Fano e la valle del Metauro. Vini, spiriti e storie maledette
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Anteprima del libro
Fano e la valle del Metauro. Vini, spiriti e storie maledette - a cura di Francesca Tombari
A cura di
Francesca Tombari
FANO E LA VALLE DEL METAURO
VINI, SPIRITI E STORIE MALEDETTE
Prima Edizione Ebook 2020 © Brividi a cena
ISBN: 9788893471299
img1.pngCollana Brividi divini
Edizioni del Loggione srl
Via Piave n. 60
41121 Modena – Italy
loggione@loggione.it
http://www.loggione.it
img2.jpgIl nostro catalogo completo lo trovi su
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FANO E LA VALLE DEL METAURO
a cura di
Francesca Tombari
INDICE
L’omicidio delle purass alla pureta
Prove tecniche di giallo enologico
Brodetto fanese
Garage Sofia
Moretta
Tagliolini alla puretta
Compagni di briscola
La Bora dei Santi
Io sono colpevole
I VINI E GLI SPIRITI
Vini della provincia di Pesaro e Urbino
La Moretta, bevanda tipica fanese
GLI AUTORI
L’omicidio delle purass alla pureta
di Giovanni Belfiori
«Lo scalogno no. È un’eresia, uno stravolgimento completo della tradizione. Per quanto trattasi di scalogno romagnolo, quindi un prodotto a noi vicino e di origine protetta, nelle purass alla pureta deve, e sottolineo deve, andarci l’aglio e solo l’aglio.»
A quel punto fu il silenzio e s’udì solo il rumore di sottofondo delle masticazioni e del tintinnio di qualche posata.
Era una tiepida serata di fine aprile, da giorni il sole illuminava e scaldava la Riviera adriatica tanto da aver indotto più d’uno a tentare il primo bagno della stagione. I commensali intorno al grande tavolo di legno nella saletta riservata dell’Osteria del Granchio forse riflettevano sulle parole del Gran Maestro o forse erano intenti a sgusciare le purass alla pureta, ovvero le vongole alla poveretta, il secondo antipasto previsto nel lungo menù della serata, piatto che veniva esattamente dopo gli sgombri alla fanese e prima delle seppie con le patate, e prima ancora di due primi piatti, due secondi, dolce e Moretta, il caffè corretto tipico di Fano.
La ricetta fanese delle purass alla pureta era oggetto di un’aspra discussione fra i soci del direttivo dell’Antica Consociazione degli Orti e del Mare, il sodale che ogni mese si ritrovava a cena all’Osteria del Granchio, ristorante che s’affacciava sulla spiaggia di ciottoli di Sassonia, per gustare piatti della tradizione gastronomica di Fano e della provincia di Pesaro e Urbino, ma soprattutto per lanciarsi in estenuanti discussioni sulle ricette, esaminandole punto per punto, contestando o ammettendo alcune innovazioni, discettando su tempi di cottura e ingredienti.
Gli undici che in quel momento si trovavano a cena costituivano il direttorio dell’Antica Consociazione, guidata dal Gran Maestro, l’ex preside del locale liceo-ginnasio Guido Nolfi
Benito Pazzini, ottantasette anni trascorsi, oltre che a scuola, fra intingoli e vapori, notti insonni in cantina e pomeriggi di meditazione davanti a un semplice vinello; nonché con una liturgia gastronomica tutta sua, che spaziava dalle tradizioni locali a quelle di tutta Italia. Il 19 marzo, San Giuseppe, si metteva lui a friggere le zeppole; a Pasqua, obbligava tutta la famiglia a preparare cresce di formaggio in serie, mentre la notte di San Giovanni, il 24 giugno, usciva con sua moglie a raccogliere le noci col mallo per preparare il nocino
fatto in casa e non c’era 25 novembre, giorno dedicato a Santa Caterina, in cui non assistesse all’apertura delle fosse
piene di forme di formaggio pecorino.
Era, dunque, il Pazzini, il più notevole esperto di cucina italiana cui la città avesse dato i natali e il custode riconosciuto e indiscusso delle tradizioni gastronomiche locali.
Il commissario Livio Bacci era entrato nella Consociazione quasi per gioco. Invitato da Pazzini, che lo aveva avuto come studente liceale e che conosceva bene la passione e la competenza in cucina del poliziotto, Livio si era subito entusiasmato a quelle serate trascorse a gustare e a chiosare sui piatti della tradizione, e non si era perso nessuna delle cene organizzate da quei cultori del cibo.
La serata aveva per tema l’aglio, e quindi Mario, cuoco e titolare dell’Osteria, aveva ricevuto l’incarico di preparare un menù dove ogni piatto, tranne dolce e moretta, contenesse questo saporito e odoroso bulbo.
Tommaso Ragnetti, ricco imprenditore locale, noto per le esclusive cene che di tanto in tanto organizzava nella sua villa al Lido di Fano, dove lui stesso cucinava per tutti gli invitati, cimentandosi non solo con le ricette della tradizione ma avventurandosi anche in ardite innovazioni, aveva proposto di sostituire, nella ricetta delle vongole, l’aglio con lo scalogno, o almeno di tenerne conto come opzione. La reazione del Pazzini fu decisa e quasi veemente: non si poteva stravolgere in quel modo la tradizione. Mentre Ragnetti stava terminando la sua proposta, il Gran Maestro aveva tirato fuori dalla sua capiente borsa un quadernino liso, scritto fitto fitto. Alzò perentoriamente una mano per far tacere il Ragnetti e iniziò la sua requisitoria contro l’eresia gastronomica: «Caro Tommaso, sei in errore. Ti ricordo, e lo rammento a tutti, che lo stesso Pellegrino Artusi, nella sua Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene scrive nella ricetta numero 498, a proposito di telline e arselle che, come tutti sappiamo, è termine toscano che sta per vongole: "Tanto le une che le altre mettetele al fuoco con un soffritto di aglio, olio, prezzemolo e una presa di pepe, scuotetele e tenere coperto il vaso onde non si prosciughino. Levatele quando saranno aperte ed aggraziatele con la seguente salsa: uno più rossi d’uovo, secondo la quantità, agro di limone, un cucchiaino di farina, brodo e un po’ di quel sugo uscito dalle telline. Cuocetela ad uso di crema e versatela sulle medesime quando le mandate in tavola. Io le preferisco senza salsa e le fo versare sopra fette di pane asciugato al fuoco. Così si sente naturale il gusto del frutto di mare". E, se volessimo, potremmo risalire a ricettari ancora più antichi di questo del 1891, dove è previsto l’aglio, e non altro.»
Ragnetti non si rassegnava. Replicò che lo scalogno di Romagna era un ingrediente di grande qualità, il cui aroma, a metà fra aglio e cipolla, si sposava perfettamente con le vongole, e che la ricetta con il burro in luogo dell’olio extravergine di oliva, e lo scalogno al posto dell’aglio, esisteva già. Pazzini, al solo nominare il burro, quasi saltò sulla sedia.
«Eresia! È una vera e propria eresia, che nulla ha a che fare col nostro lavoro di cultori e difensori della tradizione fanese. A casa tua, caro Tommaso, puoi cucinare come vuoi, ma qui noi siamo chiamati a un alto e nobile compito, non lo dimenticare.»
Ragnetti tentò di riprendere la parola, ma Pazzini chiamò di forza Mario dalla cucina e gli ordinò di enunciare davanti a tutti l’autentica ricetta delle purass alla pureta. Mario, un omaccione di cinquant’anni, era ben abituato agli atti d’imperio del preside Pazzini, e non se lo fece ripetere: «Dunque, le vongole alla poveraccia sono un piatto semplice – esordì – ma nella sua semplicità non ammettono errori, questo ve lo garantisco. Allora, le vongole che uso non sono le veraci, e questo lo sappiamo bene, ma quelle nostrane dell’Adriatico. Vanno pulite bene, innanzitutto eliminando quelle spezzate e le varie impurità. Poi si passano sotto l’acqua corrente fredda, agitandole con le mani. Dopo di che le lascio per un’oretta abbondante a bagno in acqua salata, dentro il frigorifero.
Le tolgo e le risciacquo ancora 4 o 5 volte, con l’avvertenza di non usare lo scolapasta, perché gli eventuali residui di sabbia non verrebbero eliminati. Ho cura, invece, di togliere dal recipiente le vongole con le mani, buttare l’acqua, riempire di nuovo il recipiente con acqua pulita, immergervi le vongole, mescolarle e risciacquare ancora.
Dopo aver completato la pulizia, verso in un tegame basso e ampio l’olio, l’aglio e il prezzemolo tritati. Faccio scaldare appena, e attenzione a non far soffriggere perché sarebbe un errore, verso le vongole, quindi aggiungo sale e pepe.
Copro con il coperchio e lascio cuocere finché le vongole non si saranno aperte. Servo a tavola, così come questa sera, accompagnando le vongole con fette di pane abbrustolite, perché il liquido di cottura è eccezionale per fare la scarpetta
.
Questa è la ricetta così come l’ho sempre conosciuta e come la preparo io, ma è giusto dire che ci sono alcune varianti, ad esempio c’è chi fa sfumare le vongole col vino bianco, chi insieme a olio e aglio aggiunge pezzi di pomodoro, c’è chi non mette il pepe ma il peperoncino, chi trita insieme aglio e cipolla…
Se posso permettermi – proseguì il cuoco, quasi timidamente – il signor Ragnetti mi ha proposto di cucinare oggi le vongole con lo scalogno, e io c’avrei pure provato, ma non ho osato, perché so bene quanto ci teniate al rispetto della tradizione. In ogni caso, a mio parere, l’importante è non soffocare troppo il sapore delle vongole.»
Ragnetti sorrise: Mario aveva concesso la presenza della cipolla insieme all’aglio e aveva anche ammesso che lui lo scalogno l’avrebbe pure adoperato.
Pazzini si fece scuro in volto. «Mario... mi stupisco, proprio tu, tu che hai sempre seguito la tradizione con fedele osservanza. Il peperoncino... e poi la cipolla, e perfino lo scalogno... suvvia! Qui stiamo esagerando. Lo ripeto: aglio, e solo aglio.»
A quel punto, però, benché l’autorità del Pazzini non fosse in discussione, sarebbe stato impensabile non aprire una discussione e non porre a votazione la mozione di Tommaso Ragnetti.
Uno a uno, i soci presero la parola sulla proposta che aveva avanzato. Oltre al Pazzini, facevano parte del direttorio sette uomini e tre donne, incluso Ragnetti. Intervenne per prima la pittrice Anna Tesei, poi fu la volta dell’impiegato della locale Cassa Rurale Piero Rondini e di Giovanni Tannini, un avvocato diventato famoso per aver difeso anni prima un noto politico nazionale. Tutti e tre appoggiarono, senza troppo discutere, il Gran Maestro. Il quarto che prese la parola fu il notaio Antonio Di Blasio. Era un conservatore nato, un nostalgico del tempo che fu, e non lesinò una puntuta critica a Ragnetti.
«Le innovazioni vanno bene dovunque, tranne qui. Ragnetti, devi deciderti da che parte stare: o da quella delle cene alla moda che allestisci nella tua villa o da quella della Consociazione che, per statuto, difende e tramanda, non innova, non inventa, non stravolge.»
Il quinto fu il conte Ermenegildo Della Costanza Martini, nobile spiantato che più volte si era trovato nella necessità di chiedere prestiti proprio al Ragnetti: non volle parteggiare per una posizione o per l’altra e se la cavò con una dichiarazione che difendeva la ricetta originale ma che, tuttavia, lasciava campo aperto a modifiche dettate dalla modernità. A seguire, Isabella Dorini, titolare della più importante agenzia immobiliare della città, bellissima e giovane donna che, si diceva, aveva una vita piuttosto libertina; quindi toccò all’insegnante di matematica Stefano Libori e all’architetto Paola Tommucci: tutti e tre sostennero le tesi di Pazzini. L’ultimo a intervenire fu Bacci. Nonostante la prosopopea del Pazzini, il commissario era consapevole che il ruolo della Consociazione era proprio quello di tutelare la tradizione, quindi si espresse a favore dell’aglio, bocciando lo scalogno.
Mentre i soci del direttorio prendevano la parola, Pazzini se ne restò silenzioso e immobile come una sfinge; Ragnetti, invece, si era bevuto un bicchiere di Bianchello dietro l’altro, con una foga dovuta al nervosismo o chissà. Bacci contò tre calici scolati fino in fondo. Alla fine, dopo le dichiarazioni finali dei due contendenti, Pazzini risultò il vincitore, nessuno lo aveva contraddetto palesemente, nemmeno il conte Della Costanza Martini che si era prudentemente tirato fuori dall’agone.
La cena proseguì in un clima tutto sommato rilassato, senza tensioni, col Ragnetti che continuava a bere senza sosta, e ogni tanto usciva dall’Osteria per fumare, a volte da solo, a volte in compagnia di qualcuno dei sodali, Bacci incluso, che in quanto a sigarette era un fumatore accanito, nonostante il medico lo avesse messo in guardia dai rischi mortali di quella pessima abitudine.
Alla fine, intorno a mezzanotte e mezzo, si salutarono col motto della Consociazione, metà in latino e metà in dialetto fanese: Sol sal sal. Cibi condimentum esse famem.
Uscirono dall’Osteria tutti insieme, si salutarono, qualcuno avanzò l’idea di un bar dove consumare il bicchiere della staffa, qualcun altro si diresse alla propria automobile per andare dritto a casa. Il commissario si accese l’ennesima sigaretta e si accorse che accanto a lui c’era Ragnetti.
«Tommaso, segui anche tu il gruppo del bar o te ne vai a casa?» chiese Bacci.
«Né l’una né l’altra cosa – rispose l’uomo – credo di aver bevuto troppo, farò una passeggiata sulla battigia e poi, smaltito l’alcol, me ne tornerò a casa, tanto abito a due passi da qui.»
«Vuoi che ti accompagni? Magari mi spieghi meglio la tesi dello scalogno...» scherzò Bacci, che in realtà si era accorto che l’uomo era ubriaco.
Ragnetti sorrise. «No, ti ringrazio. E poi c’è poco da spiegare. Questa associazione non comprende che la tradizione, prima di essere tale, è stata innovazione. Nessuna tradizione nasce come tradizione: nasce, anzi, come tradimento della tradizione precedente, poi si afferma e diventa essa stessa tradizione, pronta a sua volta a essere superata. Noi, invece, ci ostiniamo a pensare alle ricette come a dogmi cui portare un rispetto quasi religioso. È andata così, questa sera, ho perso e accetto la sconfitta, ma non rinuncio alle mie idee. Ti saluto, Livio, alla prossima cena.»
Si accese una sigaretta, volse uno sguardo verso l’Osteria, poi salutò Bacci e si diresse verso la spiaggia. Né lui né Bacci potevano sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta che si vedevano.
Alle sei e qualche minuto del mattino, una coppia di giovani, un uomo e una donna di circa vent’anni, proveniente dal lungomare di Sassonia, camminava veloce dal porto peschereccio verso la spiaggia del Lido. Arrivò al faro e attraversò il ponte pedonale che collegava l’arenile di levante da quello di ponente. Erano diretti verso il gruppo di yogin che ogni mattina portava il saluto al sole, quando la ragazza, al termine del ponte, notò sulla panchina un uomo seduto ma col corpo in una posizione innaturale, la testa troppo sistemata all’indietro. Sarà un ubriaco che dorme, si disse, ma poi ci ripensò.
«Dove vai? Lascia perdere quel fuori di testa sulla panchina, dai!» la rimproverò il giovane, ma la ragazza era già arrivata davanti all’uomo.
Non stava dormendo: era morto, e la cosa più curiosa e ripugnante era che aveva la bocca aperta e piena di gusci di vongole.
Ivan Corradi, il medico legale, uscì dalla sala delle autopsie e si trovò di fronte il commissario Bacci. Corradi era giovane e sembrava aver soggezione del poliziotto che lo stava squadrando dall’alto al basso.
«Allora dottore, che è successo al Ragnetti? Non mi dirà che è morto per una indigestione di vongole...»
«Commissario, no, le vongole non c’entrano, almeno non quelle ingerite, – rispose sussiegoso – ma sono state proprio le vongole a ucciderlo. Per soffocamento.»
«C’erano lesioni sul suo corpo?»
«No, nessuna evidente. Ragnetti Tommaso aveva un tasso alcolemico molto elevato: 2,1. Probabilmente si è addormentato sulla panchina o comunque aveva i riflessi affievoliti: l’assassino non deve aver faticato molto a tenerlo fermo e inserirgli nella cavità orale i gusci di vongola che poi