Emergenza seduzione: Harmony Bianca
Di Amy Andrews
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Amy Andrews
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Anteprima del libro
Emergenza seduzione - Amy Andrews
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Sydney Harbour Hospital: Luca’s Bad Girl
Harlequin Mills & Boon Medical Romance
© 2012 Alison Ahearn
Traduzione di Rita Orrico
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5898-684-4
1
La dottoressa Mia McKenzie non lo sapeva ancora, ma la sua serata stava per andare di male in peggio.
La luna piena non era mai un buon segno per un pronto soccorso e quel freddo, limpido sabato notte non faceva eccezione. Raggi di luna argentei creavano riflessi fatati sulla celebre Baia di Sydney, conferendo alla vista che si godeva dalle finestre dell’ospedale una calma ingannevole.
All’interno del pronto soccorso infatti, calma era una parola sconosciuta. Alle due del mattino l’attività era ancora a dir poco frenetica. Il Sydney Harbour Hospital, SHH o The Harbour come lo chiamavano i dipendenti, si era ben guadagnato la reputazione di Dipartimento d’Emergenza più indaffarato della città.
«Avrei dovuto diventare dermatologa» borbottò Mia rivolta alla dottoressa Evie Lockheart, sua coinquilina e migliore amica, uscendo da uno dei cubicoli e lasciandosi alle spalle le imprecazioni di un tossicodipendente che aveva appena salvato dalla morte.
«I dermatologi non vengono sommersi d’insulti nel cuore della notte, e sai perché? Perché stanno dormendo. Niente chiamate d’emergenza per loro, o richieste di consulto dell’ultimo minuto.»
Evie ridacchiò. «Ti annoieresti a morte.»
La lunga coda bionda di Mia le ondeggiò sulle spalle mentre si dirigeva verso l’ufficio delle infermiere con la cartella del paziente. «Non mi dispiacerebbe un po’ di noia.»
L’amica sbuffò. «Se lo dici tu.»
Mia ignorò il sarcasmo. «Piuttosto, per quanto ancora resterete al reparto incidenti stradali tu e George Clooney?»
Evie rise. «Si chiama Luca. Dottor Luca di Angelo.»
Per quanto la riguardava, il nuovo primario del reparto sembrava più un diavolo che un angelo. Era lì da poche settimane e aveva già abbordato ogni donna disponibile che avesse fatto il suo ingresso in ospedale.
Il che andava benissimo. Era la sua vita e in un certo senso Mia l’ammirava per questo. Anche a lei piacevano le storie sentimentali dolci ma brevi. Forse era per questo che provava uno strano brivido ogni volta che si trovava nelle vicinanze: riconosceva in lui uno spirito affine. Senza contare che era un vero schianto, con tanto di fascino latino acquisito sotto il sole della Sicilia.
Ma Mia non permettersi di indugiare in simili fantasie.
«Ed è anche un gran bel tipo» continuò Evie. Perché non poteva essere infatuata anche lei di un bell’italiano la cui fama di seduttore era giunta in ospedale prima ancora di lui? Perché il suo cervello riandava con ostinata assiduità al dottor Finn Kennedy? «Comunque sia» dichiarò, scacciando quel pensiero, «ora stiamo stabilizzando il paziente. Dovrà essere portato in sala operatoria per una laparotomia.»
Quando Evie si fu allontanata, Mia ebbe dieci minuti di respiro prima che un uomo corpulento, dal volto bruciato dal sole e dagli occhi sgranati irruppe al pronto soccorso. «Mia moglie... è in travaglio! Il bambino sta uscendo adesso!» annunciò, prima di voltarsi e correre di nuovo fuori.
Mia scattò in piedi e corse dietro all’uomo, seguita da Caroline, l’infermiera del triage. Non notò il freddo dell’aria, ma solo la vecchia automobile parcheggiata con un’angolazione assurda vicino all’ingresso delle autoambulanze. Dall’interno dell’abitacolo provenivano le grida di una donna.
«Fate presto, sta nascendo!»
Mia accorse in pochi secondi. La partoriente era stesa sul sedile posteriore.
«Salve, sono la dottoressa McKenzie» esordì lei a voce abbastanza alta per sovrastare le grida della donna. «Come si chiama?»
«Rh... Rhiannon» riuscì a dire l’altra tra uno sbuffo e l’altro.
Mia le sorrise per incoraggiarla. «A che settimana è?»
«Trenta settimane, va bene?» sbottò il marito con atteggiamento ostile. Se le condizioni della moglie non fossero state critiche, Mia l’avrebbe volentieri mandato a quel paese. L’ultima cosa di cui aveva bisogno mentre faceva nascere un bambino prematuro di dieci settimane era un uomo dal brutto carattere.
«Caroline, chiama il team neonatale per favore. E chiedi ad Arthur di portare fuori una barella» istruì con calma mentre estraeva dalla tasca gli immancabili guanti. «Ok, adesso diamo un’occhiata» riprese poi, rivolta alla paziente.
La donna si lamentò di nuovo e a dispetto della luce scarsa Mia riuscì a vedere spuntare la testa del bambino. «Ha proprio ragione, Rhiannon, il bambino sta uscendo.»
«Devo spingere» gridò questa.
«Va bene» annuì Mia, col cuore in gola. «Sono qui per afferrarlo.»
Neanche un minuto dopo, il minuscolo neonato le scivolò tra le mani. «Rhiannon, ha un maschietto» annunciò, adagiando il piccolo accanto alla madre e augurandosi che Caroline portasse fuori qualcosa di caldo per proteggere entrambi dal freddo della notte.
«Me lo faccia vedere» domandò il padre.
In quel momento però arrivò Caroline e gli bloccò la visuale per dare a Mia il kit d’emergenza e alcune coperte. «Il team neonatale è impegnato con un’intubazione d’emergenza in sala parto» spiegò a bassa voce. «Arriveranno il prima possibile.»
Mia annuì, recise il cordone ombelicale e avvolse il neonato in un paio di coperte prima di tenderlo alla collega.
«Portalo in reparto, così potremo fare tutti i controlli, anche se i suoi polmoni mi sembrano in perfetta forma.»
Caroline rise e si voltò per rientrare, ma fu fermata dal padre.
«Dove lo porta?»
«Dentro» rispose lei con calma. «Può seguirmi, se lo desidera.»
Lui lo fece mentre Mia e Arthur caricavano Rhiannon sulla lettiga. Le distesero sopra diverse coperte e la portarono al pronto soccorso, accanto al suo bambino. Il piccolo aveva smesso di piangere sotto i raggi caldi della lampada termica.
Il padre camminava avanti e indietro, e sembrava agitato. «Ha i capelli rossi» sbottò, avvicinandosi alla moglie con espressione accigliata.
«Oh santo cielo, Stan! Tuo nonno ha i capelli rossi.»
«Di chi è?» insistette lui, scuotendo la ringhiera della lettiga. «Chi è il padre?»
Mia sentì che le si rizzavano i capelli sulla nuca. Quali che fossero le sue ragioni, non gli avrebbe consentito un atteggiamento così aggressivo nel suo pronto soccorso. L’immagine di suo padre le attraversò la mente, ma lei si impose di scacciarla.
«Signore!» lo redarguì, frapponendosi tra lui e la donna esausta. «Non alzi la voce. Qualunque sia il suo problema, questo non è né il momento, né il luogo. Adesso, perché non va a spostare la sua macchina dall’entrata delle ambulanze? Quando tornerà, mi auguro che si sarà calmato, oppure chiamerò la sicurezza.»
Mia era abituata ad affrontare pazienti e familiari che non rispettavano la tranquillità di un ospedale. Era un medico e Rhiannon e il bambino erano suoi pazienti. Era suo dovere proteggerli.
L’uomo le lanciò un’occhiataccia e si allontanò, borbottando tra i denti.
«Mi dispiace» si scusò la puerpera. «A volte diventa paranoico, ma è innocuo.»
Mia sorrise. «Va tutto bene.»
Un’ostetrica del reparto maternità arrivò in quel momento. «Il team ne avrà per altri venti minuti circa» spiegò.
«Non c’è problema, penso che il piccolo starà bene.»
L’incidente con Stan fu dimenticato. L’ostetrica si occupò della paziente e rimosse la placenta mentre Mia faceva un controllo accurato del bambino. «È probabile che vogliano trattenerlo per la notte al reparto di neonatologia, visto che è prematuro. Solo per sicurezza» spiegò alla madre. «Ma per ora sembra tutto a posto.»
Si fece da parte per permettere all’ostetrica di avvolgere il piccolo in quel modo tutto speciale e un po’ buffo che lasciava scoperto solo il faccino. «Vuole tenerlo un po’?» domandò poi alla neomamma.
La donna annuì e mentre il bambino veniva depositato tra le sue braccia, la tenda si aprì e apparve Stan. La sua espressione sembrava più calma; la sua breve assenza aveva sortito qualche effetto, a quanto pareva.
«Vuole prendere in braccio suo figlio?» suggerì Mia. Per esperienza, sapeva che i bambini erano in grado di sciogliere anche il cuore più duro e sperava che quel piccolo cherubino impaziente aiutasse Stan a ristabilire le priorità della vita.
Lui sembrò incerto per un attimo, poi guardò la moglie. «Posso?»
Lei gli sorrise e nei suoi occhi stanchi trasparì l’amore. «Ma certo.»
Col piccolo tra le braccia, l’uomo sembrava più imbambolato che felice, ma Mia sapeva che molti neopadri impiegavano diverso tempo per abituarsi alla situazione. Lui prese a camminare su e giù per il cubicolo, cullando il bambino e senza mai staccare gli occhi dl suo visetto.
«Come lo chiamerete?» volle sapere Caroline.
«A me piace Michael» mormorò Rhiannon.
Col movimento, la fasciatura del piccolo si era spostata un po’, rivelando un ciuffetto di capelli rossi. Stan si bloccò e si voltò a guardare la moglie. «È così che si chiama?» eruppe, facendo piangere il figlio. «Michael? È lui l’uomo con cui hai dormito?»
La donna gemette. «Smettila, Stan, sono stanca delle tue accuse. Lo sai che ci sei sempre stato solo tu.»
«Voglio un test di paternità!» ringhiò lui.
Mia guardò prima Caroline, poi la paziente che era sull’orlo delle lacrime. «Stan...»
Per tutta risposta lui si girò di scatto per fronteggiarla e il piccolo prese a piangere ancora più forte. «Voglio che lei faccia un test di paternità!»
«Ma è ridicolo» si lamentò Rhiannon.
«Ti rifiuti di farlo?»
«Va bene, signore, basta così» intervenne Mia con fermezza. «Non è il modo di parlare e di certo non è il caso di strattonare il bambino. Lo ascolti, lo ha fatto piangere.» Poi gli andò incontro e tese le braccia. «Lo dia a me.»
L’uomo indietreggiò tenendo il bambino serrato al petto ed estrasse un coltellino a serramanico dalla tasca.
«State indietro» urlò. Caroline trasalì, la moglie si mise a piangere e Mia si bloccò. «Non venitemi vicino» insistette, continuando a indietreggiare brandendo il coltello.
Mia sentì montare la rabbia. Non aveva tempo per drammi del genere. «Va bene» dichiarò nel tono più conciliante possibile, «posso fare il test» assicurò, frapponendosi tra lui e l’infermiera.
Caroline colse al volo l’occasione per sgusciare fuori dal cubicolo senza farsi notare. Le sarebbe bastato premere il tasto d’emergenza sotto al banco delle infermiere e l’intero corpo di sicurezza sarebbe accorso in meno di due minuti.
«Per farlo però è necessario che lei mi dia il bambino» continuò Mia, facendo un altro passo verso Stan.
Lui squarciò l’aria col coltello. «No! Stia indietro!»
Luca di Angelo, che stava passando in quel momento, aggrottò la fronte sentendo le urla dell’uomo, che sovrastavano persino quelle disperate del neonato. Una rapida occhiata all’interno del cubicolo gli fornì un quadro chiaro della situazione. Un uomo armato, un bambino tenuto in ostaggio, una donna che singhiozzava e la coraggiosa dottoressa McKenzie, la gelida, distante Mia, nell’occhio del ciclone.
«Che cosa diavolo succede, qui?» intervenne.
Stan si voltò di scatto verso di lui. «Stia lontano!» urlò nuovamente.
«Dottoressa McKenzie?»
«Va tutto bene, dottor di Angelo» replicò lei con un placido sorriso stampato sulle labbra, mentre