Il limite del piacere
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Anteprima del libro
Il limite del piacere - Sarah M. Anderson
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Straddling The Line
Harlequin Desire
© 2013 Sarah M. Anderson
Traduzione di Canovi Roberta
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-3051-576-5
1
Josey prese un profondo respiro, raddrizzò le spalle e aprì la porta del Crazy Horse Choppers. Il tutto scegliendo di ignorare completamente il brutto presentimento che le stringeva lo stomaco, quello che le ricordava che andare a chiedere una donazione in un negozio di motociclette, per quanto esclusivo, fosse un’idea tremendamente folle.
La reception sapeva di pelle lussuosa e lubrificante per motori; due poltrone con struttura cromata fiancheggiavano un tavolino formato da un piano rotondo di vetro appoggiato precariamente su una collezione di manubri ammonticchiati a formare una base. Josey sapeva riconoscere la ricchezza quando la vedeva, e quell’arredo era senz’altro fatto su misura. Una parete era ricoperta da foto autografate della sua preda, Robert Bolton, insieme a ogni sorta di celebrità o pseudo-celebrità; un divisorio di vetro separava la stanza dall’officina vera e propria, dove diversi uomini grandi e grossi e dall’aria truce stavano lavorando – con tutti gli attrezzi di cui lei aveva bisogno. Che fosse un’idea folle o meno, era disperata: una lezione pratica non può considerarsi tale senza... be’, senza la pratica.
La riflessione fu stroncata sul nascere da una donna che gridava «Bisogno?» per farsi sentire sopra la musica assordante. I Metallica, a occhio e croce. La receptionist – capelli dritti come spaghetti, che volevano essere biondi, tatuaggi fin sopra le orecchie e più piercing di quanti Josey riuscisse a contare – si sedette a una scrivania lucida nera che sembrava di granito; sulla parete alle sue spalle era appesa una splendida collezione di giacche da moto in pelle con lo stemma del Crazy Horse. La donna appariva terribilmente fuori posto.
Un secondo dopo, la musica si quietò, rimpiazzata dallo stridio insopportabile degli attrezzi sul metallo. La receptionist fece una smorfia, e Josey rivalutò l’opinione che si era fatta di lei: se avesse dovuto sentire quel frastuono tutto il giorno, probabilmente anche lei si sarebbe data all’heavy metal.
«Buongiorno» esordì tendendo la mano. La donna adocchiò la sua manicure e i braccialetti e incurvò un labbro. Non era un gesto amichevole. Imperterrita, Josey non fece che addolcire ancora di più il sorriso. «Sono Josette White Plume. Ho un appuntamento per le nove e trenta con Robert Bolton.» Dopo un altro secondo, ritirò la mano. Tenne il mento alto, però.
Che importanza aveva se la receptionist aveva tutta l’aria di essere venuta al lavoro dopo una notte brava? Anche i motociclisti sono persone. Perlomeno, questo era ciò che Josey continuava a ripetersi, sperando di convincersi. Una segretaria contenta faceva la differenza tra l’avere un ordine completato in una settimana o in sei mesi.
La receptionist – la targhetta riportava il nome Cass – si piegò sulla scrivania e azionò l’interfono. «È arrivato il tuo appuntamento delle nove e trenta.»
«Il mio cosa?» La voce che fuoriuscì dall’apparecchio suonava metallica, ma profonda – e distratta.
Robert si era dimenticato dell’appuntamento? Eppure gli aveva mandato una conferma per e-mail la sera prima. Il brutto presentimento tornò alla carica; Josey deglutì, ma non si fece notare.
Cass le rivolse un’occhiata che avrebbe potuto passare per una scusa. «Il tuo appuntamento delle nove e trenta. O meglio, l’appuntamento delle nove e trenta di Bobby. Ma lui è a Los Angeles, o l’hai scordato?»
Un attimo – Come? Chi era a Los Angeles? E con chi stava parlando Cass? Il presagio si fece violento, assalendola con un’ondata di nausea. Dannazione, detestava quando il sesto senso ci azzeccava.
Pensava di essersi preparata. Aveva passato settimane a esaminare tutto ciò che poteva trovare on-line su Robert Bolton: siti, social network, forum – prendendo appunti su chi incontrava e perché. Aveva appreso qual era il suo cibo preferito (cheeseburger di un particolare locale di Los Angeles), dove comprava le camicie (Diesel) e quali attrici era stato sorpreso a baciare (troppe da elencare). Tutto il proprio abbigliamento – fino all’abito nero di lana attillato senza maniche – era studiato in base alla deduzione che Robert Bolton fosse un abile venditore e un egocentrico impenitente, che stava trasformando l’azienda di famiglia in un’impresa di livello nazionale. Diamine, sapeva più di Bolton di quanto sapesse del proprio padre.
Ma tutto ciò non aveva più importanza: lui non si trovava lì e Josey era completamente, assolutamente impreparata a parlare con qualcun’altro. Ed essere impreparata era ciò che più odiava al mondo; non avere un piano significava andare incontro a un insuccesso.
Non era stata preparata al rifiuto di Matt, due anni prima. Lei stava già facendo programmi, ma alla fine lui le aveva preferito la propria famiglia. Josey non era appropriata. Perché era un’indiana Lakota, e quindi non poteva trovare posto nel suo mondo. E lui, da viso pallido, non aveva alcuna intenzione di trasferirsi nel suo.
«So bene che Bobby è in California» borbottò la voce nell’interfono. «È un cliente o un fornitore?»
«Nessuno dei due.»
«Allora perché mi rompi le scatole?» La comunicazione si interruppe con uno scatto sonoro.
«Mi dispiace» si scusò Cass, niente affatto dispiaciuta. «Non posso aiutarla.»
Il congedo, freddo e brutale, le fece montare la collera. Non si sarebbe lasciata ignorare; se c’era una cosa che aveva imparato dalla madre era che una Lakota silenziosa era una Lakota dimenticata – e lei era proprio questo: una Lakota.
Aveva cercato di non esserlo, ed ecco perché si era ritrovata col cuore a pezzi. Quando la relazione con Matt era finita, aveva lasciato il lavoro a New York ed era tornata a casa dalla madre e dalla tribù. Ingenuamente, aveva pensato che l’avrebbero accolta a braccia aperte, ma non era così che era andata.
Perciò ora si ritrovava a fare del proprio meglio per dimostrare di essere un degno membro della tribù, costruendo una scuola nel mezzo della Riserva. Ma ci volevano soldi per costruire una scuola, e ancora di più per equipaggiarla. Il Crazy Horse Choppers non aveva la reputazione di essere particolarmente caritatevole verso le cause nobili... e allora? Robert Bolton era assente... e allora? Qualcuno c’era, e chiunque fosse poteva fare al caso suo. Al diavolo il non essere preparata: la sorpresa poteva giocare a suo vantaggio.
«Certo che può. Probabilmente è lei che manda avanti questo posto, non è così?»
Cass sorrise – senza alzare lo sguardo, ma era comunque un sorriso. «Può giurarci. I ragazzi qui sarebbero persi, senza di me.»
Josey studiò una linea di attacco. «Non ha certo l’età per avere un figlio in età scolare...» Cass alzò la testa di scatto, l’espressione compiaciuta; poteva avere dai trentacinque ai cinquantacinque anni – impossibile dirlo, con tutti quei tatuaggi. Ma le lusinghe aprono qualsiasi porta, se ben utilizzate, e Josey ci sapeva fare. «Sto raccogliendo fondi per il laboratorio di meccanica di una nuova scuola, e ho pensato che un’officina fosse il posto perfetto dove cominciare.»
Be’, quella era una bugia: il Crazy Horse era l’ultimo disperato tentativo di racimolare qualcosa. Aveva cominciato con l’approcciare i grandi costruttori e piano piano era scesa di livello fino a rivolgersi ai meccanici locali e persino agli insegnanti degli istituti tecnici più agiati. Niente. Nemmeno un martello.
Josey era riuscita a ottenere qualche computer da un ventiduenne diventato milionario grazie a Internet, uno chef televisivo aveva donato il necessario per equipaggiare una cucina e un negozio d’arredamento si era liberato di vecchi modelli di tavoli e sedie che avrebbero fatto da scrivanie. Ma non riusciva a strappare una sega a nastro a nessuno. Andando contro le animate proteste di un piccolo gruppo di membri del consiglio della scuola, guidati da Don Two Eagles, che non voleva avere niente a che fare coi motociclisti, e tanto meno coi Bolton, aveva deciso di tentare col Crazy Horse.
Che cosa aveva da perdere? La scuola avrebbe aperto di lì a cinque settimane.
«Una scuola?» L’espressione di Cass si fece dubbiosa. «Non so...»
«Se potessi solo parlare con qualcuno...»
La donna la guardò di sbieco: lei era qualcuno. Così Josey recuperò una brochure e si lanciò nella propria presentazione.
«Rappresento la Pine Ridge Charter School. Il nostro obiettivo è il benessere educativo ed emotivo dei bambini della Riserva Pine Ridge...»
Cass sollevò le mani in segno di resa. «Okay, okay. Mi arrendo.» Azionò di nuovo l’interfono.
«Per la miseria, che c’è ancora?» Volendo vedere il lato positivo, l’uomo all’altro capo della linea non era più distratto. A essere sinceri, però, suonava imbufalito, e il brutto presentimento si ripresentò in toto.
«Non se ne vuole andare.»
«Di chi diamine parli?» Eccellente, rifletté Josey. Alziamo pure la voce.
Cass squadrò Josey da cima a fondo, e nei suoi occhi brillò qualcosa di subdolo. «L’appuntamento. Dice che non va da nessuna parte finché non parla con qualcuno.»
L’uomo imprecò. Volgarmente.
Wow, già alle nove e mezza del mattino. In che accidenti di pasticcio di stava infilando?
«Qual è il tuo problema, Cassie? Tutt’a un tratto non sai più buttar fuori qualcuno?» L’urlo era così forte che per un istante annientò i rumori dell’officina.
Cassie sogghignò, pronta al secondo round. «Perché non scendi» riprese facendo l’occhiolino a Josey, «e la butti fuori tu?»
«Non ho tempo per questo. Fa’ venire Billy a spaventarla.»
«È fuori per una prova su strada. Con tuo padre. Oggi ci sei solo tu.» Sollevò il pollice verso Josey, come a indicare che la situazione stesse volgendo al meglio.
L’interfono emise un gemito terrificante prima di zittirsi del tutto. «Ben sarà qui tra un minuto» annunciò Cass, godendosi appieno il ruolo di spina nel fianco. Indicò una porta nella parete vetrata.
Forse Josey avrebbe dovuto darsela a gambe. Don Two Eagles aveva ragione: il Crazy Horse Choppers era un’idea folle. Stampandosi in faccia il migliore dei sorrisi, invece, ringraziò Cass per l’aiuto, sperando di riuscire così a nascondere il panico che le rivoltava lo stomaco.
Ben? Benjamin Bolton? Robert era l’unico dei Bolton ad essere entrato nel ventunesimo secolo creandosi una presenza online. Fatta eccezione per una sgranata foto di gruppo di tutto lo staff del negozio e un riassunto generico che ripercorreva la storia dell’azienda dalla fondazione da parte di Bruce Bolton, quarant’anni prima, non era riuscita a reperire alcuna informazione relativa agli altri membri della famiglia. Di Ben non sapeva praticamente nulla; doveva essere il direttore finanziario dell’azienda, fratello maggiore di Robert. Per il resto, era tabula rasa.
Prima che potesse decidere se restare o fuggire, la porta a vetri si spalancò. Ben Bolton riempì il passaggio, emanando collera a ondate così palpabili che Josey dovette sforzarsi per mantenere l’equilibrio. Avrebbe fatto meglio a scappare, considerò mentre il signor Bolton ruggiva: «Che diavolo...».
Poi la vide. Per una frazione di secondo rimase immobile, a fissarla. Poi, in lui cambiò ogni cosa: la mascella – solida al punto da sembrare scolpita nella roccia – si irrigidì e gli occhi lampeggiarono di una luce che avrebbe potuto essere ira, ma Josey scelse di interpretare come desiderio.
Forse era solo una speranza illusoria – con ogni probabilità, l’uomo era ancora furioso – ma senza dubbio, Ben Bolton era l’uomo più attraente che avesse visto in molto, molto tempo. Forse da sempre. Sentì il calore salirle alle guance, e non riuscì a decifrare se fosse attrazione, imbarazzo o collera.
Lui si raddrizzò e gonfiò il petto. Okay, la situazione era ancora salvabile. I fratelli spesso hanno gli stessi gusti in fatto di musica, sport... perché dovrebbe essere diverso con le donne? Josey non aveva tempo sufficiente per ricominciare daccapo; sbatté le palpebre, una mossa che aveva imparato anni addietro e che, per quanto potesse essere un cliché, non mancava mai di sortire l’effetto voluto.
«Signor Bolton? Josette White Plume» si presentò, avanzando verso di lui con la mano tesa. Il suo palmo la inghiottì; avrebbe potuto stritolarla, ma non lo fece: la sua stretta era decisa senza essere dominante. Le guance si fecero ancora più rosse. «La ringrazio per avermi concesso il suo tempo.» Sapevano entrambi che le cose non stavano proprio così, ma un gentiluomo non avrebbe contraddetto una signora. La sua reazione le avrebbe fatto capire con che genere di uomo aveva a che fare. «Non so dirle quanto lo apprezzi.»
Bolton gonfiò le narici, i muscoli della mascella che si tendevano. «Come posso aiutarla, signorina White... Plume?» Pronunciò il suo nome come se ne fosse intimorito.
Stupendo: ci mancava solo che cominciasse a blaterare tutte quelle storie che si leggono su Internet sui nativi americani. Comunque fosse, finché non la chiamavano Injun o Pellerossa, il mondo poteva continuare a girare. Strinse la presa sulla sua mano quel tanto che bastava per fargli inarcare un sopracciglio; nella luce soffusa della reception non riuscì a capire se i suoi capelli fossero neri o castano scuro, ma gli stavano comunque molto bene. «Magari potremmo discutere i dettagli da qualche altra parte?»
Improvvisamente, Bolton mollò la sua mano con tale velocità da rasentare la maleducazione. «Possiamo andare nel mio ufficio» suggerì, il lampo di collera che si intensificava ancora di più.
Dietro di lei, Cass ridacchiò, e Bolton la fulminò con gli occhi. Josey fu lieta di non trovarsi sulla linea di tiro;