Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Fratelli e soldati
Fratelli e soldati
Fratelli e soldati
E-book601 pagine7 ore

Fratelli e soldati

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«Una rivelazione.»
Steve Twomey, premio Pulitzer

La vera storia degli ebrei che sconfissero Hitler

Lasciarono la Germania per salvarsi. Tornarono per combattere i nazisti.

Negli anni trenta un gruppo di ragazzi ebrei riuscì ad abbandonare la Germania e a iniziare una nuova vita in America. Nonostante il permesso di arruolarsi nell’esercito, furono sempre considerati come stranieri di cui diffidare. Finché nel 1942 il Pentagono non comprese quale incredibile risorsa potessero rappresentare. Quegli uomini conoscevano la lingua, la cultura e la psicologia del nemico meglio di qualsiasi americano ed erano, più di chiunque altro, motivati a lottare contro il regime antisemita di Hitler. Fu così che fecero ritorno in Europa come “Ritchie Boys”, un’unità segreta dell’esercito americano. Addestrati nell’arte di interrogare prigionieri, duemila soldati ebrei vennero rispediti nella Germania nazista, in prima linea sui campi di battaglia. Il loro scopo era ottenere dai prigionieri di guerra informazioni vitali sui movimenti delle truppe e le strutture di comando: un’operazione che ebbe un enorme successo e si dimostrò decisiva per la vittoria delle forze Alleate. Alcuni di quegli eroi sono ancora vivi. 

N°1 del New York Times
Una storia epica di eroismo, coraggio e patriottismo.

«La storia di duemila valorosi ebrei tedeschi che aiutarono gli Alleati a vincere la seconda guerra mondiale. Il loro messaggio di coraggio e patriottismo è d’ispirazione per la guerra al terrorismo dei nostri giorni.»
Leon Panetta, ex direttore della CIA ed ex segretario della Difesa

«Una rivelazione. Una storia incredibile ed eroica rimasta sconosciuta fino a oggi.»
Steve Twomey premio Pulitzer

«L’eccellente racconto di una delle più grandi storie dimenticate della seconda guerra mondiale.»
Steven P. Remy

«Una saga di formazione, patriottismo e coraggio che non ha eguali nella storia della seconda guerra mondiale. Una lettura davvero indimenticabile, grazie allo stile potente di Henderson.»
Bill Sloan

«Un trionfo. A più di settant’anni dalla fine della guerra, Bruce Henderson ha scovato una storia di valore e coraggio che non era mai stata raccontata.» 
John Wukovits, autore di Tin Can Titans

«Un contributo inestimabile al canone dei libri sulla seconda guerra mondiale.»
Steven Karras
Bruce Henderson
È autore di oltre venti libri di saggistica, tra cui il N°1 del «New York Times» And The Sea Will Tell e altri bestseller. Per scrivere Fratelli e soldati si è basato su interviste personali a molti veterani sopravvissuti e su approfondite ricerche d’archivio. Giornalista e scrittore pluripremiato, firma articoli per i principali periodici nazionali e ha insegnato scrittura e giornalismo alla USC School of Journalism e alla Stanford University. I suoi libri sono stati tradotti in dieci Paesi. Vive a Menlo Park, in California. Fratelli e soldati è stato venduto in sei Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2017
ISBN9788822712813
Fratelli e soldati

Correlato a Fratelli e soldati

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Guerre e militari per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Fratelli e soldati

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Fratelli e soldati - Bruce Henderson

    Prologo

    Germania 1938

    Una raffica di violenti colpi alla porta strappò Martin Selling dal sonno. Era poco prima dell’alba del 10 novembre 1938.

    Martin abitava a Lehrberg, nella Germania sudorientale. Lui e i suoi parenti erano gli unici ebrei tra i mille residenti di quel tranquillo villaggio agricolo. Il giorno precedente i nazisti avevano scatenato una serie di brutali attacchi coordinati contro gli ebrei in tutta la Germania. Ma Martin ancora non lo sapeva.

    I pogrom sarebbero diventati presto noti come Kristallnacht, Notte dei cristalli, per via delle vetrine e delle finestre infrante di migliaia di sinagoghe, negozi e case ebraici. Persino gli ospedali furono saccheggiati e distrutti. Le violenze iniziarono dopo che a Parigi un diciassettenne aveva sparato a un diplomatico tedesco, come vendetta per l’espulsione dei suoi genitori dalla Germania insieme a migliaia di altri immigrati ebrei polacchi. Usando l’attentato di Parigi come pretesto per un rastrellamento programmato da tempo, il 9 novembre le truppe d’assalto naziste uccisero centinaia di ebrei e ne arrestarono 30.000.

    Il ventenne Martin era tornato di recente alla sua casa d’infanzia di Lehrberg da Monaco, dove aveva fatto il sarto. Monaco fu la città che vide l’ascesa di Hitler ed era la sede del quartier generale del Partito nazista. Martin aveva visto Hitler innumerevoli volte; quando il suo corteo sfrecciava lungo le strade della città, sui marciapiedi tutti si mettevano sull’attenti e levavano il braccio destro urlando «Heil Hitler!». Ogni volta che Martin sentiva avvicinarsi il corteo del Führer o vedeva gruppi di nazisti marciare al passo dell’oca, cercava di passare inosservato o si nascondeva in un vicolo.

    All’inizio di quell’anno Hitler si era reso conto che lungo la strada per la sede del partito il suo corteo passava davanti a una grande sinagoga. Per ordine del Führer, alla congregazione fu concesso meno di un giorno per rimuovere i libri e gli oggetti di valore dal tempio, che fu raso al suolo per essere poi trasformato in un parcheggio. Il datore di lavoro di Martin, un vecchio ebreo, decise che la misura era colma e fuggì in Italia. Martin, disoccupato, tornò nella casa natale a Lehrberg.

    I colpi alla porta diventarono sempre più minacciosi. Quando Martin si alzò per aprire, i cardini stavano già cedendo. Si trovò di fronte quattro Sturmabteilung (SA), con le camicie brune e i bracciali con l’insegna rossa e nera della svastica, che lo spinsero da parte e irruppero nell’appartamento nonostante con il suo metro e novanta Martin li sovrastasse tutti.

    Senza fornire alcuna spiegazione, le SA perquisirono la casa – sequestrando una costosa macchina fotografica – e poi presero in custodia Martin insieme a suo zio Julius Laub, che dopo la morte della sorella Ida – la madre vedova di Martin –, avvenuta due anni prima, gestiva il negozio di tessuti della famiglia alla porta accanto. Ida si era occupata del negozio dopo la scomparsa, quindici anni prima, del padre di Martin, colpito da un infarto. Le SA arrestarono anche la domestica, unica altra residente nella casa. E nella stessa operazione prelevarono la zia di Martin, Gitta, e i suoi tre figli, che abitavano lì vicino.

    Furono trasportati tutti in uno stadio nella cittadina di Ansbach, dove c’erano già altri sessanta uomini, donne e bambini ebrei. I prigionieri, terrorizzati, si raggomitolarono sulle gradinate, tremando di freddo e di paura per il resto della gelida notte. Parlando sottovoce con gli altri, Martin apprese che la sinagoga di Ansbach era stata data alle fiamme, le case degli ebrei locali saccheggiate e gli uomini malmenati. Quando Martin e alcuni altri chiesero alle SA dove intendevano portarli, i nazisti sembravano ignorarlo. Gli era stato ordinato soltanto di arrestare tutti gli ebrei.

    Il pomeriggio seguente, intorno alle tre, le donne, i bambini e gli uomini di oltre cinquantacinque anni furono liberati senza ulteriori spiegazioni. Martin, suo zio e una quindicina di altri rimasero sotto custodia. Furono fatti marciare fino alla prigione locale, una vecchia struttura cadente, e rinchiusi in un’unica cella. Non c’erano né acqua corrente né servizi igienici – soltanto un secchio del miele di metallo – e il cibo era scarso e di pessima qualità. Dopo due giorni stipati nella cella furono spediti a Norimberga, a una cinquantina di chilometri di distanza.

    La prigione distrettuale di Norimberga era al limite della sua capienza. Parecchie centinaia di tedeschi dei Sudeti, tedeschi etnici della Cecoslovacchia, erano stati arrestati per essersi opposti all’annessione tedesca della regione, dove fino a due mesi prima vivevano tre milioni di tedeschi etnici. Gli ebrei locali arrestati durante la Kristallnacht – circa un centinaio nella sola Norimberga – furono rinchiusi nella palestra del carcere, attrezzata soltanto con materassi gettati sul pavimento. Il gruppo di Martin si unì a loro.

    La maggior parte delle guardie, uomini anziani abituati ad avere a che fare con criminali incalliti e non con prigionieri politici, furono disorientati dal sovraffollamento del carcere. Fecero il loro dovere e nulla di più, permettendo ai prigionieri di rimanere spesso da soli. Un gruppo di detenuti portava il cibo agli altri dalle cucine, e a un certo punto tutti poterono lavarsi nei bagni comuni, dove c’era una fila di docce. Ai prigionieri era consentito uscire a piccoli gruppi dalla palestra per un’ora al giorno; potevano camminare in cerchio nel cortile della prigione soltanto in assenza di detenuti ariani, per evitare che questi entrassero in contatto con gli ebrei.

    Dopo una settimana alcuni prigionieri ebrei furono liberati, e tra loro lo zio di Martin. I criteri in base ai quali alcuni potevano andare e altri no erano totalmente imperscrutabili per Martin e i suoi compagni. Anche se alcune guardie rivelarono di avere ricevuto l’ordine di rilascio dalla Gestapo locale, nessun agente della temuta polizia segreta si era presentato al carcere e nessun prigioniero era stato interrogato. Il 22 dicembre – sei settimane dopo l’arresto di Martin – erano rimasti in nove. Quel giorno le guardie annunciarono che sarebbero stati trasferiti al campo di concentramento di Dachau.

    Martin, che ora era rinchiuso in una cella individuale, si sentì come se lo avessero preso a calci nello stomaco. Come la maggior parte dei suoi compatrioti, che quando lo nominavano abbassavano la voce, sapeva dell’esistenza di Dachau.

    Inaugurato nel marzo 1933 sul sito di una vecchia fabbrica di munizioni della prima guerra mondiale nei pressi di Monaco, Dachau fu il primo campo di concentramento costruito dai nazisti dopo la loro ascesa al potere. Il capo delle SS Heinrich Himmler aveva annunciato ai giornali che a Dachau sarebbe stato incarcerato chi «minacciava la sicurezza dello stato». Nel primo anno il campo ospitò quasi 5000 prigionieri, in gran parte comunisti, socialdemocratici, sindacalisti e altri oppositori politici dei nazisti.

    Martin aveva un rapporto molto personale con Dachau. Nell’aprile 1933 suo cugino, un avvocato di Monaco, era stato arrestato e spedito al campo, dove era morto tre mesi più tardi. Dopo quello che aveva sentito su quel luogo, Martin considerava il trasferimento a Dachau una condanna a morte.

    I lucchetti delle celle furono aperti e le guardie spalancarono le porte. Martin scrisse frettolosamente su un pezzo di carta un messaggio d’addio al fratello gemello Leopold, che viveva con una zia in un’altra località della Germania, e allo zio Julius. Avanzando lungo il corridoio passò davanti alla cella di un prigioniero che conosceva e infilò il biglietto tra le sbarre.

    Alla stazione ferroviaria di Norimberga Martin e gli altri otto uomini arrestati ad Ansbach furono caricati su un moderno treno passeggeri dove vennero sorvegliati a vista durante tutto il viaggio di centocinquanta chilometri fino al deposito di Dachau. Quando arrivarono, la loro carrozza fu fatta deviare su un altro binario e i prigionieri furono circondati da SS in uniforme nera con le svastiche rosse che imbracciavano fucili con le baionette.

    Le SS spinsero i prigionieri giù dal treno e lungo il binario, superando gli uffici amministrativi, gli alloggiamenti delle guardie e un poligono di tiro che, come Martin avrebbe presto appreso, fungeva anche da luogo delle esecuzioni. Un pesante cancello di ferro, sopra il quale un’insegna metallica recitava ARBEIT MACHT FREI, «Il lavoro rende liberi», si aprì sul campo di detenzione.

    Una recinzione di filo spinato elettrificato circondava su tutti i lati uno spazio rettangolare di circa trecento metri per seicento. Alte torrette di guardia erano piazzate nei punti strategici. All’interno del campo c’erano un’infermeria, una lavanderia, laboratori dove i detenuti producevano di tutto, dal pane ai mobili, e un grande cortile per gli appelli e altre adunate.

    I prigionieri vivevano in dieci baracche di un piano in mattoni e cemento; ognuna era stata costruita per ospitare duecentosettanta prigionieri ed era suddivisa in cinque stanze progettate per cinquantaquattro persone. Gli uomini di ogni stanza venivano denominati in gergo militare un plotone. In ogni stanza c’erano sottili brande di legno coperte di paglia, un bagno con qualche lavandino e un WC con lo scarico.

    Quando Martin e il suo gruppo arrivarono, le guardie li scortarono in una grande stanza e li fecero spogliare. Dopo essere stati completamente rasati, furono costretti a fare una doccia fredda e poi radunati, nudi e tremanti, in un’altra stanza, dove il medico del campo li visitò frettolosamente. Le guardie consegnarono quindi delle leggere uniformi a righe blu e bianche. Alcuni uomini erano arrivati stringendosi al petto le piccole borse che avevano potuto portare da casa quando erano stati arrestati. Ma ora dovettero lasciare le borse, e gli unici effetti personali che poterono introdurre nel campo furono gli articoli da toilette.

    Nella prigione di Norimberga Martin aveva stretto amicizia con un uomo profondamente religioso di nome Ernst Dingfelder che non voleva separarsi dal suo tallit, lo scialle da preghiera ebraico. Martin non riusciva a crederci, gli sembrava un’impresa impossibile. Cercò di convincere Ernst a rinunciarci dicendogli che se le guardie l’avessero trovato gliel’avrebbero avvolto attorno alla testa prima di sparargli. E alla fine riuscì a farlo desistere dal suo proposito.

    Le uniformi dei prigionieri di Dachau avevano un numero sul petto a destra. Martin era il numero 31889. Si rese presto conto che, secondo il sistema di numerazione di Dachau, lui era il 31.889° prigioniero da quando era stato aperto il campo. Quello che non sapeva era che era anche uno degli oltre 10.000 ebrei arrivati al campo nelle settimane successive alla Kristallnacht.

    Quando Martin e il suo gruppo raggiunsero la camerata 4 del blocco 8 era da poco passata la mezzanotte. Stipati nella fredda stanza c’erano duecento prigionieri, quattro volte di più di quanti poteva contenerne quello spazio. Per aumentarne la capienza le brande erano state sostituite da due livelli di scaffali di legno profondi un metro e ottanta, uno a livello del pavimento e l’altro a poco più di un metro dal suolo. Un sottile strato di paglia brulicante di cimici e pidocchi copriva le tavole. Senza spazio per girarsi, gli uomini dormivano uno addosso all’altro con le teste contro il muro. Nonostante la gelida temperatura, molti trascorrevano la notte senza coperte perché non ce n’erano abbastanza per tutti.

    Stremato per le poche ore di sonno, la mattina seguente Martin si presentò al primo appello. Quando fu terminato, lui e gli altri furono scortati di nuovo all’interno, dove ricevettero un annacquato surrogato di caffè e un porridge infestato dalle larve. Dachau era un campo di lavoro, ma a causa del crescente afflusso di nuovi prigionieri gli ufficiali addetti non erano ancora riusciti ad assegnarli ai vari lavori forzati, come scavare nelle cave di ghiaia, riparare strade e bonificare paludi sotto lo sguardo vigile delle guardie. Martin e gli altri uomini del suo gruppo trascorrevano le giornate girovagando nel cortile del campo, battendo le mani e pestando i piedi per non congelarsi.

    Quella sera a cena fu servito uno stufato che sembrava sbobba per maiali. Nei pezzi di carne che galleggiavano nella brodaglia a Martin parve di riconoscere trippe e altri organi. Ogni tre giorni, due uomini potevano condividere una piccola pagnotta; purtroppo non era quello il giorno. Ernst, l’amico di Martin, appena vide la carne non kosher si rifiutò di toccare il misterioso stufato. Martin cercò di aiutarlo scambiando lo stufato di Ernst con una pagnotta. Nonostante le umiliazioni e le privazioni del campo di concentramento nazista, Martin rimase sempre fedele ai suoi princìpi e ai suoi impegni. E uno di questi era aiutare un amico in difficoltà.

    Martin si accorse subito che i prigionieri che erano arrivati da più tempo – mesi o anche anni prima di lui – avevano la mente annebbiata ed erano fisicamente stremati dal brutale trattamento inflitto loro dalle guardie. I pestaggi erano frequenti e molti ne recavano i segni sul corpo. Altri erano deboli e febbricitanti. Ma la maggior parte preferiva non rivolgersi all’infermeria, dove non solo il trattamento medico era deplorevole, ma i malati erano considerati degli scansafatiche e potevano essere soggetti a punizioni come lunghi periodi di isolamento o venticinque frustate sulla schiena con una frusta che affondava nella carne. L’elenco dei reati per i quali i prigionieri di Dachau erano passibili di punizioni era lungo. Un tentativo di fuga significava la morte, avvisava un cartello appeso nel cortile, come pure «il sabotaggio, l’ammutinamento o le agitazioni». Chi aggrediva una guardia, si «rifiutava di obbedire» o non svolgeva il lavoro che gli era stato assegnato doveva essere «fucilato sul posto e poi impiccato».

    I prigionieri temevano soprattutto le ispezioni del sabato pomeriggio. Prima che arrivassero le guardie venivano rasati a zero. Nella camerata 4 c’erano due rasoi spuntati per duecento uomini, che graffiavano la pelle strappando i capelli anziché tagliarli. Anche le ciotole di alluminio per il cibo venivano ispezionate. Dovevano essere lucide e splendenti nonostante non ci fosse sapone e fosse proibito usare qualsiasi prodotto abrasivo. Quando c’erano graffi o cibo incrostato i detenuti venivano puniti.

    Una volta Martin non superò un’ispezione e dovette restare sull’attenti, immobile, mentre la guardia lo schiaffeggiava ripetutamente con la mano guantata. Martin aveva assistito a molte punizioni simili. Più i prigionieri si agitavano, più a lungo durava il supplizio. Con ammirevole determinazione, per non rivelare la propria paura tenne sotto controllo i riflessi e non cercò di evitare gli schiaffi. La guardia lo lasciò andare e proseguì l’ispezione. Fu una prova di coraggio e risolutezza che Martin non avrebbe mai dimenticato.

    La crudeltà delle SS era al di là di ogni immaginazione. Martin sospettava che le guardie di Dachau fossero state assegnate al campo per essere addestrate alla crudeltà dei compiti che avrebbero svolto in altri campi e nei territori conquistati. A Dachau regnava una gerarchia della violenza: i giovani soldati, trattati brutalmente dagli ufficiali, scaricavano la loro rabbia repressa sui prigionieri. Una dinamica che evocò a Martin l’addestramento dei cani d’attacco.

    Una sera, all’appello, il comandante del campo annunciò che un prigioniero era fuggito. Per punizione, tutti i detenuti sarebbero rimasti sull’attenti in cortile finché l’evaso non fosse stato catturato. Le ore si susseguirono lentamente nel freddo pungente della notte illuminata dalla luce accecante dei riflettori. Al cambio di turno delle guardie gli uomini in piedi nel cortile udirono il crepitio delle mitragliatrici dalle torrette: i nazisti stavano controllando che non fossero inceppate.

    Martin era in fondo a una fila di prigionieri. Dopo la mezzanotte, stremato e semiassiderato, si addormentò in piedi. Lo svegliò la canna di un fucile puntata contro la schiena. Si sforzò di non perdere l’equilibrio e cadere.

    La mattina molti prigionieri erano crollati a terra durante la notte, e quando Martin li guardò si accorse che erano morti.

    I sopravvissuti furono scortati nelle baracche per un pasto frugale e poi riportati in cortile. I cadaveri erano stati portati via.

    Rimasero sull’attenti fino alle quattro del pomeriggio, quando l’evaso fu riportato al campo e nessuno lo rivide mai più.

    Martin sapeva che la morte di quell’uomo non doveva essere stata facile. Una delle forme preferite di tortura a Dachau si ispirava a una tecnica medievale dell’Inquisizione: la vittima era costretta a salire su una struttura simile a un patibolo, con le mani ammanettate dietro la schiena, e sollevata in aria da corde attaccate ai polsi. Mentre il prigioniero oscillava, i torturatori aggiungevano dei pesi per rendere più intenso il dolore alle braccia e alle spalle. Martin sapeva di uomini rimasti appesi un’ora per qualche infrazione reale o immaginaria. La maggior parte ne usciva con le ossa rotte o le articolazioni slogate, alcuni rimanevano invalidi per tutta la vita.

    Nonostante queste orribili torture, c’erano sempre dei disperati che cercavano di evadere, ma pochi ci riuscivano. Alcuni sceglievano un altro tipo di fuga. Correvano verso il reticolato, bersagliati dalle mitragliatrici delle torrette di guardia, e se ci arrivavano, si buttavano contro la rete elettrificata e morivano fulminati. Di solito le SS riuscivano a fermarli prima, ma non sempre. Un prigioniero, colpito prima di raggiungere la rete, fu lasciato a terra a gemere e urlare per tutta la notte.

    Nelle notti come quella, quando nell’aria riecheggiavano grida e lamenti, e il freddo gli faceva accapponare la pelle, Martin non riusciva a prendere sonno.

    Perché? si domandava. Avido lettore e appassionato di storia (Martin voleva andare all’università, ma nel 1934, quando aveva compiuto sedici anni, gli avevano detto che, essendo ebreo, non poteva proseguire gli studi), conosceva a fondo l’Europa medievale e l’Inquisizione. Che differenza c’era tra le torture inflitte quattro secoli prima dall’Inquisizione – ad majorem Dei gloriam (per la maggior gloria di Dio) – e quello che i nazisti stavano facendo ora? La sofferenza era sempre sofferenza. E se il Dio era uno solo, di chi era?

    Alcuni prigionieri di Dachau, come Ernst Dingfelder, quando arrivarono erano devotamente religiosi. Altri lo diventarono nel corso della loro permanenza al campo. E altri ancora scoprirono che non potevano più credere in Dio – in nessun Dio – dopo quello che avevano visto a Dachau. Martin si identificò con questo gruppo. Avrebbe partecipato alle tradizioni e alle cerimonie della sua cultura, riconoscendo le proprie origini ebraiche, ma gli orrori di Dachau avevano distrutto la sua fede in Dio.

    Ai prigionieri era concesso scrivere una lettera alla settimana, ma con i censori nazisti che leggevano tutta la corrispondenza potevano dire ben poco. Martin non poteva descrivere gli effetti della denutrizione, parlare del peso che aveva perso o delle piaghe aperte ai piedi che lo facevano soffrire a ogni passo. Se i prigionieri non scrivevano che tutto andava bene, le loro lettere non sarebbero state spedite. Ma poiché le lettere erano l’unica prova che era ancora vivo, Martin continuò a scrivere ogni settimana alla famiglia. Sotto il nome del mittente c’era la dicitura «Campo di concentramento di Dachau». L’indirizzo di ritorno specificava Schutzhaft-Jude, «Ebreo in custodia cautelare».

    Il 1° gennaio 1939 Martin compì ventun anni. Poiché ora era maggiorenne, lo zio Julius non era più l’amministratore fiduciario della casa che la madre gli aveva lasciato. Come gli ufficiali del campo riuscirono a scoprirlo, Martin non lo venne mai a sapere, ma poco dopo il suo compleanno fu convocato nell’ufficio dell’amministrazione dove gli mostrarono un documento coperto da un tampone di carta assorbente. Gli dissero che non doveva leggerlo ma soltanto firmarlo.

    «Was ist das?» chiese Martin.

    «Sie haben drei Sekunden». Aveva tre secondi per firmare. «Sonst». Altrimenti…

    Martin firmò e l’ufficiale gli tolse di mano il documento. Soltanto a quel punto gli disse che aveva firmato una procura per la vendita della casa materna.

    Martin Selling si rese conto che non sarebbe più tornato a casa.

    PRIMA PARTE

    «Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri,

    le vostre masse infreddolite desiderose di respirare libere,

    i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate.

    Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste,

    e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata».

    Iscrizione sulla Statua della Libertà

    della poetessa ebrea del XIX secolo Emma Lazarus

    Capitolo 1

    Salvare i bambini

    Per quasi dodici anni Günther Stern aveva avuto un’infanzia felice.

    Aveva trascorso quei giorni idilliaci a Hildesheim, una delle più antiche e pittoresche cittadine della Germania settentrionale, costruita lungo le sponde del fiume Innerste e circondata da verdi colline costellate di fattorie e mandrie di bestiame. Sulle strade acciottolate si affacciavano antichi palazzi con guglie e piccole chiese.

    Sulle pareti esterne dell’abside della cattedrale di Hildesheim si arrampicava una rosa canina alta dieci metri che era considerata il più antico roseto vivente. Aveva quasi la stessa età della cittadina, ed era da questo che aveva preso il nome di Tausendjäriger Rosenstock («Rosa di mille anni»). Secondo la leggenda locale, la città era fiorita insieme a quella rosa.

    Fin dalla sua fondazione Hildesheim era stata sede di un arcivescovado cattolico romano e per secoli la maggioranza dei residenti era stata cattolica. Dopo la Riforma, che aveva avuto le sue radici in Germania, molti cattolici si convertirono al protestantesimo (soprattutto luterano) e negli anni Trenta i 65.000 abitanti di Hildesheim erano divisi tra le due principali religioni cristiane. C’erano meno di mille residenti ebrei, che rispecchiavano la media nazionale. Nel giugno 1933 meno dell’1 percento della popolazione tedesca era ebrea: all’incirca mezzo milione di persone su 67 milioni di abitanti.

    Quando gli ebrei si insediarono a Hildesheim nel XVII secolo, costruirono case in legno e muratura con facciate elegantemente scolpite. La sinagoga in stile moresco fu costruita nel 1849 in Lappenberg Strasse, un quartiere che sarebbe diventato uno dei più pittoreschi di Hildesheim.

    Günther era un ragazzo brillante e curioso. Aveva il carattere solare della madre, gli occhi intelligenti del padre e orecchie ribelli che si rifiutavano di aderire al cranio. Nato nel 1922, fece la sua prima visita alla sinagoga all’età di sei anni, quando i genitori lo portarono a una cerimonia ebraica. Contrariamente al solito, il ragazzino non aveva protestato quando gli avevano fatto indossare i suoi vestiti migliori. La madre gli aveva spiegato quanto era importante fare una buona prima impressione sul Signore. Si recarono alla sinagoga insieme ad altre famiglie, tutti con gli abiti della festa. I passanti si fermavano a guardarli e sorridevano alla processione sollevando il cappello in segno di saluto.

    Günther, primogenito di Julius e Hedwig Stern, era nato quattro anni prima del fratello Werner e dodici prima della sorellina Eleonore. La famiglia apparteneva alla solida classe media, come la maggior parte degli ebrei di Hildesheim. Gli Stern abitavano in un appartamento in affitto accanto alla piccola fabbrica di tessuti del padre di Günther, al terzo piano di un elegante palazzo vicino a un affollato mercato nel centro della cittadina. L’appartamento era luminoso, con i soffitti alti e belle tende drappeggiate alle finestre. In ogni stanza c’era una stufa a legna e la cucina era attrezzata con fornelli moderni.

    I due ragazzi condividevano una stanza in un’ala dell’appartamento. La camera dei genitori, dove dormiva anche la sorella, era all’altro capo del corridoio. Le camere avevano pavimenti di legno; in soggiorno c’erano la moquette, un divano, due poltrone e la scrivania in legno scuro di Julius. La sala da pranzo era molto formale e riservata alle occasioni speciali, con alla parete un paesaggio pastorale dell’artista austriaco Ferdinand Georg Waldmüller. La parte della casa che più piaceva a Günther e al fratello era l’atrio piastrellato con il tavolo da ping-pong che usavano come campo da gioco al coperto.

    Il padre di Günther era un uomo minuto noto per la sua incrollabile energia. Julius Stern lavorava sei giorni e mezzo alla settimana, staccando solo il sabato mattina per andare alla sinagoga, dove il sermone era in tedesco e la funzione in ebraico. Mostrava campioni di tessuti e raccoglieva ordini nel suo negozio e nei villaggi vicini, facendo visita ai clienti che li usavano per confezionarsi i vestiti. Gli unici vestiti già confezionati che vendeva erano impermeabili da uomo in gabardine. La moglie Hedwig (nata Silberberg) gli faceva da dattilografa e contabile. Con i capelli corvini e gli occhi scuri e penetranti, Hedwig scriveva argute poesie sui parenti e gli amici.

    Günther iniziò gli studi in una scuola ebraica con un’unica aula. L’insegnante doveva tenere impegnati scolari di età e livelli di istruzione diversi. Günther affrontò la scuola con impegno, diventando un appassionato lettore e un ottimo studente. Frequentava anche i gruppi di studio del sabato pomeriggio guidati dal carismatico giovane cantore della sinagoga Josef Cysner, che coinvolgeva gli studenti in animate discussioni sui libri e la cultura ebraica.

    Nel 1932, all’età di dieci anni, Günther si iscrisse alla Andreas-Oberrealschule, dove era uno dei tre ebrei in una classe di venti studenti. Ancora prima di andare a scuola Günther aveva avuto molti amici non ebrei. In quegli anni, a Hildesheim, i giovani ebrei erano perfettamente integrati con i loro coetanei gentili. Frequentavano le rispettive case, partecipavano alle stesse feste, andavano insieme in bicicletta e a fare il bagno nel fiume e giocavano a calcio nelle stesse squadre.

    Ma nel 1933, quando salirono al potere, i nazisti vararono subito leggi restrittive contro gli ebrei. «Datemi dieci anni», aveva profetizzato Hitler, «e non riconoscerete più la Germania».

    Il 1° aprile 1933, due mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere, il governo indisse una giornata di boicottaggio del commercio ebraico. Le truppe d’assalto si piazzarono davanti ai negozi degli ebrei, denunciando i proprietari e bloccando l’accesso. La scritta Jude apparve sulle vetrine, e sulle porte degli ebrei furono disegnate stelle di Davide. I boicottaggi si diffusero in tutto il Paese. I nazisti marciarono nelle strade urlando slogan antisemiti e arrestando e picchiando tutti gli ebrei che incrociavano lungo il loro cammino.

    Come molti altri negozianti ebrei, Julius perse un po’ alla volta tutti i clienti gentili, che avevano paura che qualcuno li vedesse entrare o uscire dal suo negozio. E quando andava a trovarli a casa, era accolto da cartelli che recitavano: JUDEN IST DER EINTRITT VERBOTEN («Vietato l’ingresso agli ebrei»).

    All’epoca, nonostante fosse un’instancabile lettore di giornali, Günther non si era ancora reso conto di quello che stava accadendo in Germania. Ma si accorse che gli amici lo salutavano meno calorosamente, per poi smettere del tutto di rivolgergli la parola. Gli inviti alle feste e ai compleanni erano diventati sempre più rari, e presto fu bandito – insieme agli altri giovani ebrei di Hildesheim – dalla piscina locale e dalla squadra di calcio. Persino il club atletico lo allontanò, e benché avesse partecipato ad abbastanza gare per vincere una medaglia, anche questo riconoscimento gli fu negato. La consapevolezza di essere stato emarginato dai coetanei ferì profondamente Günther. In quegli anni di formazione, fu una rottura dolorosa e inaspettata.

    A scuola molti insegnanti furono sostituiti da altri invitati da Berlino che, con appuntate sul petto spille con la svastica, propagandavano l’ideologia nazista. E i vecchi insegnanti, che si sentivano solidali con gli studenti ebrei, non dovevano darlo a vedere perché altrimenti avrebbero perso il posto di lavoro.

    Per un certo periodo Günther poté godere della protezione di Heinrich Hennis, un ragazzo brillante che aveva un anno più di lui. Ma tutti i giovani non ebrei dovevano iscriversi a un’associazione giovanile nazista e Heinrich non poté esimersi da questo obbligo. Indottrinato dal suo leader, che forse aveva scoperto che proteggeva un ebreo, Heinrich si rifiutò presto di rivolgere la parola all’ex amico e dalle sue labbra uscirono soltanto slogan nazisti.

    La classe di coro era sempre stata una delle preferite di Günther. Qualche anno prima i genitori l’avevano portato al teatro d’opera di Hannover per assistere a una rappresentazione del Lohengrin di Wagner, e da allora si era appassionato di musica e canti corali. Ma un pomeriggio, dopo l’ascesa al potere dei nazisti, l’insegnante fece cantare agli studenti Deutsche Jugend heraus! Scritta pochi anni dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, la canzone aveva un testo violento e provocatorio: «Gioventù tedesca, organizzati! Massacra il nostro nemico nel cortile sul retro, uccidilo in un confronto diretto». Adottata dalla Hitlerjugend per il suo ruggente nazionalismo, la canzone era stata inclusa in una raccolta di inni pubblicata nel 1933 da un editore filonazista.

    Quel pomeriggio Heinrich Hennis, il vecchio amico di Günther, aveva urlato all’insegnante: «Come può far cantare a degli ebrei una canzone sulla gioventù tedesca?».

    L’insegnante si fermò e si scusò. «Gli studenti ebrei sono esentati dal cantare questa canzone», disse. Günther e i suoi due compagni ebrei rimasero seduti in silenzio mentre il resto della classe cantava. Mortificato e irritato al tempo stesso, Günther si rese conto che i nazisti avevano trovato un modo per togliergli anche la musica.

    Nel 1933 Günther fu un testimone diretto della riscrittura della storia della Germania e dell’Europa. Un giorno l’insegnante di storia arrivò in classe e passò agli studenti dei cutter. «Prendete il libro di testo», disse, scrivendo sulla lavagna dei numeri di pagina, e gli studenti dovettero tagliare le pagine indicate e sostituirle con altre fornite dall’insegnante. «Assicuratevi di lasciare abbastanza spazio ai margini», aggiunse gentilmente, «così potrete incollare le nuove pagine al libro».

    L’insolito compito destò mormorii perplessi nella classe. Quando gli passarono il cutter, Günther fece quello che gli era stato ordinato. Ma prima di tagliare le pagine lesse qualche brano e si rese conto che parlavano tutti dei meriti conseguiti dagli ebrei.

    Bersagliati dalla propaganda antisemita, sia a scuola sia in famiglia, gli studenti gentili diventarono sempre più aggressivi nei confronti dei compagni ebrei. Un giorno, dopo la scuola, Günther fu circondato e picchiato da cinque ragazzi che lo colpirono a turno mentre gli altri lo bloccavano a terra. Quel pomeriggio tornò a casa zoppicando, ferito sia fisicamente sia emotivamente.

    Nemmeno alla sua famiglia furono risparmiate le violenze. Una notte suo padre, che aveva lavorato fino a tardi, uscì per imbucare delle lettere un isolato più avanti e, mentre tornava a casa, fu aggredito a calci e pugni da un gruppo di uomini che urlavano slogan antisemiti. Un poliziotto l’aveva trovato tramortito sul marciapiede e l’aveva portato al pronto soccorso. La mattina dopo, quando Günther andò a trovarlo, aveva il volto coperto di tagli e lividi.

    Mentre la violenza e l’odio crescevano attorno a loro, Julius e Hedwig Stern decisero che era arrivato il momento di lasciare la Germania. Cominciarono a scrivere a varie organizzazioni ebraiche per informarsi sulle possibilità di emigrare negli Stati Uniti.

    Un serio ostacolo per gli Stern e gli altri ebrei che volevano espatriare era una nuova legge nazista che limitava drasticamente l’esportazione di denaro, obbligazioni o altri beni. Negli anni precedenti i tedeschi potevano lasciare il Paese con l’equivalente di 10.000 dollari, ma i nazisti ridussero la somma a 4000 dollari. Con il procedere della campagna per il sequestro dei beni e delle proprietà degli ebrei, il limite fu abbassato ulteriormente a 10 Reichsmark, che all’epoca corrispondevano più o meno a 4 dollari. Le pene per chi superava questi limiti erano severe e includevano l’arresto e il sequestro del denaro.

    In quello stesso periodo il dipartimento di stato americano stava eseguendo un ordine speciale emesso nel 1930 dal presidente Herbert Hoover che imponeva ai richiedenti asilo di dimostrare che non avrebbero gravato sulle finanze pubbliche. Se non avevano mezzi di sostegno, dovevano esibire un affidavit in cui un cittadino americano garantiva che non avrebbero chiesto il sussidio di disoccupazione. Le nuove garanzie richieste ai rifugiati per dimostrare la propria indipendenza finanziaria – che i primi migranti approdati sulle coste americane non avevano mai dovuto attestare – ridussero il numero degli stranieri ammessi nel Paese da 241.700 nel 1930 ad appena 35.576 nel 1932, diventando il principale impedimento per chi voleva emigrare negli Stati Uniti.

    Ansiosi di sfuggire ai nazisti, gli Stern scrissero al fratello maggiore di Hedwig, Benno Silberberg, che negli anni Venti si era trasferito in America, dove faceva il fornaio a St. Louis, chiedendogli un affidavit. Non erano sicuri che Benno potesse aiutarli, ma era il loro unico parente in America. Gli anni felici di Günther nelle scuole tedesche – dalla prima scuola ebraica con un’unica aula, che aveva destato per prima la sua curiosità, alla classe di coro e il club atletico delle superiori – erano finiti. Al loro posto c’era ora un vecchio, grigio, curvo ed emaciato tutore gentile, Herr Tittel, che dalla metà degli anni Venti aveva lavorato come insegnante all’orfanotrofio di Brooklyn, ma dopo undici anni aveva provato nostalgia per la patria ed era tornato nella città natale di Hildesheim, dove si guadagnava da vivere insegnando l’inglese, principalmente agli ebrei che volevano emigrare.

    Günther prese in simpatia Herr Tittel, che durante le loro lezioni settimanali gli raccontava avvincenti storie sull’America. Negli Stati Uniti Herr Tittel era diventato un fan del baseball e descriveva al giovane Günther i magistrali lanci di Grover Cleveland Alexander e gli epici home run di Babe Ruth. Herr Tittel era una persona alla mano con qualche lato eccentrico, come quando cominciava a canticchiare qualche popolare canzone americana nel mezzo di una lezione. Dopo pochi mesi Günther aveva imparato a parlare inglese – anche se in un brooklynese dallo spiccato accento tedesco – meglio che in tre anni di liceo.

    Quell’estate Günther partì in bicicletta insieme a tre amici ebrei per una vacanza sulle sponde del Reno, un’escursione di oltre 800 chilometri. I genitori, convinti che avrebbero presto lasciato la Germania, pensarono che sarebbe stata la sua ultima occasione per esplorare la geografia del Paese natale. Hedwig e Julius avevano deciso che dopo aver lasciato la Germania nazista nessuno di loro avrebbe più rimesso piede nel Paese.

    I quattro ragazzi chiesero al loro leader di scrivere una lettera di presentazione per farsi ospitare dalle comunità ebraiche delle città che avrebbero toccato nel corso del viaggio. Le famiglie trovarono loro una sistemazione in quasi tutti i centri in cui fecero sosta, ma una notte dovettero dormire sulle panchine dello spogliatoio della locale squadra di calcio. Erano tutti e quattro ottimi ciclisti e pedalarono ogni giorno per 40-60 chilometri.

    In una sonnolenta cittadina sulle sponde del fiume videro gente che si divertiva sulle canoe e i pedalò. Poco più avanti era ormeggiata una fila di imbarcazioni militari con mitragliatrici montate sul ponte. Gli scafi metallici scintillavano minacciosamente al sole e su ogni barca sventolava il vessillo nazista con la svastica. Günther e i suoi compagni non avevano mai visto imbarcazioni simili e capirono subito che la Germania si stava preparando alla guerra.

    Günther era rientrato da poche ore quando i genitori lo convocarono in sala da pranzo. Quella stanza veniva usata soltanto per le occasioni speciali e Günther capì che doveva trattarsi di qualcosa di serio.

    Il padre gli disse che avevano sentito lo zio Benno. Spiegò al figlio che l’America stava attraversando una profonda depressione e che milioni di persone erano rimaste senza lavoro. Il governo degli Stati Uniti aveva quindi richiesto un affidavit di sostegno finanziario ai migranti come loro che dovevano lasciare il proprio Paese senza denaro. Ma lo zio Benno aveva perso il suo impiego a tempo pieno e non aveva le risorse necessarie per firmare un affidavit a nome di una famiglia di cinque persone.

    Il padre di Günther posò sul tavolo uno spesso fascicolo. La madre, che fino ad allora era rimasta in silenzio, disse con voce grave e solenne: «L’affidavit di zio Benno vale soltanto per te». Gli spiegò che avrebbe vissuto a St. Louis da zio Benno e zia Ethel finché il resto della famiglia non fosse riuscito a raggiungerlo. «Tra qualche settimana hai un appuntamento al consolato americano di Amburgo», aggiunse dolcemente.

    «Andrò in America da solo?», domandò Günther, incredulo.

    «Ja, Günther».

    Poiché lo zio Benno era riuscito a presentare un affidavit soltanto per una persona, disse la madre, quella persona sarebbe stata Günther. Né lei né suo padre sarebbero partiti da soli, e Günther, che aveva quasi sedici anni, era il loro primogenito. Avrebbero continuato a cercare uno sponsor per emigrare in America ed erano fiduciosi che la famiglia si sarebbe presto riunita.

    Günther si rese conto che per la madre quella decisione era altrettanto dolorosa che per lui. L’idea di spedire il figlio adolescente da solo in un Paese straniero l’angosciava.

    Forse, dopo essersi installato negli Stati Uniti, Günther avrebbe trovato qualcuno che poteva aiutarli, disse la madre. Era un compito difficile, ma lei e il marito pensavano che fosse abbastanza maturo per riuscirci. Ma la cosa più importante, ribadì, era che Günther fosse al sicuro in America.

    Il padre, con il suo spirito pratico da uomo d’affari, cominciò a descrivere la logistica del viaggio ad Amburgo, centocinquanta chilometri a nord di Hildesheim. Era riuscito a procurargli un passaggio con una famiglia ebrea che aveva un appuntamento al consolato il giorno prima di lui. Dopo quello che sarebbe stato il più lungo viaggio in automobile della sua vita, Günther avrebbe trascorso la notte in una casa dello studente e sarebbe rientrato il giorno seguente con la stessa famiglia.

    Il padre di Günther aveva contattato un’organizzazione ebraica di Hannover che lo stava aiutando a pianificare il suo espatrio. Un gruppo affiliato con base a New York, il German Jewish Children’s Aid, stava facendo uscire dalla Germania nazista piccoli gruppi di bambini ebrei. Günther si sarebbe unito a uno di questi gruppi. L’organizzazione avrebbe pagato il viaggio in nave, fornito un accompagnatore e si sarebbe assicurata che raggiungesse sano e salvo gli zii a St. Louis. Un assistente sociale aveva già intervistato Benno e Ethel Silberberg, definendoli una «coppia gentile e moralmente sana» ansiosa di accogliere il nipote nella loro casa.

    La prospettiva di vivere senza i genitori, il fratello e la sorellina rattristò profondamente Günther. Tranne le visite ai nonni e le vacanze in bicicletta, non era mai rimasto a lungo lontano da casa. Ma emigrare era un’opportunità per lasciarsi alle spalle le violenze e le discriminazioni della Germania e gli riecheggiarono nella mente i pittoreschi racconti di Herr Tittel sull’America: la terra della libertà, del baseball, dei film di Hollywood! Eppure nonostante tutto questo lo allettasse, Günther non voleva lasciare la famiglia. Come e quando si sarebbero ritrovati?

    All’inizio dell’ottobre 1937 Günther incontrò un funzionario americano il cui ruolo sarebbe stato determinante nella sua vita. Dal 1924 il viceconsole generale Malcolm C. Burke, un cinquantenne imponente, con il torace a botte, era il responsabile ad Amburgo delle leggi e delle restrizioni che regolamentavano l’immigrazione. Günther poteva considerarsi fortunato che fosse Burke a occuparsi della sua richiesta di visto d’ingresso negli Stati Uniti. Molti altri consoli avrebbero considerato il suo affidavit inadeguato, negandogli il visto. Nel 1933, per esempio, settantaquattro rifugiati tedeschi avevano richiesto il visto al consolato americano di Rotterdam, ma soltanto sedici di loro erano riusciti a ottenerlo. Tutti i cinquantotto rifiuti, tranne uno, si basavano soprattutto sul fatto che gli aspiranti immigrati avrebbero potuto gravare sulla previdenza sociale americana. Burke aveva sempre criticato apertamente le contraddittorie interpretazioni delle leggi americane sull’immigrazione. Era convinto che le risorse degli amici e dei familiari che firmavano gli affidavit dovessero essere verificate negli Stati Uniti, dove avevano i loro beni e guadagnavano il loro stipendio, anziché attraverso valutazioni arbitrarie di funzionari che risiedevano in un altro Paese. L’assegnazione del suo caso a Burke offrì a Günther anche un altro vantaggio: a differenza di alcuni suoi colleghi del dipartimento di stato americano, meno compassionevoli o persino antisemiti, Burke aveva riconosciuto che gli ebrei erano perseguitati dai nazisti e si era impegnato a cercare delle scappatoie legali che avrebbero facilitato il loro ingresso negli Stati Uniti.

    Burke aveva di fronte a sé sulla scrivania i documenti di Günther, compreso l’affidavit firmato da Benno Silberberg. Il conto in banca era stato riportato in pari da piccoli prestiti di colleghi e amici, che Benno aveva rimborsato una settimana dopo avere ricevuto il documento della banca. Burke aveva abbastanza esperienza di affidavit e garanzie finanziarie per capire che erano stati falsificati, ma non espresse i propri dubbi a Günther. Gli chiese, in tedesco, il suo nome per esteso, la data di nascita e il livello di istruzione. Poi, inesplicabilmente, gli chiese: «Quanto fa quarantotto più cinquantadue?»

    «Einhundert» rispose Günther.

    Dopo quella semplice addizione il console stampò e firmò lo Jugendausweis (visto giovanile) di Günther. Il dipartimento di stato americano aveva autorizzato l’ingresso di Günther Stern negli Stati Uniti.

    Adesso che aveva un visto, le cose cominciarono a muoversi in fretta. Un paio di settimane più tardi un’organizzazione ebraica informò gli Stern che in novembre un gruppo di bambini sarebbe salpato dalla Germania per gli Stati Uniti e che Günther poteva unirsi a loro.

    Alla fine di ottobre gli amici di Günther si ritrovarono nell’appartamento degli Stern

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1