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Dolce rapimento: Harmony Collezione
Dolce rapimento: Harmony Collezione
Dolce rapimento: Harmony Collezione
E-book174 pagine3 ore

Dolce rapimento: Harmony Collezione

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Info su questo ebook

Due sorelle gemelle, due fratelli di nobile stirpe, un piccolo principato di antiche tradizioni. E due matrimoni alle porte.
Leola Foster si sta godendo gli ultimi giorni di vacanza sulle isole dell'Illyria quando viene rapita da uno sconosciuto e, quasi senza accorgersene, si ritrova in una splendida villa di proprietà di colui che scoprirà essere il principe Nico Magnati. Nico, in realtà, la trattiene perché la vuole proteggere, e in cambio del suo aiuto Leola dovrà fingere di essere la sua amante, almeno finché la minaccia che incombe su di lei non si sarà dissolta. Ma a causa della vicinanza forzata, giorno e notte, la loro finzione si trasforma in qualcosa di molto, molto reale.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2019
ISBN9788858995846
Dolce rapimento: Harmony Collezione
Autore

Robyn Donald

Robyn Donald è nata sull'Isola del Nord, in Nuova Zelanda, dove tuttora risiede. Per lei scrivere romanzi è un po' come il giardinaggio: dai "semi" delle idee, dei sogni, della fantasia scaturiscono emozioni, personaggi e ambienti.

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    Anteprima del libro

    Dolce rapimento - Robyn Donald

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    The Mediterranean Prince’s Captive Virgin

    Harlequin Mills & Boon Modern Romance

    © 2008 Robyn Donald

    Traduzione di Cecilia Bianchetti

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2009 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5899-584-6

    1

    Rabbrividendo nell’aria frizzante della notte, Leola Foster guardò la piazza sottostante, dominata da un lato da una chiesa romanica e dall’altra da un’alta torre di pietra. Lungo la scogliera sorgevano i resti dell’antica muraglia che in passato aveva protetto dai pirati la città più meridionale delle Isole del Mare dell’Illyria, San Giusto. La primavera era iniziata da poche settimane, e nemmeno a quelle latitudini faceva abbastanza caldo da stare in pigiama accanto alla finestra chiusa.

    Leola non voleva tornare a letto, perché le immagini dell’incubo che l’aveva svegliata di soprassalto continuavano a perseguitarla, con un retrogusto aspro e umiliante. Chissà quando il suo inconscio avrebbe smesso di rivivere l’incidente, come una spirale senza fine.

    Forse era un’ingenua, pensò, con un’amarezza che la sorprese, ma nemmeno per un momento aveva sospettato che Durand fosse interessato a lei; tre mesi prima, quando era arrivata a Londra dalla Nuova Zelanda, il compagno della sua datrice di lavoro l’aveva completamente ignorata, sia dal punto di vista personale sia da quello professionale.

    Con un sorriso triste Leola ricordò l’emozione di quei giorni, la sicurezza di compiere un passo decisivo nella carriera che amava tanto. In fondo Tabitha Grantham era una stilista di fama mondiale, nota per le sue creazioni eleganti, sofisticate e di perfetta fattura.

    Ed era stata Tabitha in persona a contattarla, dopo avere visto i suoi modelli alla Settimana della Moda di Auckland.

    «Mi piace il tuo stile estremo» le aveva detto durante un cocktail organizzato nella lussuosissima suite che divideva con Durand. «Andrai lontano, e io voglio aiutarti. Imparerai molto, ma ti avviso che non pago molto le mie aiutanti e che dovrai lavorare come una schiava.»

    E Leola aveva lavorato sodo, godendosi un’esperienza esilarante, sorprendente, scioccante e affascinante, durante la quale aveva assorbito come una spugna ogni singola informazione, ogni dato tecnico, ogni novità.

    Peccato che tutto fosse finito in modo brusco e mortificante quando Jason Durand aveva deciso di avere un flirt con lei.

    Lo sguardo di Leola spaziò sui cipressi scuri che fiancheggiavano le rovine della muraglia. La notte aveva completamente trasformato la città: da rumorosa, brulicante di attività, tipicamente mediterranea di giorno, San Giusto diventava cupa e silenziosa sotto le stelle dell’emisfero Nord.

    Fu colta da una nostalgia violenta: in Nuova Zelanda le costellazioni erano una presenza familiare, e la brezza aveva un profumo più selvatico e primitivo.

    Il suo paese era sempre là, pensò tristemente, poteva tornarci quando voleva.

    Anzi, forse prima del previsto. Se non fosse stato per la sua madrina, che per il compleanno le aveva regalato una settimana di vacanze in Illyria, avrebbe speso tutti i suoi risparmi in biglietti aerei.

    No, decise, alzando la testa in un impeto d’orgoglio, non tornerò a casa con la coda tra le gambe.

    Non le piacevano le sconfitte.

    Prima doveva cercare un alloggio. Senza lo stipendio di Tabitha non poteva permettersi di pagare l’affitto dell’appartamento, e aveva supplicato il padrone di casa di tenere in consegna le sue valigie fino al suo ritorno.

    Prima un appartamento, poi un lavoro.

    Strinse le labbra, in un misto di collera e frustrazione. Anche se quando era entrata Tabitha, tre giorni prima, lei stava lottando contro Durand con le unghie e con i denti, la donna non aveva fatto una piega.

    «Mi spiace» aveva dichiarato, con sguardo d’acciaio. «Ma per me Durand è più importante di te. Non voglio più vederti.»

    Era ovvio: l’uomo era un elemento strategico nella casa di moda, ma era stata l’insensibilità di Tabitha, che l’aveva trattata come se fosse stata una cameriera vittoriana sorpresa a rubare, a ferirla nel profondo, tanto che aveva minacciato di denunciare Durand o di raccontare tutto alla stampa quando lui si era rifiutato di pagarle l’ultima settimana di stipendio.

    Così era riuscita ad avere quanto le spettava, ma avrebbe preferito mantenere il lavoro.

    Inalò l’aria profumata di pino e sale, fichi e uva. Non voleva che il tradimento o la paura del futuro rovinassero la sua settimana in quel posto incantato, e se non riusciva a dormire tanto valeva fare una passeggiata per allentare la tensione.

    Dieci minuti più tardi chiuse la porta dell’appartamento e s’incamminò verso le ombre misteriose della torre che delimitava il lungomare.

    L’atmosfera era fiabesca: il cielo limpido, il mormorio delle onde che s’infrangevano sugli scogli e una quiete così profonda che Leola quasi si aspettava che dai boschi uscisse una ninfa e si tuffasse in mare per giocare con i delfini.

    Ma mentre attraversava la piazza ebbe un brivido di spavento e dovette resistere all’impulso di girarsi e controllare le case buie alle sue spalle.

    Felice di avere indossato un top nero con i jeans, Leola si riparò all’ombra degli alberi, ai piedi della torre. Si voltò lentamente, dandosi della stupida, ma le mancò il respiro notando un movimento furtivo accanto al portale della chiesa. Qualcuno, o qualcosa, stava scivolando lungo l’antica parete.

    Di sicuro era solo un cane che tornava a casa dopo una notte brava, cercò di rassicurarsi.

    Ma fu colta da una violenta scarica di adrenalina, mentre il cuore le batteva impazzito, perché i suoi occhi, ormai abituati all’oscurità, avevano distinto alcune persone che camminavano, alcune a fatica, altre in fretta, ma tutte senza fare rumore, uscendo da un’oscurità ancora più profonda, una porticina della chiesa, dirette alla muraglia.

    Leola sussultò quando, in un lampo improvviso di luce, riuscì a scorgere un uomo, bello e dall’aria crudele.

    Poi qualcuno l’afferrò da dietro, con un movimento brusco, e una mano le chiuse la bocca in una morsa di ferro, soffocando il suo grido. Nonostante una lotta disperata, fu trascinata in una nicchia della muraglia.

    Ragiona, si ordinò, cercando di voltarsi per dare una ginocchiata all’inguine al suo aggressore, ma lui la bloccò senza sforzo. Strinse le mani a pugno, ma il colpo finì contro una massa di muscoli forti e solidi, che le impedirono di muoversi.

    Con la mente annebbiata, si arrese al panico. Tentò di mordere la mano che continuava a chiuderle la bocca, ma anche quella mossa fu inutile, anzi, la mano aumentò la stretta, fin quasi a soffocarla.

    Con lo stomaco chiuso, Leola crollò contro lo sconosciuto, e quando lui allentò leggermente la presa, comprese che la tensione lo stava abbandonando.

    Dalla piazza si udirono uno scalpiccio e un’imprecazione soffocata in una lingua sconosciuta, probabilmente illirico. Con estrema tensione, Leola attese un segno di distrazione dall’uomo che la stringeva a sé; era robusto, forte e... Aveva un buon profumo, e contro ogni logica quel pulito aroma maschile diminuì un po’ il suo terrore.

    Finché non fu trascinata al di là della porta.

    «Non avere paura» sussurrò l’uomo in inglese.

    Come faceva a sapere che l’avrebbe capito?

    Non la lasciò andare e continuò a tenerle la bocca tappata, mentre le sue dita aumentarono leggermente la presa. Era un avvertimento?, si chiese Leola terrorizzata, sperando che lui mostrasse un segno di debolezza.

    Non vedeva niente, ma un rumore le rivelò che il suo aggressore aveva chiuso la porta con un calcio. C’era un forte odore di muffa, quindi dovevano essere all’interno della torre.

    «Ancora qualche minuto» mormorò l’uomo a voce bassissima. «Cammina.»

    Invece Leola si lasciò andare, sperando che lui la credesse svenuta e abbassasse la guardia, aprendole una via di fuga.

    Ma non funzionò, perché lo sconosciuto la spinse davanti a sé, ordinando: «Le scale», con quella voce profonda e stranamente dolce, trascinandola con sé.

    Voleva arrivare in cima alla torre e buttarla sulla scogliera?, si domandò Leola terrorizzata.

    Intanto fingeva di avere difficoltà a camminare, inciampando ed esitando, finché lui la raggelò. «È inutile, e guarda che sei al sicuro». Questa volta parlò in tono duro e gelido, e il suo inglese nascondeva una lieve traccia di accento esotico.

    Nonostante la paura, Leola rispose con un versaccio non proprio da signora, e l’uomo rise, divertito, tanto che lei si chiese se non fosse davvero al sicuro. «Adesso siamo abbastanza lontani, nessuno ti sente» commentò, allentando la presa.

    Ma quando Leola urlò con tutta la forza che aveva in corpo le tappò di nuovo la bocca.

    «Una gatta selvatica» osservò, con quella irritante nota ironica che sottolineava ogni singola parola.

    Quando Leola aprì gli occhi e lo fissò furiosa, la lasciò andare. Barcollando, lei riuscì a metterlo a fuoco. Era appoggiato alla porta, precludendole ogni via d’uscita, e quando si voltò, le fece girare la testa.

    La luce fioca di una lampadina che pendeva dal soffitto rivelò la figura di uno spietato guerriero epico, medievale. Abbronzato, con i lineamenti decisi e crudeli, l’espressione arrogante di un conquistatore nordico, stava sorridendo, ma i suoi occhi erano duri, di un grigio ghiaccio quasi traslucido.

    Leola era alta, ma doveva alzare la testa per incrociare quello sguardo penetrante.

    Fu scossa da un brivido di freddo, misto a eccitazione. L’uomo aveva la struttura di un vichingo ed era circondato da un’aura di pericolo che la indusse a fare un passo indietro, pur senza abbassare la testa.

    «Chi è lei?» gli chiese. «Perché mi hai trascinato fin qui?»

    «Ti ho fatto male» rispose lui bruscamente. «Mi dispiace, non era mia intenzione.»

    Soltanto allora Leola si passò la lingua sul labbro e si accorse di avere un taglio. «Ah, le dispiace?» ribatté. «Anche a me, pensa un po’! Che cosa diavolo crede di fare?»

    Lui le porse un fazzoletto con una mano affusolata e abbronzata. «Ecco qua, pulisciti» le ordinò.

    Leola lo prese, ancora caldo del corpo del suo aggressore, e si tamponò il labbro, lasciando una piccolissima macchia. «Non è niente.»

    Spalancò gli occhi quando lui la raggiunse, con due rapidi passi felini, e le alzò il mento con le dita, scrutandola con attenzione.

    «Non rovinerà certo la tua bellezza» commentò del tutto inaspettatamente, e senza darle il tempo di reagire le baciò il labbro ferito, con una delicatezza che stonava con il suo aspetto minaccioso e che le lasciò addosso una sorta di tremore.

    «Perché l’ha fatto?» gli chiese Leola, con le gambe malferme.

    «Per guarirti. Tua madre non lo faceva?»

    La madre di Leola non era un tipo affettuoso, almeno non verso le figlie. «Funziona solo se vuoi bene alla persona che baci» replicò nervosa.

    «Devo ricordarmelo» ribatté lui, e l’ironia svanì quando la fissò con occhi gelidi e implacabili. «Che cosa facevi in piazza alle tre e un quarto di notte?»

    «Probabilmente non quello che faceva lei.»

    «Spero di no» rispose lo sconosciuto disinvolto. «Avanti, dimmelo.»

    Leola alzò le spalle per nascondere la paura. «Niente di speciale. Non riuscivo a dormire, non avevo libri interessanti da leggere e non avevo voglia di bere qualcosa di caldo, quindi ho deciso di andare a fare due passi. Che cosa c’è di strano?»

    «Hai sentito o visto qualcosa?»

    «Certo» replicò Leola pronta. «Sono stata aggredita da uno sconosciuto e trascinata qui dentro.»

    Il sorriso tirato dell’uomo mostrò denti bianchissimi. «Questo è importante» commentò in tono minaccioso.

    «Perché?» chiese Leola preoccupata.

    Era inutile lottare: lui le aveva già dimostrato la sua forza, che aveva dosato per non farle male. Ripensando a quel bacio stranamente dolce, Leola represse un brivido.

    Poteva scappare?, si chiese, guardandosi attorno. La stanza in cui si trovavano era di pietra, e l’unica via d’uscita era la porta dalla quale erano entrati. Ma lui l’avrebbe fermata prima che potesse raggiungerla. Sulla parete più lontana si riflettevano delle ombre, ma un rapido controllo e l’odore di muffa le

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