    «Grazie». Libby sorrise, guardando nei suoi occhi azzurri. «Scusami, ho monopolizzato la conversazione senza lasciarti dire una parola su di te».

    Il modo in cui George la fissava le faceva formicolare la pelle. All’improvviso, lui la fece alzare in piedi e la prese sottobraccio. «Andiamo, bella ragazza: avevamo in programma di bere qualcosa, no?».

    Più tardi, dopo due cocktail, George cominciò a parlare della figlioletta, Bonnie.

    «Non è mia, sai».

    Libby sussultò per la sorpresa. Sapeva che il matrimonio con la bionda Joan era avvenuto in fretta e furia e che la bambina era nata poco dopo, ma in tempo di guerra quel genere di trasgressioni capitavano di continuo.

    «Ah, no?». Non sapeva cosa dire.

    «Joan aveva avuto una relazione con un ufficiale di marina mentre ero via. L’ho sposata solo per pietà: non mi sembrava giusto nei confronti della piccola che restasse senza un padre».

    «Sei stato molto galante».

    George scrollò le spalle e le rivolse il suo sorriso disarmante. «Quando si tratta di ragazze scopro sempre di avere un cuore tenero».

    «Non ti mancherà?», chiese Libby.

    «Chi, Joan?»

    «No, tua figlia, Bonnie».

    Per un istante l’espressione di George parve rammaricata. «Non ho mai passato molto tempo con lei… in fondo per lei sono uno sconosciuto. E poi», aggiunse, riprendendo sicurezza, «Joan vuole sposare l’uomo che frequenta adesso, quindi Bonnie avrà un nuovo padre. Sembra un bravo ragazzo. Gestisce le scuderie in una villa elegante nella valle del Tyne. Spero che siano felici».

    Da quel momento non nominarono più Joan o Bonnie. Parlarono del più e del meno, e si scambiarono aneddoti sulla guerra. Lui la fece ridere a crepapelle con le descrizioni dei suoi compagni e delle loro scappatelle, e parve altrettanto divertito dai racconti di Libby su quando era una Land Girl. La faceva sentire come se fosse la persona più importante del mondo. Poi George la portò in una sala da ballo e si mescolarono tra gli altri ballerini, dove Libby si sentì esaltata per come lui la stringeva e si inebriò del profumo muschiato del suo mento liscio. Non riusciva a credere di essere stata tanto fortunata da vederlo tornare nella sua vita all’improvviso. Non si divertiva così da troppo tempo, e nessuno la trattava mai da donna adulta.

    A casa, sua madre Tilly la faceva sentire una bambina, sempre preoccupata e pronta a sgridarla com’era. Era come se i due anni trascorsi nel Land Army – durante i quali aveva vissuto da sola e lavorato sodo – non fossero mai esistiti. Nel pomeriggio aveva chiamato per avvisare sua madre che sarebbe tornata tardi e per fortuna era stato suo fratello Mungo a rispondere al telefono. Sapeva che l’attendeva una serie infinita di domande a proposito di dove era stata e della situazione coniugale di George, ma non le importava. Ne valeva la pena, e non voleva che quella serata finisse mai.

    Poco prima della mezzanotte, George l’accompagnò a casa, tenendola sottobraccio.

    Sui gradini si staccò da lei e le disse: «Buona fortuna, ragazza».

    Libby sentì una stretta alla bocca dello stomaco. All’improvviso fu colta dal panico al pensiero che stesse per finire. «Ti rivedrò, prima che tu parta?».

    Lui esitò. «Se posso, cercherò di passare». Le fece un gran sorriso e le sfiorò una guancia rovente. «Forse potremmo incontrarci a Calcutta, se un giorno tornerai nell’Assam».

    «Sì, mi piacerebbe», si illuminò lei.

    «Allora promettimi che mi cercherai». George tirò fuori da una tasca un biglietto da visita con i suoi contatti. «Ti porterò a divertirti». Si chinò e le diede un bacio su una guancia.

    Libby, ancora su di giri per i balli e per l’alcol cui non era abituata, emise una risatina. «George, non sono tua sorella».

    Con un sorriso sorpreso, lui l’attirò a sé e le diede un bacio deciso sulle labbra.

    Il cuore di Libby prese a martellare per l’emozione. Gli gettò le braccia al collo e ricambiò il bacio con entusiasmo. George si staccò fin troppo presto.

    «Vieni a Calcutta, bella ragazza», le disse tirandosi indietro. «Ci divertiremo ancora». Poi se ne andò nella notte fischiettando e lasciandola con addosso il desiderio profondo di essere ancora stretta da lui.

    Libby quasi non chiuse occhio, quella notte. Nella sua piccola camera da letto faceva caldo, ma preferiva dormire lì che dover condividere una stanza più grande con la loro pensionante e amica, Josey, che fumava una sigaretta dietro l’altra e russava. I suoi pensieri non volevano saperne di fermarsi.

    Che significato aveva avuto quella serata con George? Possibile che fosse andato davvero a cercare lei oppure era stato solo un colpo di fortuna che si trovasse nella caffetteria quel giorno? Forse le aveva chiesto di uscire insieme d’impulso, eppure sembrava che si fosse divertito a passare del tempo con lei. Era stato lui a suggerire di allungare la serata andando a ballare. Le era bastata la sua presenza per sentirsi viva e desiderata. Tuttavia, George era famoso per essere un donnaiolo, quindi Libby doveva cercare di stare attenta. Si era comportato solo in modo amichevole. Eppure quel bacio… quanto avrebbe voluto che durasse di più. Era stato come assaggiare un gelato delizioso per poi vederselo strappar via dalle mani. Quel bacio doveva significare qualcosa. Si sentiva sciogliere, ripensandoci.

    Libby tirò via le lenzuola e rimase distesa, nuda e sudata, nella stanza rovente. Ripensò all’India, dove aveva sentito lo stesso calore. Ma nella camera che aveva da bambina, a Cheviot View, un ventilatore elettrico a soffitto mescolava l’aria densa. Ricordò quanto sua madre avesse insistito per far installare i ventilatori.

    «James, i punkah wallah non servono a niente, si addormentano sul lavoro. Moriremo tutti, con questo caldo».

    Insieme alle parole che le tornarono in mente dal passato, arrivò un’ondata di nostalgia per l’Assam. Non si era mai sentita davvero a casa in nessun altro posto: il collegio, Newcastle, la fattoria a Walton, per lei erano sempre state sistemazioni temporanee. Spesso, nel gelido dormitorio della sua scuola, Libby si era cullata da sola per addormentarsi ripensando alle cavalcate nella giungla insieme a suo padre, con lui che cantava a gran voce canzoni sui granatieri britannici, gridandole di tenere i talloni bassi. Tutto, in India, era stato più intenso ed emozionante di qualsiasi esperienza avesse avuto dopo. Doveva raddoppiare gli sforzi per convincere sua madre a tornarci. Libby non sopportava sentirla dare sempre la colpa a suo padre, che non prendeva una licenza per andare a trovarle in Gran Bretagna. Come le faceva sempre notare, era molto più difficile per suo padre lasciare il lavoro alla piantagione di tè che per Tilly staccarsi dalle opere di volontariato. Eppure Libby, dentro di sé, era rimasta molto delusa dal fatto che suo padre non avesse mai preso una licenza; non era possibile che non desiderasse rivederla, proprio come lei voleva riabbracciare lui, giusto? Aveva lavorato così duramente, durante la guerra, per mantenere le tenute Oxford in attività, che una pausa gli era più che dovuta. Era così tipico di suo padre non fermarsi affatto e continuare a lavorare senza sottrarsi alle proprie responsabilità.

    Libby allargò le braccia, con un sospiro carico di frustrazione. Nemmeno lei era tanto brava a tirar fuori scuse, proprio come loro. Sapeva che il motivo principale che le impediva di sfidare sua madre e fuggire in India era la preoccupazione per Lexy e la caffetteria. Quella donna, col suo gran cuore, era stata una specie di nonna per lei, che non aveva mai conosciuto i suoi veri nonni. Ma soprattutto, si era dimostrata un’ottima amica e confidente durante i difficili anni dell’adolescenza. Aveva potuto raccontare a quella donna tanto pratica cose che non si sarebbe mai sognata di dire alla sua stessa madre. Non poteva certo lasciarla lì a gestire la caffetteria con la sola collaborazione di Doreen e di un paio di cameriere part-time.

    Libby non andava ad aiutare solo nel tempo libero, ma gestiva anche la contabilità e gli ordini, cercando di far durare al massimo le provviste. Lexy le aveva raccontato che Jane Brewis, la sorella di George, era stata un’ottima direttrice, prima che il lavoro per la guerra la costringesse a trasferirsi nello Yorkshire. Jane non era mai tornata, perché si era sistemata e sposata laggiù. Joan, la moglie da cui George si stava separando, aveva dato una mano durante l’ultimo anno di guerra, ma Lexy diceva che era troppo inaffidabile. «Ha la testa tra le nuvole, quella lì. Si sente tanto superiore a noialtre, ma in realtà è solo una fannullona», aveva detto di lei.

    Al ritorno di Libby a Newcastle, Lexy le aveva mostrato una gratitudine commovente quando si era offerta di aiutarla. Libby sapeva che sarebbe rimasta bloccata lì fin quando non fosse riuscita a costringere sua cugina Adela e la sua famiglia a prendere in mano la situazione. In fin dei conti, non era il ramo della famiglia Robson di cui lei faceva parte a possedere l’attività, ma quello di Adela. Decise che avrebbe scritto senza dubbio a sua cugina dicendole che doveva tornare a risolvere i problemi della caffetteria. Forse sarebbe stato meglio se l’avesse chiusa, purché garantisse un futuro sereno a Lexy.

    E se invece Adela e suo marito Sam Jackman erano felici in India? Se ormai si erano rifatti una vita? Libby si sarebbe sentita in colpa, se li avesse costretti a tornare a Newcastle contro la loro volontà. La Gran Bretagna era un Paese grigio, devastato dalla guerra, dove il razionamento era più rigido che mai e le famiglie abitavano ancora in alloggi temporanei, prefabbricati, perché non c’erano case a sufficienza. La situazione dei britannici in India portava con sé dell’incertezza, considerando i movimenti indipendentisti indiani sempre più in fermento, ma era pur sempre un luogo pieno di possibilità, in cui si viveva bene. George ne era la prova. E in ogni caso, Adela e sua madre Clarrie dovevano essere messe al corrente di quanto stesse cadendo in rovina il loro locale. Non era possibile che Lexy portasse quel fardello da sola.

    Libby chiuse di nuovo gli occhi e immaginò di incontrare George a Calcutta. Avrebbero giocato a tennis nel club che lui frequentava, sarebbero andati a ballare in uno di quei grandi hotel e lui l’avrebbe presa tra le braccia e baciata di nuovo, stavolta più a lungo. Sentì il desiderio invaderla di nuovo.

    Sentì anche tornare la determinazione: avrebbe scritto a Adela per dirle che doveva decidere se tornare a salvare il Caffè Herbert o chiuderlo una volta per tutte. In entrambi i casi, Libby avrebbe potuto prendere una decisione. Se sua madre si fosse rifiutata di tornare nell’Assam e suo padre di venire in Gran Bretagna, lei poteva fare ritorno al Paese in cui era nata, l’India?

    Capitolo 2

    Newcastle, fine gennaio 1947

    Libby bussò alla porta della villetta di South Gosforth, battendo i piedi fasciati dagli stivali e scuotendo via la neve dalla vecchia giacca militare che un vecchio fidanzato le aveva regalato. Fuori l’aria era rigida e i marciapiedi ancora scivolosi per i cumuli di neve annerita e ghiacciata che non voleva saperne di sciogliersi. Era congelata fin nelle ossa. All’improvviso scorse delle valigie logore che riempivano il corridoio stretto. Voci e risate arrivavano dalla porta aperta del salotto. Il suo cuore perse un colpo. Possibile che Adela e Sam fossero lì?

    «Koi hai!», gridò con un gran sorriso sul volto arrossato.

    «Parla inglese, tesoro!», le rispose Tilly, sua madre. «Abbiamo ospiti».

    Sentì l’emozione nella sua voce. Si tolse il berretto di lana scoprendo una cascata di capelli rosso scuro e corse in salotto. Sua madre e la sua amica Josey erano sedute nelle solite poltrone consumate, mentre una accanto all’altra, sul divano, c’erano una bella e giovane donna dai capelli scuri e un uomo dal viso sottile e abbronzato.

    «Cugina Adela!», gridò Libby, lanciandosi verso la donna minuta che si stava alzando per salutarla. Si abbracciarono e risero. «Perché non mi hai detto che saresti arrivata oggi? Sarei venuta a prenderti alla stazione. Da quanto tempo sei qui? Pensavamo che non saresti arrivata in Gran Bretagna prima di un’altra settimana, giusto, mamma?»

    «Dalle il tempo di rispondere, poveretta», la rimproverò Tilly.

    «Scusa», disse Libby con una risata profonda. «È solo che sono così felice di vederti».

    «Anche noi». Adela sorrise, tirandosi indietro i capelli mossi e scuri. «Abbiamo preso il treno da Marsiglia per risparmiare qualche giorno di mare». Si voltò e fece cenno all’uomo, che si era alzato nell’attimo in cui Libby aveva messo piede nella stanza. Era così alto che i radi capelli biondi sfioravano il paralume a soffitto. «Lui è mio marito, Sam».

    Sam si chinò e diede un’energica stretta di mano a Libby.

    «Sono molto contenta di conoscerti, finalmente, Libby. Sei perfino più carina di come ti ha descritta Adela».

    Lei rise, felice. «E io sono onorata di conoscere l’eroe dell’aviazione indiana. Da quel che mi ha detto la mamma, ha scacciato i giapponesi da Burma quasi a occhi chiusi».

    «Ah, che esagerazione», protestò Tilly. «Non ho mai detto niente del genere. Ma siamo molto orgogliosi di te, Sam».

    Lui rise. «Ho solo lanciato un po’ di rifornimenti oltre le linee nemiche. Altri hanno corso rischi ben maggiori».

    «Non è vero», disse Adela, cingendogli la vita e abbracciandolo. «Hai rischiato la vita ogni giorno per mesi. È un sollievo che la guerra sia finita e che tu sia tornato da me sano e salvo».

    Sam le diede un bacio sulla testa. «Anche per me».

    Libby avvertì una fitta d’emozione di fronte alle loro manifestazioni d’affetto. Era evidente quanto si adorassero a vicenda. Non ricordava di aver mai visto i suoi genitori comportarsi così.

    «Che mi raccontate di papà?», chiese con ardore. «L’avete visto prima di partire? Non ci scrive da Natale. Pensa di venire qui da noi?»

    «Smettila di tormentare la povera Adela», disse Tilly. «Tuo padre sta bene».

    «E tu come fai a saperlo?», le rispose, offesa. «Non lo vedi da quando sei venuta a trovarci prima della guerra… sono passati più di sette anni».

    Tilly sospirò. «Non cominciare».

    Adela le rivolse un sorriso incoraggiante. «Abbiamo visto tuo padre a Natale. L’abbiamo trascorso insieme a Belgooree con mia madre e mio fratello. James era un po’ stanco – lavora ancora tanto alle Oxford – ma era di ottimo umore. L’aria fresca delle colline era proprio il tonico di cui aveva bisogno».

    Tilly fece un altro sospiro spazientito. «James ha sempre messo il lavoro e le tenute Oxford davanti alla famiglia, anche nei primissimi tempi. Ha quasi settant’anni, ma è convinto di poter svolgere gli incarichi di un quarantenne».

    Libby sentì un nodo allo stomaco quando venne detta l’età di suo padre. Non voleva che invecchiasse. Lo immaginava ancora come l’uomo vigoroso e robusto dal viso rubicondo, dispensatore di abbracci impetuosi, che l’aveva conquistata da bambina. Ma non lo vedeva da quando aveva appena sette anni, quando i suoi genitori erano stati insieme per l’ultima volta in licenza in Gran Bretagna. A lei avevano concesso una settimana in più di vacanza dal collegio in modo che la famiglia potesse andare a St Abbs per un breve e gelido soggiorno invernale al mare. Poi era scoppiata la guerra ed erano stati costretti a separarsi dal padre per anni, con lui in India e loro bloccati in Gran Bretagna.

    Ora che aveva quasi ventidue anni, suo padre l’avrebbe riconosciuta? Lui non aveva potuto vederla crescere e lei non aveva potuto averlo al suo fianco contro il resto della famiglia. I suoi fratelli erano sempre in combutta contro di lei e la prendevano in giro, mentre sua madre la sottoponeva a critiche infinite, prediligendo i due maschi. Libby però era sicura che lei e suo padre avrebbero ritrovato all’istante l’intesa di un tempo.

    Tilly fece cenno agli ospiti di rimettersi a sedere. «Mio marito dovrebbe ammettere di essere anziano. È tempo che vada in pensione e torni a casa», disse senza giri di parole.

    «Qui?», fece Libby in tono canzonatorio, infilandosi sul divano accanto a Adela. «Credi che papà possa vivere in una casa senza giardino e senza spazio per i suoi cavalli e i suoi cani? Non è affatto un tipo da città».

    «Potremmo permetterci una casa più grande», rispose Tilly, «se lui non dovesse mantenerne due a migliaia di chilometri di distanza. A me piacerebbe abitare a Jesmond, sono cresciuta in quella zona della città».

    «Ma l’Assam è casa sua», insisté Libby. «Ed è ancora casa nostra».

    «Non dire sciocchezze», disse sua madre. «Non vivi lì da quando avevi otto anni. E i tuoi fratelli non ne sentono certo la mancanza».

    «Be’, io sento la mancanza di Cheviot View e dell’India, che considero casa», dichiarò lei, sfidandola.

    Tilly schioccò la lingua, infastidita. «Tuo padre dovrà tornare, prima o poi, soprattutto ora che i britannici alla fine stanno riconsegnando l’India agli indiani. Non è così, Adela?».

    La giovane sospirò. «Tra coltivatori di tè non si parla d’altro, ormai. Mia madre non riesce a decidere. Vorrebbe tanto mantenere l’attività della piantagione di Belgooree in modo da poterla cedere a mio fratello Harry, tra qualche anno. E tuo marito non si spiega perché i britannici non possano restare all’infinito».

    «L’ha detto James?», esclamò Tilly.

    Adela annuì. «Certo, non i funzionari pubblici dell’esercito, ma lui è convinto che gli indiani desiderino ancora che i boxwallah britannici siano coinvolti nella gestione delle piantagioni e investano capitali nel tè».

    «E potrebbe mancare ancora qualche anno alla piena indipendenza», aggiunse Sam.

    «Visto, mamma», gridò Libby. «Non è detto che la nostra vita in India sia finita».

    Il viso pieno di sua madre assunse un’espressione tesa. «Ma Adela, tu e Sam avete deciso di venir via», fece notare.

    Libby notò lo sguardo che si scambiarono Adela e Sam. Provò una fitta di senso di colpa per averli costretti a tornare per via delle sue lamentele sulla gestione del Caffè Herbert. Sam mise un braccio sulle spalle di sua moglie.

    «Vogliamo ricominciare da capo», disse. «La missione per cui ho lavorato prima della guerra è chiusa, e Adela non voleva vivere per sempre a Belgooree».

    «La piantagione mi piace molto», spiegò Adela, «ma non sono come la mamma. Lei vive e respira tè. Io ho bisogno delle luci della città».

    «Proprio come me», concordò Tilly. «Clarrie è la donna più incredibile che conosca. Non so come faccia a mandare avanti Belgooree tutta da sola».

    «Ha del personale eccellente, e il mio fratellino si sta rivelando un ottimo coltivatore di tè, nonostante abbia solo tredici anni», disse Adela. «E poi James viene ancora spesso dalle Oxford a dare una mano».

    Ci fu un momento di silenzio imbarazzato. Libby si agitò e scrutò sua madre, cercando un segnale che tradisse la sua gelosia. Possibile che non le importasse sapere che suo marito trascorreva tanto tempo sulle colline a Belgooree con Clarrie Robson? La madre di Adela era rimasta vedova dopo un terribile incidente di caccia: suo marito era stato sbranato, poco prima che scoppiasse la guerra. Dai racconti di Adela, Libby sapeva quanto Clarrie e Wesley fossero legati.

    Ma lei era sola ormai da più di otto anni, e a giudicare da una foto recente che le aveva inviato Adela, era una donna di mezza età ancora molto attraente. Inoltre, Clarrie era più vicina per età a James che a Tilly: la madre di Libby aveva la metà degli anni del padre, quando lo aveva sposato ed era partita per l’India per la prima volta. Libby si sentiva a disagio al pensiero che suo padre frequentasse con tanta assiduità una donna capace come Clarrie, e non solo per le feste di Natale. La frustrazione che provava sempre di fronte a sua madre l’assalì ancora una volta. Era solo colpa sua se non erano ancora tornati in India e da suo marito.

    Fu Sam a riempire il silenzio. «Spero di avviare un’attività di fotografo, qui».

    «Oh, interessante!», disse subito Josey. Era rimasta in silenzio dietro una cortina di fumo di sigaretta. L’amica di Tilly aveva un pallore grigiastro da fumatrice e le dita macchiate dalla nicotina, ma Libby doveva ammettere che la trentenne aveva uno stile bohémien, con i suoi maglioni colorati e i capelli legati come una sciarpa di seta. «Ho un contatto con un giornale locale che potrebbe darti del lavoro».

    «Grazie», disse Sam con un gran sorriso.

    «Sarebbe davvero gentile da parte tua», disse Adela. «E io ho promesso alla mamma che avrei sistemato il Caffè Herbert. Libby, grazie per averci fatto sapere che Lexy non ce la fa più».

    «Non volevo preoccuparvi, ma bisogna fare qualcosa», disse Libby. «La povera Lexy non riesce nemmeno a fare cinque passi senza aver bisogno di sedersi. Ha grandi problemi di respirazione. Io l’aiuto meglio che posso, ma ho anche il mio noioso lavoro d’ufficio».

    «Sei già fortunata ad avere un lavoro», intervenne Josey spegnendo la sigaretta in un posacenere d’ottone.

    «Basta impegnarsi un po’, Josey», rispose Libby con un’espressione un po’ infastidita negli occhi azzurri. Dal suo punto di vista, dopo la fine della guerra Josey non aveva neanche provato a trovarsi un lavoro remunerativo o a contribuire alle spese di casa. Viveva con loro gratis ed era lei, Libby, a procurare abbastanza soldi da pagare anche il suo whisky e le sue sigarette.

    «Sei molto più brava di me nel lavoro monotono», disse Josey accendendosi un’altra sigaretta.

    «In qualsiasi lavoro», borbottò Libby.

    «Ehi, voi due», rise Tilly. «Non litighiamo davanti agli ospiti».

    «Reciti ancora al People’s Theatre, Josey?», chiese Adela.

    «Adesso mi occupo più di regia», rispose la donna.

    «Ci farebbe tanto piacere venire a vedere un tuo spettacolo, vero, Sam?»

    «Molto», concordò lui. «Ho sentito tanto parlare del teatro e non vedo l’ora di conoscere tutti gli amici e i parenti di Adela».

    «E poi c’è anche tua madre a Cullercoats, Sam», aggiunse Tilly. «Sarai impaziente di rivederla, dopo tanto tempo».

    A Libby parve di veder trasalire Sam, che però riuscì a sorridere. «La mia madre adottiva», la corresse. «Sì, voglio far visita alla signora Jackman».

    Adela strinse la mano di suo marito. «Sam lo farà coi suoi tempi. Siete molto gentili a ospitarci qui, Tilly. Ve ne siamo grati, e non approfitteremo della vostra generosità. Non appena troveremo una casa nostra…».

    Tilly la interruppe. «Potete restare tutto il tempo che volete. Libby si è già spostata in soffitta, quindi potete avere la camera matrimoniale».

    Adela protestò: «Ma non possiamo togliere a Libby la sua stanza!».

    «Non è un problema per lei», rispose Tilly. «E poi a voi piccioncini fa comodo più che a lei».

    Libby alzò gli occhi al cielo. «Perdona mia madre. In ogni caso, sono più che felice di prestarvi la camera sul retro. È bellissimo avervi di nuovo qui».

    Adela rise, gli occhi verdi pieni di felicità. «Anche per noi. Le chiacchiere coi Robson mi sono mancate tanto».

    «E tu sei mancata a noi più di quanto tu possa immaginare, cara ragazza», rispose Tilly, gli occhi profondi color nocciola di colpo lucidi. «Ti ho sempre considerata come una figlia».

    Libby ebbe una stretta al cuore. Sua madre non aveva mai fatto mistero di preferire Adela, anche se tra loro non c’era nessun legame di sangue. Lei e Adela erano cugine solo per via paterna, James e Wesley erano cugini di primo grado. Libby però l’aveva sempre adorata: non solo era un’attrice affascinante che si era esibita per le truppe durante la guerra, ma era anche una persona buona e divertente. Libby non sarebbe mai riuscita a provare astio per lei, tuttavia soffriva al pensiero di non essere mai riuscita a far nulla che rendesse felice sua madre. Ormai da molto tempo aveva rinunciato a tentare di ottenere la sua approvazione.

    «Allora, ci porti qualche messaggio dall’India?», chiese Libby, speranzosa. Lo sguardo dispiaciuto che colse sul bel viso di Adela la fece agitare.

    «Tuo padre manda i suoi saluti», disse.

    «Ma nemmeno una lettera?»

    «Vi ha mandato del tè», intervenne Sam. «Vero, tesoro?»

    «Sì, certo». Adela si alzò.

    «Non te ne preoccupare adesso», disse Tilly. «Voglio sapere tutto del viaggio verso casa. Avete lanciato i caschi coloniali nel mare, una volta superato Suez?».

    Adela rise, sfiorando con affetto i capelli annodati di Libby mentre andava verso la porta. «Sì. Il mare era pieno. Sapete, la nave era stracolma. Siamo stati fortunati a trovare i biglietti».

    «Scappano tutti dall’India», disse Tilly, lanciando un’occhiata a Libby. «Non mi sorprende affatto, considerando il clima di violenza che c’è lì».

    Adela andò rapida nel corridoio e tornò con una grossa scatola verniciata che posò su un tavolinetto indiano basso.

    «Questa me la ricordo!», sorrise Libby. «La zia Clarrie ci teneva le lettere, perché non si bagnassero durante i monsoni».

    «È incredibile che te ne ricordi», disse Adela.

    «E come dimenticarlo?»

    «Tesoro, eri molto piccola quando sei stata lì l’ultima volta», le ricordò Tilly.

    «Ho ricordi di Belgooree nitidissimi», insisté Libby.

    «La mamma ha detto che potevo avere questa scatola», disse Adela. «Desideravo qualcosa che mi ricordasse casa».

    Libby sentì la sua voce farsi incerta. Prese la mano di Adela, la strinse nella sua e disse: «È davvero bellissima».

    Gli occhi di Adela scintillavano, pieni di lacrime, e Libby si rese conto di quanto doveva essere stato difficile abbandonare l’India per sua cugina, nonostante Sam avesse dichiarato che desideravano rifarsi una vita in Gran Bretagna.

    Sam si alzò rapido e aprì la scatola. «Preparo del tè per tutti».

    Tilly lanciò un gridolino. «Neanche per sogno! Sei nostro ospite, oltre che un uomo. Siediti, Sam».

    «Lo aiuto io», disse Libby, ben sapendo che Sam aveva bisogno di qualcosa da fare. Avvertiva l’energia repressa che proveniva dal suo fisico alto e snello. Doveva avere quasi quarant’anni, ma da quel che aveva sentito dire, amava la vita all’aria aperta. Prima di essere un pilota d’aereo, era stato un capitano di fiume e poi era diventato un missionario itinerante, creando frutteti sulle colline pedemontane dell’Himalaya.

    Mentre le altre donne chiacchieravano, Libby accompagnò Sam in cucina sul retro della casa. La loro cuoca aveva lasciato un gran vassoio pronto con il servizio da tè e un piatto di biscotti allo zenzero. Libby cominciò a togliere le tazze.

    «Per questa occasione ci vuole il servizio migliore». Fece un cenno col capo verso un armadio di legno. «Arrivi all’ultimo ripiano, Sam, per favore?».

    Nel frattempo, Libby mise a scaldare la teiera d’argento e aprì un pacchetto di tè. Sollevò dei fili di tè essiccato verdi e neri.

    «Non ha proprio niente a che vedere con la roba che siamo abituate a bere qui», disse con un sorriso mesto. «Preparatevi ai razionamenti».

    «Ci sono ancora?», chiese lui.

    «Dio, sì», rispose. «Anche peggio che in tempo di guerra. Gli americani ci inviano rifornimenti di cibo. Spero che papà possa restare in India, per il suo bene. Odierebbe vivere qui».

    Sam non la contraddisse. Le chiese di lei e del suo lavoro.

    «Ho seguito un corso di dattilografia alla fine della guerra, e adesso lavoro in un ufficio in banca. Sono più brava a fare i conti del direttore della banca, ma non accetterebbero mai una donna come direttrice. È una mentalità talmente antica. Così faccio il mio dovere e niente di più. Passo il tempo libero ad aiutare al Caffè Herbert, ma immagino tu sappia già tutto della sala da tè che un tempo gestiva la madre di Adela, giusto?».

    Lui annuì. «E quale lavoro ti piacerebbe davvero?», le domandò.

    Libby si strinse nelle spalle. «Non saprei. Forse mi manca essere una Land Girl. Era dura, ma ci divertivamo anche molto».

    Sam sorrise. «Quando ero nell’Air Force era lo stesso per me. Ti ritrovi insieme a persone che altrimenti non avresti mai conosciuto e stringi un legame perché si dipende uno dall’altro. E nessun altro al mondo potrebbe mai capire cosa avete affrontato insieme. Adela ha vissuto un’esperienza identica all’ENSA». Libby vide la sua espressione addolcirsi. «So che anche le persone addette all’intrattenimento delle forze armate hanno attraversato momenti difficili e pieni di pericoli, ma lei non lo ammetterà mai. Mi ha raccontato sempre e solo gli episodi buffi vissuti mentre era in tournée».

    «Sì, è proprio così», convenne Libby. «La vita era così importante e intensa, durante la guerra. Le mie amiche erano tutto, per me, in quel momento. Adesso mi sembra di avere una vita vuota».

    Finirono di preparare il tè e Sam volle portare il vassoio. Mentre tornavano nel corridoio, le chiese: «Dove sono le tue amiche del Land Army, adesso?»

    «Due sono sposate e vivono al Sud. Una è andata in America con un militare e non l’ho più sentita. La mia migliore amica, invece, fa la cuoca in un castello nelle Highlands. Non ho idea di come abbia fatto a trovare quel lavoro: cucinava in modo orribile».

    Sam scoppiò in una risata allegra.

    «Di cosa ridacchiate, voi due?», chiese Tilly quando rientrarono nel salotto. «Oh, santo cielo, il servizio migliore della famiglia Watson! Mia madre lo adorava, ma per me quelle tazze così delicate sono difficilissime da maneggiare».

    «Il tè di papà avrà un sapore ancora migliore in queste», disse Libby.

    «Posa il vassoio accanto a me, Sam», disse Tilly. «Lo verso io. Libby, offri i biscotti. Adela, attenta ai tuoi bei denti: la nostra cuoca fa del suo meglio, ma in genere le vengono duri come pietre».

    Tilly cominciò a versare il latte nelle tazze.

    «Io lo prendo nero, mamma, grazie», disse Libby.

    «Ma non lo prendi mai così», le fece notare lei.

    «Questo è un tè speciale», rispose. «Voglio sentire il sapore che ricordo».

    Libby osservò il liquido dorato mentre veniva versato nelle tazze di ceramica che aveva aiutato a distribuire. Prese la sua e annusò il vapore profumato. Il tè sapeva di mango e papaya. Chiuse gli occhi e lo sorseggiò. In un attimo il calore e i colori vivaci della piantagione di tè le tornarono alla mente, senza l’umidità opprimente dei monsoni delle tenute Oxford, ma con i raggi di sole che filtravano tra i rampicanti in fiore della casa di Clarrie a Belgooree.

    Le parve di sentire il canto rauco degli uccelli e di vedere i cespugli di tè scintillanti sotto una volta di alberi di tek. Nella sua mente, Clarrie era distesa in veranda, la pelle color cioccolato che si stagliava su un abito bianco, e rideva insieme a sua madre. Dunque Tilly era stata felice in India, un tempo. Libby cercò di aggrapparsi a quel ricordo, ma svanì rapido com’era arrivato, come il refolo di fumo di legna che arrivava dal camino del bungalow della piantagione.

    «Ha il sapore di Belgooree», disse Libby, aprendo gli occhi e sorridendo a Adela.

    «Trovi anche tu?», concordò lei, sorridendole di rimando.

    «Sam», fece Josey in un sussurro. «Anche per te il tè è una specie di religione?».

    Sam rise. «A dire il vero, no. Confesso che preferisco il caffè».

    «Anch’io!», esclamò lei, in estasi.

    «Vi spiace se fumo?», chiese Sam a Tilly, anche se l’aria era già densa del fumo di Josey.

    «Prego», rispose lei.

    Josey gli offrì una sigaretta, ma Sam tirò fuori un pacchetto consumato di bidi indiane. «Prendine una delle mie».

    «Sembrano illegali», disse Josey.

    «Oh, non quella roba terribile!», gridò Tilly. «Hanno un odore atroce, non ti piaceranno».

    Josey fece l’occhiolino a Sam e ne prese una. Un attimo dopo la stanza era invasa dall’aroma pungente dei loro piccoli sigari marroni.

    «Mi ricorda Cheviot View», disse Libby inspirando a fondo. «I servitori seduti sulla veranda la sera, a fumare tutti insieme».

    «Ne vuoi una?», domandò Sam.

    «Oh, non la prendere, cara!», esclamò Tilly. «Non è affatto da signora».

    Libby alzò gli occhi al cielo e allungò una mano verso la sigaretta che le era stata offerta. Sam esitò: non voleva causare ulteriori attriti tra madre e figlia.

    «Che direbbe tuo padre?», la sgridò Tilly.

    A quelle parole, Libby scattò. «Non ne ho idea, e nemmeno tu, visto che non lo vediamo da anni».

    «Lui non approverebbe», fece Tilly, irremovibile.

    «Forse no», rispose lei, «ma non puoi più parlare per suo conto. Sono stanca di sentirmi dire cosa piacerebbe o meno a papà, come se te ne importasse qualcosa, poi».

    «Non parlarmi con questo tono», le intimò sua madre, arrossendo.

    «E tu non parlarmi come se fossi ancora una bambina!».

    «Non esagerare, tesoro», l’ammonì Josey.

    «Non fare la superiore con me, Josey», rispose Libby. «Questa storia non ti riguarda».

    «Invece sì, se continui a far agitare tua madre. Inoltre metti in imbarazzo i nostri ospiti».

    «Non sono ospiti tuoi», ribatté Libby, gli occhi di fuoco. «Sono la mia famiglia. E Adela è più che abituata a vedermi umiliata da mia madre».

    «Piantala di renderti ridicola», sibilò Tilly.

    Libby si alzò, il cuore che le martellava nel petto. «Adela, Sam, scusate se ho fatto una scenata. Non so dirvi quanto attendessi con ansia il vostro arrivo. Ma vorrei con tutto il cuore che mio padre fosse venuto con voi. Non posso fingere che non sia così. Mi manca da morire».

    Adela allungò una mano e afferrò la sua, facendola rimettere a sedere accanto a sé. «Lo capisco, credimi. Mio padre mi manca ancora, ogni giorno. Ma il tuo è vivo e lo rivedrai».

    Libby strinse forte la sua mano. Sua cugina era così coraggiosa. Era molto più piccola di lei quando aveva perso il padre, aveva perfino assistito al terrificante assalto della tigre e l’aveva tenuto stretto tra le braccia quando Wesley era morto. Come aveva fatto a riprendersi? Eppure irradiava una tale forza, una tale passione per la vita. Adela aveva sempre reso Libby più forte e coraggiosa, quando era con lei. In quel momento, Libby sentì nascere in lei una nuova determinazione. Le divenne chiarissimo cosa doveva fare: e avrebbe dovuto farlo mesi prima, se non fosse stata vincolata dalla necessità di aiutare Lexy.

    «Ho un solo modo per essere sicura di rivedere mio padre». Si voltò a guardare sua madre. «Andare in India».

    L’espressione di Tilly era un misto di irritazione e terrore. «Tesoro. È troppo pericoloso, in questo momento. Ci sono ribelli, omicidi. Tuo padre non sarebbe d’accordo».

    «Invece sì», rispose lei. «Sulla cartolina di Natale ha scritto che voleva tanto vedermi».

    Tilly si rivolse a Adela in cerca di sostegno. «Mia cara, spiegale che è un’idea folle. In India la situazione è troppo incerta, no? Non sarebbe al sicuro».

    Libby lesse la sofferenza sul volto di sua cugina: non voleva schierarsi.

    «Non è pericoloso per i britannici», insisté Libby.

    «Come fai a saperlo?», disse sua madre, incredula.

    «Anch’io leggo i giornali».

    «Quelli sbagliati», esclamò Tilly.

    «Ammetto», disse Libby, «che si sono verificate terribili atrocità, ma la violenza è sempre stata diffusa nella popolazione locale, tra indù e musulmani. Forse siamo stati noi britannici a creare tali divisioni, ma non è il nostro sangue quello che viene versato».

    Inaspettatamente, Sam intervenne. «È vero, ci sono stati incidenti terribili – Calcutta la scorsa estate è stata teatro di violenze inaudite – ma Libby ha ragione, gli spargimenti di sangue riguardano i popoli locali. Le diverse comunità lottano per ottenere il potere in un’India che ancora deve svilupparsi, e purtroppo questo genera il terrore gli uni degli altri».

    «È proprio quello che sto dicendo», dichiarò Tilly, agitata. «I giornali dicono che sta diventando un Paese selvaggio».

    «Tuttavia», riprese Sam, «l’odio non è più rivolto verso noi britannici. Sanno che ce ne stiamo andando».

    «E quindi? Cosa vuoi dire?», chiese Tilly.

    «Che non credo sarebbe troppo pericoloso andare in India per Libby, né per nessuno di voi. Nessuno fa del male agli inglesi».

    Libby ebbe un attimo di trionfo. Avrebbe tanto voluto gettare le braccia intorno al collo del gentile marito di Adela per averla sostenuta.

    «Ascolta Sam, mamma!», insisté. «Dovremmo andare tutte e due». Le puntò addosso uno sguardo implorante. «Vieni con me, ti prego. Papà ha bisogno di te».

    Il viso rotondo di Tilly crollò. Libby non riuscì a comprendere l’espressione dei suoi occhi; era fastidio o senso di colpa?

    Ma sua madre distolse lo sguardo. «C’è più bisogno qui di me… i ragazzi hanno ancora bisogno di me…».

    «Jamie è un medico qualificato, ormai, e torna a casa solo a fine settimana alterni», le fece notare Libby.

    «Ma Mungo è ancora così giovane», rispose Tilly. «Forse, quando avrà finito l’università…».

    Libby inghiottì la propria delusione. Sua madre metteva sempre i ragazzi al primo posto. Si conficcò le unghie nei palmi per impedirsi di esternare le proprie emozioni.

    «Be’, qualsiasi decisione tu prenda», dichiarò, «io torno in India, da papà».

    Capitolo 3

    Distesa sulla brandina nella fredda soffitta sotto una catasta di coperte e cappotti, Libby sentiva il mormorio delle voci di Adela e Sam nella stanza sotto di lei. La loro conversazione, indistinguibile, era interrotta dalla risata profonda di Sam e dai risolini di Adela.

    A Libby dispiaceva avere causato una lite, quel pomeriggio. Perché aveva permesso a sua madre e a Josey di farla infuriare? Di solito ignorava i rimproveri di Tilly e rispondeva a Josey per le rime, scherzando. L’ambiente familiare procedeva senza scontri dato che lei era quasi sempre fuori a

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