Bob Marley. One Life
Di F.T. Sandman
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Info su questo ebook
Il suo credo, le sue convinzioni, il grande messaggio di pace e amore che ne ha fatto una delle poche autentiche leggende del ventesimo secolo.
Ma anche il lato più privato e segreto, i ricordi d’infanzia, il forte legame con la sua Giamaica, la passione per il calcio. E, naturalmente, la sua musica, colonna sonora di tante generazioni in lotta per i propri diritti. Attraverso le interviste rilasciate da Bob Marley nel corso della sua vita, F.T. Sandman ricostruisce la storia e la voce di una star indiscussa, accompagnando i lettori alle origini del culto rastafari e alla nascita della musica reggae. Senza dimenticare l’eredità di Bob Marley, la carriera musicale dei suoi figli e il debito che tanti celebri musicisti (da Rihanna a Manu Chao) hanno nei suoi confronti. Un libro emozionante e ben documentato, ricco di curiosità e testimonianze per tutti gli appassionati e per chiunque desideri saperne di più su questo grande artista giamaicano.
Prima ha cambiato la musica, poi ha cambiato il mondo
«Un bellissimo atto d’amore verso il re del reggae.»
«Finalmente un testo completo su Bob Marley, scritto da qualcuno che conosce profondamente la materia.»
F.T. Sandman
Nome d’arte di Federico Traversa (Genova, 1975), si occupa da anni di musica e spiritualità. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura - Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley - senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. Insieme allo scrittore Episch Porzioni conduce dal 2017, sulle frequenze di Radio Popolare Network, il programma Rock Is Dead, dedicato alle morti misteriose dei volti noti e meno noti della musica, da cui è tratto l’omonimo libro.
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Recensioni su Bob Marley. One Life
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Anteprima del libro
Bob Marley. One Life - F.T. Sandman
PREFAZIONE
di Bunna, cantante e chitarrista
degli Africa Unite
Durante l’adolescenza non ho mai avuto un genere al quale fossi particolarmente legato. Ascoltavo un po’ di tutto, ero abbastanza portato allo zapping per quanto riguardava il mio gusto musicale.
Ci sono stati periodi in cui ho adorato cantautori come Fossati, Battiato, Guccini e Dalla, e momenti in cui impazzivo per il progressive rock di gruppi come i Genesis e Le Orme.
I miei primi approcci con la musica sono cominciati grazie a una chitarra, imparata a suonare con un metodo – e questo la dice lunga sulla preparazione che poteva dare – che si chiamava Chitarristi in 24 ore
. Tutto iniziò da lì: con quei primi accordi sufficienti per intonare canzoni con gli amici, su una panchina la domenica pomeriggio.
Ma un giorno, ascoltando la radio, qualcosa accadde.
Un ritmo diverso, particolare, strano. Non riuscivo a capire perché, ma suonava in un modo che non avevo mai sentito prima.
La canzone era Lively up Yourself, il cantante era Bob Marley e quello strano ritmo era il reggae.
Quello è stato il momento della folgorazione.
Di lì in poi ho cercato di approfondire, per capire cosa fosse quella musica così solare, così cadenzata.
Ho scoperto la Giamaica e la sua cultura musicale.
Negli anni, ho ascoltato e apprezzato anche molti altri artisti: gli Steel Pulse, Linton Kwesi Johnson, Aswad, Burning Spear, per arrivare, poi, ai vari contemporanei come Luciano e Morgan Heritage. Tutti musicisti grandiosi ma, anche col senno di poi, nessuno è mai riuscito ad arrivare al livello di Marley.
A suo tempo, col reggae ci siamo contagiati a vicenda tra compagni di scuola e amici.
Questa musica, oltre ad ascoltarla, ci ha fatto venire voglia di provare, suonando, a costruire quel ritmo che in prima battuta poteva sembrare semplice, ma che, a un ascolto più attento, così semplice non era.
Ma torniamo al maestro; l’innamoramento per Marley era dovuto a molti aspetti della sua musica. Marley cantava di ingiustizie, sofferenza, lotta, nonostante il tappeto musicale su cui stendeva le parole fosse solare e positivo. Questa è stata una delle cose che più ci hanno colpito.
Lui è stato l’artista da cui abbiamo cercato di imparare quando con gli Africa Unite abbiamo cominciato a muovere i primi passi.
Da lui abbiamo appreso l’importanza di usare la musica per far passare dei messaggi, prendere delle posizioni, illuminare situazioni che, per volere di qualcuno, sono tenute nell’ombra.
Questa è una lezione che abbiamo fatto nostra e che, dopo oltre quarant’anni di attività, ancora anima il nostro approccio creativo.
Per quanto mi riguarda, Marley è stato importantissimo.
Grazie a lui, noi oggi facciamo quello che non avremmo mai pensato potesse accadere: viviamo di musica.
Sono passati ben quarantadue anni dalla sua scomparsa ma, grazie alla sua sensibilità e alla poesia con cui ha saputo fotografare e raccontare la sua visione delle cose, le sue canzoni sembrano essere state composte il mese scorso. Sia la musica che le parole sono fresche, attuali, mai anacronistiche, mai fuori luogo.
Nonostante ciò, in questi anni, abbiamo purtroppo dovuto assistere a operazioni di puro marketing, che con la filosofia che Marley ha sempre propagandato poco c’entrano.
Facendo scelte che lui non avrebbe mai fatto, sua moglie Rita, a capo della Marley Foundation, ha spesso pensato più alla preservazione dell’eredità economica che non a quella spirituale, a cui Bob ha sempre fatto riferimento. Abbiamo assistito a dubbie operazioni discografiche, equivoci eventi in sua memoria che male si associano alla visione della vita che traspare nelle sue canzoni.
Purtroppo, in una società come la nostra queste cose succedono. Il business acceca e fa dimenticare troppo spesso il fine originario delle cose.
Ormai è un family affair!
Questo è il motivo per cui, quando Federico mi ha chiamato spiegandomi il progetto del suo libro, sono stato molto contento. Finalmente un documento che racconta Marley non per interposta persona, ma semplicemente attraverso le parole delle sue interviste.
Leggere questo libro penso possa essere un buon modo per farsi un’idea su cosa Bob farebbe oggi, su quello che sarebbe la sua musica.
Marley non è mai morto e mai potrà morire, continua a vivere nelle sue canzoni eterne, nel suo messaggio di rispetto, amore e tolleranza da cui abbiamo ancora, purtroppo, un sacco di cose da imparare. One Love!
Bunna
PARTE PRIMA
Vita in breve
di Robert Nesta Marley,
per tutti Bob
Il mio primo incontro con Bob avvenne che avrò avuto sette-otto anni. Ero in macchina con i miei genitori e stavamo andando al mare. La riviera ligure è sempre magica, ma in estate lo è ancora di più. Mentre procedevamo verso ponente, il mare leggermente increspato sulla sinistra, i monti verdi e sbeccati sulla destra, mio padre stava armeggiando alla ricerca di qualcosa nel cassettino.
Sulla sua vecchia Alfa Romeo
GT
Junior c’era sempre musica, l’autoradio stava perennemente accesa. Così a memoria ricordo Beatles, Elvis, Rolling Stones, Doors, Buscaglione e, immancabile, Adriano Celentano.
Mia madre la musica sembrava invece odiarla, gli diceva sempre di abbassare il volume o addirittura di spegnere, perché le dava mal di testa. Finché, quel giorno in riviera, mio padre cavò fuori dal cilindro una cassetta con in copertina uno strano tipo dai lunghi capelli annodati in delle specie di grosse trecce che sorrideva. Un sorriso dolce, caldo, consapevole. Un sorriso che ti trasmetteva qualcosa.
E fu lì, dopo che la cassetta venne inserita nell’autoradio, che accadde il miracolo. Mia madre improvvisamente si accese.
«Gian», disse a papà, «ma questo è Bob Marley! Alza, alza», e poi si mise a cantare.
Inutile aggiungere che Bob divenne all’istante il mio idolo: era l’uomo che faceva cantare la mia mamma!
Passò qualche anno e Fabrizio, mio fratello più grande, non solo venne rimandato in latino e greco al liceo, ma i miei lo beccarono a farsi le canne. In casa l’aria era pesante e tesa come una lenza a cui è rimasto aggrappato un pesce enorme. Quanto a me, non avevo la minima idea di cosa fosse una canna. Così scesi in strada e chiesi spiegazioni ai ragazzi più grandi della via. Nell’epoca pre-internet, si faceva così.
Uno di loro, mosso a compassione, mi disse solo «seguimi», e mi accompagnò fino al negozio di musica più vicino (allora ce n’era uno quasi in ogni quartiere). Entrammo, lui si fiondò sulla lettera M e mi mostrò la copertina di Catch a Fire, con Bob ritratto con una specie di missile
acceso fra le labbra.
«Quella è una canna», mi informò lapidario il mio amico.
Wow. Di nuovo quel Bob Marley!
Manco a dirlo corsi a casa, frantumai il salvadanaio e tornai al negozio. Comprai il disco e la sera, a cena, lo regalai a mio fratello. Il mio ragionamento era semplice: a mamma piaceva Bob; Bob si faceva le canne; mamma doveva perdonare Fabrizio. E lo fece: il mio gesto innocente l’aveva divertita ed era scattato il perdono.
Tutto questo per dire che Bob nella mia vita c’è sempre stato. C’era quando lavoravo in un colorificio, a chiamata, guadagnando una miseria e respirando vernice tutto il giorno, e c’era pure quando mi mantenevo facendo il commesso in nero a ottocentomila lire al mese. Era l’esempio a cui guardavo ogni mattina quando mi alzavo, indossavo una felpa col cappuccio che mi nascondesse il più possibile, inforcavo le cuffie con la sua musica e andavo al lavoro. Bob era partito senza un soldo, da solo, in condizioni insopportabili, e ce l’aveva fatta. Magari nel mio piccolo potevo farcela anche io e realizzare il mio grande sogno: vivere grazie alla scrittura.
E quando qualche anno dopo ci sono faticosamente riuscito, Bob è rimasto con me, una presenza fissa nella mia vita.
Come scrittore musicale mi sono specializzato nel reggae, ho assistito a centinaia di concerti, recensito tanti dischi e intervistato molti protagonisti del jamaican sound. Persino alcuni dei figli di Bob, diventati a loro volta musicisti di talento.
Pur non condividendo la dottrina rasta, la forte spiritualità di Marley ha condizionato la mia vita, rimettendomi spesso sul sentiero di ricerca verso l’altrove
. Involontariamente, la sua musica mi ha spinto verso la meditazione, la ricerca spirituale, un nuovo stato di coscienza che, nel mio caso, è arrivato grazie alle filosofie orientali. Ma non importa. Come mi disse Michael Franti quella volta in cui lo intervistai a Milano: «God is too big for one religion». Tanti fiumi, un solo mare.
La prima edizione di questo libro uscì nel 2009. Tutto iniziò una sera in cui, disgustato dalla deriva in cui mi pareva stesse annaspando il mondo – ora non ricordo cosa mi avesse così disgustato, immagino qualcosa legato alla politica –, mi chiesi cosa avrebbe pensato Bob Marley dei tanti problemi di cui si stava discutendo in giro. Avevo necessità di parole lucide, possibilmente di conforto, da qualcuno di cui mi fidavo. In quel periodo così faticoso avevo già letto, in rapida successione, l’autobiografia di Gandhi, quella di Muhammad Ali e alcune massime di Sua Santità il Dalai Lama. Che ci volete fare, ciascuno ha i suoi esempi dai quali cerca risposte. Mi misi così a setacciare la rete alla ricerca delle interviste rilasciate da Bob nel corso della sua vita, sia video che scritte. E a mano a mano le traducevo. Non per farne un libro, non per qualche motivo particolare. Solo e unicamente per conforto. E intanto annotavo, inserivo delucidazioni dove servivano, approfondivo. Per capire Bob bisognava conoscere la religione rastafari, le figure di Hailé Selassié e Marcus Garvey, la storia della musica caraibica e quella della Giamaica in generale. Iniziai così a scrivere un riassunto delle mie ricerche, in modo da avere sempre a portata di mano qualcosa che spiegasse in maniera semplice e coincisa i tanti riferimenti presenti nelle interviste di Bob.
Ecco, Bob Marley – One Life è nato così, inconsapevolmente. Un libro che all’inizio non era stato pensato come tale ma solo come una sorta di supporto
per la mia anima inquieta.
Il fatto che, dopo tre edizioni, diverse migliaia di copie vendute e tante presentazioni in giro per l’Italia, continui a essere ristampato non mi sorprende, devo dire la verità. Più il mondo cresce e va avanti, più ha bisogno di testimoni autentici, credibili, veri.
E Bob, nel bene come nel male, autentico lo è sempre stato.
Per questo le sue canzoni, la sua musica e le sue parole sono ancora ascoltate e apprezzate in tutto il mondo, oggi come ieri.
E sono certo sarà così anche domani.
Quanto a me, be’, non sono più quel bambino che andava al mare con mamma e papà e cercava di salvare il fratello dalle punizioni perché si faceva le canne, né quel giovane inquieto che si spaccava la schiena lavorando sottopagato alla ricerca di un posto al sole nel mondo della scrittura. E nemmeno il trentenne finalmente sistemato, che girava i palchi scrivendo di questo o quell’artista sorseggiando mojito. Mi sto avvicinando di buon passo ai cinquanta, sono un marito e, soprattutto, un papà di due bimbi belli e scatenati, che manco a dirlo conoscono le canzoni di Marley meglio di me. Ecco, quando li osservo cantare a squarciagola One Love o Waiting in Vain mentre ce ne stiamo andando in spiaggia con la macchina e i finestrini abbassati, non chiedetemi perché, ma mi sento a posto, in pace, sereno. È come se si fosse chiuso un cerchio, e finalmente mi sento esattamente nel posto in cui devo essere.
Meglio di così, cosa significhi Bob Marley per il sottoscritto, non riesco proprio a spiegarlo.
F.T. Sandman
1
Il predestinato
Quante possibilità ci sono che il figlio di una ragazzina giamaicana nera e di un attempato white man col vizio di alzare un po’ il gomito, nato in un paesino di campagna – ammesso che si possa definire paesino un agglomerato di tre o quattro case – possa diventare la superstar più influente della storia della musica?
Il messaggero di redenzione di quasi tutti i popoli emarginati della Terra?
Quante possibilità ci sono che la musica di un mezzosangue cresciuto sul dorso di un asino fra le isolate campagne delle colline giamaicane, poi trasferitosi in un ghetto di poveracci a Kingston, stretto fra miseria, lamiere e pallottole, e morto ormai da oltre quarant’anni, continui a risuonare ovunque in tutto il mondo? E quando dico tutto il mondo, intendo tutto il mondo. Mica solo Stati Uniti ed Europa. La sua musica suona nei chiringuito in Sud America, nei van dei surfisti che attraversano l’Australia alla ricerca di onde, nei baretti sulle spiagge di Phuket in Thailandia, sui battelli che indolenti attraversano il Niger, persino nelle stazioni spaziali fuori dalla nostra atmosfera. Serve speranza, consapevolezza, voglia di cambiare le cose? Ed ecco risuonare quella musica, balsamo per il cuore e l’anima di chi sta in fondo alla fila.
Tornando alla domanda di partenza: quante possibilità c’erano che capitasse una cosa del genere?
A livello statistico, diciamo lo 0,0001%?
Decisamente di più se si accetta la possibilità di un intervento divino.
Ma vai a sapere…
Robert Nesta Marley nasce il 6 febbraio 1945 in un piccolo villaggio chiamato Rhoden Hall, situato ai piedi della collina di Nine Mile, nel distretto rurale di Saint Ann, in Giamaica.
Suo padre, Norval Sinclair Marley, non è un ufficiale della marina inglese sulla cinquantina, come viene in genere ricordato, ma un inquieto sessantaquattrenne che nella vita ha fatto di tutto, dal militare al costruttore edile, lavorando a Cuba, in Nigeria, Gran Bretagna e Sud Africa, e che quando mette incinta la madre di Bob sta supervisionando per conto del governo una parte dell’area rurale di Saint Ann promessa ai veterani. Norval non è nemmeno inglese, ma è nato a Clarendom, in Giamaica. E, pensate un po’, anche sul suo essere bianco vi è da ridire visto che, come racconta il suo pronipote Christhoper, pare sia nato da padre bianco e mamma mulatta.
Proprio come suo figlio Bob, che viene messo al mondo da Cedella Ciddy
Malcolm, una nativa giamaicana figlia di contadini e appena diciottenne.
L’unione interrazziale fra Norval e Cedella, scandalosa per la Giamaica dell’epoca, spinge la famiglia di Marley a minacciare di diseredare il loro congiunto se non interrompe subito la relazione. Come se in famiglia non fosse mai successo…
Norval si trova così a un bivio, sposare o abbandonare la ragazzetta nera che ha messo incinta. La situazione non è semplice: vivere con una donna di colore, indigente e in attesa di un figlio, dopo che la famiglia l’ha lasciato senza beni, equivale ad affrontare una vita dalle tante difficoltà, e lui non se la sente. Alla fine trova un compromesso: sposa Cedella, in modo da lasciarla con un’unione regolarizzata e un cognome da dare al bambino che porta in grembo, le lascia un po’ di soldi, e poi svanisce.
Bob vive i primi anni della sua vita in campagna, a Saint Ann, insieme alla madre e al nonno Omeriah, che diviene una figura fondamentale per la sua formazione.
Un tipo spirituale, quasi mistico il vecchio, vero e proprio punto di riferimento di tutta la comunità. Si dice sia un myalmen, cioè una specie di sciamano che sa usare le erbe, curare le persone, e pare sappia mandare via i duppies, gli spiriti maligni che, stando alle leggende contadine dell’isola, infestano le foreste.
Ed è sempre il nonno a insegnare a Bob le regole della vita in campagna, il rispetto per gli animali, l’importanza di essere in armonia con la Madre Terra. Alla fine, Omeriah rappresenta in tutto e per tutto quella figura di riferimento maschile di cui il bambino ha bisogno per crescere sano ed equilibrato.
Quando Bob compie cinque anni, suo padre misteriosamente riappare dalle parti di Nine Mile dicendo di volerlo portare con sé a Kingston per iscriverlo a scuola. Bob si trasferisce così al seguito del capitano Marley, e per quasi due anni la madre non ha più notizie di lui. Preoccupata, parte per il capoluogo in cerca del figlio. Qui scopre che Bob non solo non va a scuola, ma non vive neppure con il padre: abita invece con una certa signora Grey, un’anziana malata di diabete che accudisce aiutandola in casa e andandole a fare la spesa. Il tempo libero invece lo trascorre in strada, altro che andare a scuola. Certo, anche la strada può essere una buona maestra, il mio amico Don Gallo la chiamava la sua università, quella dove si era laureato, ma è innegabile che sarebbe preferibile raffrontarsi con i suoi insegnamenti da più grandicelli; da piccoli ci vuole la scuola, quella vera, quella che Bob a Kingston non ha mai visto. La signora Grey racconta a Cedella che il signor Marley le ha lasciato il bambino diversi mesi prima senza darle un soldo per il suo mantenimento e senza mai andarlo a trovare.
Non si scoprirà mai perché il capitano Marley si sia comportato così con il proprio figlio.
Soltanto cinque anni dopo Cedella verrà a sapere che Norval è sposato anche con una donna bianca con cui vive a Kingston, e gli farà causa per bigamia; proprio durante l’udienza in tribunale Bob vedrà per l’ultima volta suo padre. L’uomo, in ristrettezze economiche e sempre più incline all’alcolismo, morirà qualche mese più tardi per un attacco cardiaco.
Terminata la confusa esperienza cittadina, Bob fa ritorno a Nine Mile e la sua vita riprende come un tempo.
Sua madre, sempre in lotta con la miseria, adibisce una baracca a negozio e la famiglia sopravvive grazie ai pochi prodotti alimentari che vengono venduti alle famiglie vicine.
Alla fine, quella di Bob è una vita dura ma non brutta, una vita regolata dalla