Per il cuore dello sceicco: Harmony Destiny
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Barbara Dunlop
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Anteprima del libro
Per il cuore dello sceicco - Barbara Dunlop
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
A Golden Betrayal
Harlequin Desire
© 2012 Harlequin S.A
Traduzione di Rita Pierangeli
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-3050-438-7
1
Ann Richardson immaginava di dover essere contenta che gli agenti dell’Interpol non l’avessero fatta spogliare per perquisirla. Ma dopo sei ore passate nella angusta saletta degli interrogatori del Palazzo Federale, era oltremodo seccata.
L’agente Heidi Shaw era tornata con un fascio di fogli sotto il braccio. Lei recitava la parte del poliziotto cattivo, mentre il collega Fitz Lydall era il buono. Era alta un metro e cinquantacinque per cinquanta chili grondanti sudore, mentre Fitz era centodieci chili di muscoli, con una faccia da bulldog e le spalle di un rugbista. In cuor suo, Ann pensava che avrebbero dovuto invertire i ruoli, ma si era astenuta dal suggerirlo.
In ogni caso, avendo seguito, ai suoi tempi, qualche serie poliziesca, era abbastanza facile intuire la loro tattica da manuale. Anche il fatto che lei fosse innocente interferiva con la loro strategia. I trucchi psicologici e gli interrogatori a raffica non sarebbero riusciti a farle ammettere che stava vendendo una statua antica rubata per conto della Waverly’s.
Negli ultimi mesi, aveva imparato molte cose sulle statue del Cuore d’Oro di Rayas. Nel XVIII secolo, il re Hazim Bajal ne aveva commissionate tre. Si diceva che portassero fortuna in amore alle sue tre figlie, costrette a matrimoni di convenienza per il bene del loro paese. Una delle statue era ancora al sicuro a Rayas, custodita dal ramo attuale della famiglia Bajal. Un’altra era andata persa in mare durante il naufragio del Titanic. Una terza era stata rubata cinque mesi prima a un altro ramo della famiglia reale di Rayas, della quale faceva parte di principe ereditario Raif Khouri. Il principe Raif era convinto che Roark Black avesse rubato la statua per conto della Waverly’s. Era un’accusa assurda, ma il principe era un uomo potente e determinato, e aveva dalla sua parte l’Interpol e l’FBI.
Heidi posò il fascio di carte sul tavolo di legno e scostò la sedia di metallo per sedersi di fronte ad Ann. «Mi parli di Dalton Rothschild.»
«Lei non legge i giornali?» tergiversò Ann, per prendere tempo e riflettere su quella nuova linea di domande. Dalton era il presidente della rivale della Waverly’s, la Rothschild’s.
«Mi risulta che voi due eravate molto intimi.»
«Eravamo amici.» Ann fece una pausa. «Eravamo è la parola chiave.» Non avrebbe mai perdonato Dalton per averla tradita, distruggendo la sua reputazione professionale. Una cosa erano le sue menzogne sulla loro presunta relazione, e un’altra il modo in cui aveva attaccato la sua integrità.
«Amici?» ripeté Heidi con palese scetticismo.
«Allora li legge, i rotocalchi.»
«Leggo tutto, perciò so che lei non ha mai negato che fosse il suo amante.»
«Vorrebbe che lo negassi?»
«Vorrei che rispondesse alla domanda.»
«L’ho appena fatto» le fece notare Ann.
«Perché è così evasiva?»
Ann cambiò posizione sulla dura sedia di metallo. Era sincera, non evasiva. «Eravamo amici» ribadì. «Lui mi ha mentito. Non siamo più amici.»
Heidi si alzò.
Ann moriva dalla voglia di fare lo stesso, ma ogni volta che ci aveva provato, qualcuno le aveva ingiunto di tornare a sedersi. Aveva i crampi alle gambe e il sedere indolenzito.
«Dov’è la statua?»
«Non lo so.»
«Dov’è Roark Black?»
«Non ne ho idea.»
«Lavora per lei.»
«Lavora per la Waverly’s.»
Heidi sogghignò. «È lo stesso.»
«Non è lo stesso. È un dato di fatto.»
«Lei lo sa che è illegale mentire all’Interpol.»
«Lei lo sa che sono capace di chiamare un giornalista del New York Times.»
Heidi si puntellò con le mani sul tavolo e si chinò in avanti. «È una minaccia?»
Ann si rese conto che i nervi stavano per cederle e la collera cominciava a ribollire. «Vorrei chiamare il mio avvocato.»
«È quello che dicono sempre i colpevoli.»
«E le donne alle quali negano di andare al bagno da sei ore.»
Heidi assunse un’espressione compiaciuta. «Posso trattenerla per ventiquattro ore senza accusarla.»
«E senza toilette?» la provocò Ann.
«Pensa che questo sia uno scherzo?»
«Penso che sia ridicolo. Ho risposto a tutte le domande sei volte. Ho fiducia totale in Roark Black. Qui ci sono in gioco due statue. Ed è escluso in modo categorico che la Waverly’s tratti in antichità rubate.»
«Allora, avete recuperato quella del Titanic?»
«So soltanto che Roark ha la statua scomparsa, non quella rubata.»
Roark aveva anche firmato un accordo confidenziale con il misterioso proprietario della statua del Cuore d’Oro scomparsa cento anni prima. Avrebbe distrutto la propria carriera e compromesso la reputazione della Waverly’s se ne avesse rivelato l’identità a chiunque, compresa Ann.
«Dove sono le prove?» chiese Heidi.
«Dov’è il mio avvocato?» ribatté Ann.
Heidi si erse in tutta la sua statura. «È decisa a insistere su questa strada?»
Ann aveva esaurito la pazienza. Era innocente e niente avrebbe potuto modificare quel fatto. «Vuole avere una lunga carriera nelle forze dell’ordine?»
Heidi inarcò le sopracciglia.
«Allora cominci a cercare un nuovo indiziato. Perché non sono io, né Roark. Forse è Dalton. Il cielo sa se ha un motivo per screditare la Waverly’s. Ma se è lui, ha agito a mia insaputa e di sicuro senza la mia collaborazione. Adesso non parlerò più, agente Shaw. Vuole essere l’eroe che risolve il grosso caso internazionale? Allora, la smetta di concentrarsi su di me.»
Heidi esitò per un attimo. «Riconosco che lei è molto eloquente. D’altro canto, lo è la maggior parte dei bugiardi» concluse.
Ann intrecciò le mani sul tavolo. Aveva chiesto di andare alla toilette e di chiamare il proprio avvocato. Se insistevano a negarle i suoi diritti, allora avrebbe davvero riferito l’accaduto al New York Times.
Il principe ereditario Raif Khouri aveva esaurito la pazienza. Non sapeva come svolgessero le indagini in America ma, nel suo paese, Ann Richardson sarebbe già stata rinchiusa in carcere. Dopo un paio di notti, avrebbe supplicato per avere la possibilità di confessare.
Avrebbe dovuto trattenerla a Rayas in occasione della sua visita il mese prima, anche se toglierle il passaporto e metterla al fresco avrebbe potuto causare un incidente internazionale. Inoltre, all’epoca era stato ansioso di sbarazzarsene quanto lei lo era di andarsene.
«Altezza Reale?» disse una voce all’interfono del Gulfstream. «Tra pochi minuti atterreremo a Teterboro.»
«Grazie, Hari.» Raif allungò le gambe per riattivare la circolazione.
«Posso mostrarti la città» disse suo cugino Tariq, guardando dall’oblò lo skyline di Manhattan. Tariq si era laureato in giurisprudenza a Harvard.
Il padre di Raif, il re Safwah, era un convinto sostenitore dell’istruzione internazionale. Raif stesso aveva passato due anni a Oxford, studiando storia e politica. Aveva visitato l’Europa e l’Asia, ma era il suo primo viaggio in America.
«Non siamo qui per fare i turisti» fece notare a Tariq.
Il cugino rispose con un sorriso spudorato. «Le donne americane non sono come quelle di Rayas.»
«Non siamo qui per andare a caccia di donne.» Comunque, non al plurale. Dovevano catturarne una in particolare. E dopo averla catturata, Raif l’avrebbe costretta a parlare.
«C’è quel ristorante che si affaccia su Central Park dove...»
«Vuoi che ti rimandi a casa?» lo interruppe Raif.
«Voglio che ti svaghi un po’.» Come cugino di terzo grado, Tariq aveva il diritto di essere più schietto di altri quando parlava con Raif, ma solo fino a un certo punto.
«Siamo qui per trovare la statua del Cuore d’Oro» dichiarò Raif con fermezza.
«Dobbiamo anche mangiare.»
«Dobbiamo concentrarci.»
«E lo faremo molto meglio a stomaco pieno.»
«Avresti dovuto fare l’anarchico» borbottò Raif, agganciando la cintura di sicurezza quando si accese il segnale. Loro due erano amici fin dall’infanzia, e dubitava che avrebbe mai sconfitto Tariq in una discussione.
«L’avrei fatto» replicò Tariq, «ma il re era contrario.»
«Quando sarò re, non farai mai l’anarchico.»
«Quando sarai re, chiederò asilo a Dubai.»
I due uomini mascherarono un sorriso.
«A meno che non riesca a farti svagare» concluse Tariq. «Magari, procurandoti una ragazza.»
«Sono in grado di procurarmele da solo» replicò Raif, che non era certo un fan della vita monacale.
Il Gulfstream atterrò senza scosse in un turbine di neve.
«C’è questo club poco lontano dalla Fifth Avenue» disse Tariq.
«Non sono venuto qui a caccia di ragazze.»
Anche mentre parlava, Raif non riusciva a smettere di pensare ad Ann Richardson. Era stato uno sciocco a baciarla, e ancor più sciocco a provarne piacere.
Di notte, quando chiudeva gli occhi, poteva ancora vedere i suoi capelli biondi, la sua pelle vellutata e gli incredibili occhi azzurri. Risentiva il sapore delle sue labbra calde e il suo profumo alla vaniglia.
Il jet si arrestò all’interno di un hangar e quando il portellone si aprì, Raif e Tariq scesero i pochi gradini. A terra furono accolti dall’ambasciatore di Rayas, un paio di aiutanti e qualche addetto alla sicurezza.
Raif apprezzò quel cerimoniale ridotto al minimo. Sapeva che era solo questione di tempo prima che ogni suo viaggio diventasse una questione di Stato. Anche se era appena sessantacinquenne, suo padre era ammalato da mesi per la ricaduta di una malattia tropicale contratta in Africa. Raif temeva che, quella volta, non si sarebbe ripreso.
«Altezza Reale.» L’ambasciatore, che indossava la tradizionale veste bianca, lo accolse con un inchino formale.
Raif si accorse che socchiudeva gli occhi notando che lui era vestito all’occidentale, ma l’uomo tenne per sé i propri pensieri. «Benvenuto in America» si limitò ad aggiungere.
«Grazie, Fariol. Mi ha procurato una vettura?»
«Naturalmente» rispose Fariol, indicando una limousine.
Raif inarcò un sopracciglio. «Credo che il mio ufficio avesse chiesto qualcosa di anonimo.»
«Non ci sono bandiere né insegne reali sugli sportelli» ribatté Fariol.
Raif si accorse che Tariq si agitava al suo fianco e immaginò che mascherasse un sogghigno.
«Intendevo dire che volevo una berlina. Un’auto che passasse inosservata e che potrei guidare di persona.»
Fariol era chiaramente disorientato. Il giovane aiutante gli si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio: «Posso provvedere subito, signor ambasciatore».
«La prego, proceda.» Raif si rivolse direttamente all’aiutante, guadagnandosi un’altra occhiata di biasimo da parte dell’ambasciatore.
Annuendo, l’aiutante estrasse un cellulare dalla tasca.
Fariol distolse l’attenzione da Raif. «Sceicco Tariq» disse.
Era un affronto molto lieve ma intenzionale. Spettava al principe ereditario, non a un ambasciatore, concludere una conversazione.
Tariq lanciò un’occhiata eloquente a Raif, riconoscendo quell’infrazione al protocollo prima di rispondere: «Signor ambasciatore. Grazie per averci dato il benvenuto».
«Sa quando tornerete a Rayas?»
Tariq esitò mezzo secondo, assumendo un’espressione di esagerata sorpresa. «Quando lo deciderà il principe ereditario, naturalmente.»
La risposta era un rimprovero evidente per l’atteggiamento di Fariol, e Raif dovette trattenere un sorriso. I modi di Tariq erano forse troppo familiari in privato, ma in pubblico si atteneva rigorosamente alla gerarchia reale.
L’aiutante tornò di corsa. «La sua auto sarà qui tra qualche minuto. Una Mercedes berlina. Spero che Sua Altezza ne sarà soddisfatta.»
«Sarà perfetta» rispose Raif, quindi, rivolto a Tariq: «Credi di poterti procurare l’indirizzo?».
Tariq guardò una delle guardie di sicurezza. «Jordan?»
L’uomo si fece avanti. «Possiamo andare, signore.»
Jordan Jones era un americano specializzato in sicurezza che Tariq aveva conosciuto a Harvard e con il quale aveva stretto amicizia. Dalle storie che aveva sentito raccontare sul suo conto, Raif si fidava delle sue capacità.
Il portone dell’hangar si aprì per lasciare entrare una Mercedes berlina e subito l’equipaggio dell’aereo apparve con i bagagli.
«Questo è tutto, Fariol» fu il laconico congedo di Raif. «Guido io» aggiunse, tendendo la mano per avere le chiavi dall’uomo appena sceso dalla vettura.
«Signore?» intervenne Jordan, con un’occhiata perplessa a Tariq.
Guardandosi al di sopra della spalla per assicurarsi che Fariol e il suo staff non fossero a portata d’orecchio, Tariq parlò a voce bassa: