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Le armi che hanno cambiato la storia
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E-book435 pagine5 ore

Le armi che hanno cambiato la storia

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Info su questo ebook

Le origini e l’evoluzione dei più letali strumenti mai creati dall'uomo 

Il corso della storia è stato contraddistinto da guerre e battaglie, e la realizzazione di armi sempre più efficaci è andata di pari passo con il progresso tecnologico dell’umanità. Dalla lancia alla bomba atomica, dalla freccia al drone, questo libro ripercorre la storia delle armi che hanno cambiato il volto della guerra, e spesso contribuito allo sviluppo delle nuove scoperte in ambito civile. Nel volume sono raccolte armi bianche e da fuoco, artiglierie, bombe, razzi, mine e siluri, armi chimiche, biologiche, psicologiche, di terra, di mare e di cielo, descritte nei particolari e accompagnate da aneddoti ed eventi storici in cui sono state impiegate per la prima volta o sono risultate decisive. Non manca l’analisi di alcune armi che dovevano cambiare le sorti di una guerra, e invece hanno inesorabilmente fallito, nonché la descrizione di altre invenzioni non strettamente belliche – come la jeep, la radio e il filo spinato – che però hanno contribuito più degli armamenti alla vittoria sui campi di battaglia.

Un giorno costruiranno bombe talmente intelligenti che non scoppieranno più…

• Il gladio e la legione
• La katana
• La baionetta
• Il fucile a pietra focaia e il moschetto
• Il revolver e la Colt
• Il Winchester '73
• Il fucile a pompa
• L'AK 47 Kalashnikov
• Il Bazooka
• Il mortaio da trincea
• La bomba a mano
• La granata esplosiva
• Mine terrestri e navali
• La bomba nucleare
• La carabina Williams
• La beretta automatica
• Il drone

e tante altre armi...
Marco Lucchetti
Nato a Roma, laureato in Giurisprudenza, è ufficiale della riserva e Benemerito dell’ordine dei Cavalieri di Vittorio Veneto. Appassionato di storia militare e uniformologia, è anche scultore e pittore di figurini storici e titolare di una ditta produttrice di soldatini da collezione. Consulente per numerosi scrittori, collabora con «Focus Wars». Per la Newton Compton ha scritto 101 storie su Mussolini che non ti hanno mai raccontato, La battaglia dei tre imperatori, 1001 curiosità sulla storia che non ti hanno mai raccontato e Le armi che hanno cambiato la storia.
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2015
ISBN9788854186644
Le armi che hanno cambiato la storia

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    Anteprima del libro

    Le armi che hanno cambiato la storia - Marco Lucchetti

    Le armi bianche

    Il bastone e la lancia

    Quando il genere umano abbia cominciato a combattersi non è dato saperlo con precisione, ma fu sicuramente molto presto, visto che sono stati trovati scheletri di uomini di Neanderthal, vissuti tra i 200.000 e i 40.000 anni fa, con punte di lancia di pietra conficcate tra le ossa. Quale che fosse il motivo di questi scontri, se sottrarsi cibo, donne o territori, è certo che gli uomini vissuti durante l’età della pietra, Homo Neanderthalensis, Homo Erectus o Homo Sapiens, usarono strumenti che potevano aumentare la forza delle proprie mani e colpire a distanza. Sicuramente i primi bastoni, poi divenuti clave, servirono a proteggersi e ad allontanare animali feroci da cui l’uomo cercava di difendersi. Sopravvissuto nel ruolo di preda, l’uomo si accorse che quelle prime rudimentali armi potevano servire per uccidere più facilmente le sue, di prede, soprattutto se in cima al bastone si fissava un frammento di selce appuntita, una roccia sedimentaria che non solo funzionava come pietra focaia, ma che risultava facile da lavorare. Così l’uomo, da cacciato, divenne cacciatore.

    Mi piace pensare che il primo bastone appuntito sia stato lanciato dal cacciatore preistorico contro una gazzella che rimaneva a guardarlo da lontano, per sfogare la propria frustrazione e rabbia e, involontariamente, abbia colpito l’animale: all’epoca gli uomini erano primitivi, ma molto svegli, dovendo sopravvivere in un mondo che faceva di tutto per essergli ostile. Il bastone fu così allungato, in modo da volare più lontano, e la punta, grazie alla selce, resa più affilata. Se poi si cacciava in gruppo, si poteva puntare a prede più grandi, come i mammut, che oltre alla carne potevano fornire pellicce, tendini, ossi e avorio, materiali non solo utili a proteggersi dal freddo, ma adatti a costruire armi più raffinate. E visto che con una lancia si poteva uccidere a distanza un animale, lo stesso trattamento poteva essere usato nei riguardi degli individui delle altre tribù di umani, che dovevano essere allontanati da un territorio pieno di cacciagione o da cui ci si doveva proteggere, in caso di attacchi al proprio, di territorio.

    I primi scontri tra uomini furono probabilmente combattimenti fra singoli individui o tra piccoli gruppi di cacciatori. Considerarle guerre è probabilmente esagerato, proprio perché non si sa quante persone fossero coinvolte in queste sanguinose baruffe, e soprattutto perché è convenzione parlare di guerra solo a partire dall’inizio dell’età del bronzo, intorno al 3000 a.C. Il nemico umano, a differenza dell’animale, se attaccato rispondeva ai colpi e quando si tirava una lancia o una più micidiale freccia, bisognava stare attenti a non essere colpiti dalla lancia o dalla freccia avversaria. Ma gli uomini preistorici erano pochi e di spazio e prede v’era abbondanza. Probabilmente, dopo un primo scambio di insulti e di lance, uno dei due gruppi si allontanava e cambiava aria, con buona pace di tutti.

    Poi l’uomo, da cacciatore-raccoglitore, si trasformò in agricoltore-allevatore e le cose cambiarono. Per occuparsi di messi e di mandrie, divenne un individuo stanziale: costruì case e villaggi, inventò la politica e, in cambio di cibo, incaricò alcuni componenti della propria tribù di dedicarsi al mestiere delle armi, per proteggere la comunità dai predatori, umani o animali che fossero.

    L’artigianato e l’industria primitiva si applicarono a migliorare le armi e, con la scoperta dei metalli, nacque la lunga marcia che dalla clava ha portato l’uomo a costruire la sua prima bomba nucleare.

    La spada di bronzo

    Durante tutta la preistoria le armi con cui gli uomini cacciavano e si affrontavano fra di loro erano realizzate impiegando come punta o come lama la pietra, soggetta a frantumarsi all’impatto con materiali più duri, o a perdere facilmente il filo, perdendo la propria efficacia. Non solo le armi in pietra erano fragili, ma non potevano essere prodotte in serie con una foggia uniforme, restando ciascuna un pezzo unico in mano al guerriero che la possedeva.

    La lavorazione dei metalli portò così a una vera rivoluzione, anche nel campo delle armi. Il primo metallo a essere lavorato fu il rame, all’incirca intorno al 9000 a.C., probabilmente in Medio Oriente. Le prime armi completamente realizzate in rame, solitamente daghe piatte, comparvero invece a ridosso del iii millennio a.C. La prima evoluzione tecnologica della lama fu realizzata dagli egizi, con la fabbricazione del khopesh, una specie di spada-falce risalente al periodo del Nuovo Regno (xiv secolo a.C.) e impiegato sia nei combattimenti della fanteria, sia nelle esecuzioni capitali.

    Il passo successivo, dopo circa mille anni, fu la forgiatura di vere e proprie spade, a lama corta e a doppio taglio, con sezione a losanga o curva, talvolta con una sottile scanalatura longitudinale nel metallo per alleggerire e rafforzare allo stesso tempo la lama. Quest’ultima andò sempre più allungandosi, probabilmente a causa dell’impiego in battaglia di truppe montate, che necessitavano di armi dalla lunghezza sufficiente a vibrare il colpo rimanendo in sella alla cavalcatura. Gli artigiani migliorarono non solo l’efficacia di queste spade, ma anche l’aspetto, dotandole di pomoli ed else decorati e foderi rinforzati con filigrana d’oro. Probabilmente le armi di questo tipo, vere e proprie opere d’arte, non erano realizzate per essere impiegate in combattimento, ma durante le cerimonie.

    Il rame, comunque, rimaneva un metallo morbido, facile a danneggiarsi nell’impatto, e la cui lama manteneva difficilmente l’affilatura. Nelle zone occupate dagli attuali Iran e Iraq, intraprendenti fabbri provarono a fondere il rame con l’arsenico, con scarso successo, e, finalmente, il rame con lo stagno, ottenendo una lega molto malleabile ma, allo stesso tempo, molto più resistente. Eravamo all’incirca nel 3000 a.C. e iniziava ufficialmente l’età del bronzo.

    Questo nuovo metallo, più semplice da fondere rispetto al rame, poteva essere forgiato nelle forme più complesse. La sua durezza, poi, consentiva di realizzare lame migliori e più resistenti: veniva utilizzata una lega con il 10-12% di stagno, che fortificava il materiale senza appesantirlo troppo e senza renderlo fragile (i cinesi preferivano una lega più pesante e dura, contenente il 17-21% di stagno). Si può quindi affermare che la spada come noi la conosciamo nacque proprio in seguito all’invenzione del bronzo. Cominciarono così ad apparire in tutti i Paesi del Mediterraneo, Medio Oriente, Asia ed Europa, spade di bronzo, caratterizzate dalla fusione in un unico pezzo della lama con l’elsa, una tecnica che si rivelerà rivoluzionaria e che permetterà di creare armi più pratiche e robuste. Alla base dell’elsa furono applicati pomoli a disco che potevano offrire una qualche protezione alla mano che brandiva l’arma. Man mano che le tecniche di fusione miglioravano, le lame delle spade venivano forgiate più lunghe: nel Nord Europa furono realizzati modelli di circa 90 cm, con l’impugnatura a forma appiattita, detta a lingua o a lingua di carpa, ricoperta di piastre di osso o di legno, e con la lama adatta a colpire sia di punta che di taglio. La spada con l’impugnatura a lingua fu impiegata con successo durante tutta l’età del bronzo e si diffuse nell’Europa Atlantica e nel bacino del Mediterraneo. La spada di bronzo costituì così l’armamento base per il combattimento ravvicinato, anche in quelle culture in cui la lancia e l’arco mantennero un ruolo dominante. Le tribù delle steppe e le popolazioni del Sudamerica non svilupparono invece spade di bronzo, preferendo, le prime, pugnali corti, gli akinakes, le seconde spade in legno con bordi di pietra, i maquahuitl.

    Come il bronzo aveva soppiantato il rame, il ferro e l’acciaio ebbero il sopravvento a partire dalla fine del xiii secolo a.C., dando il nome a una nuova età: l’età del ferro.

    La sarissa e la falange

    La lancia, anche solo costituita da un bastone con la punta temprata dal fuoco, fu probabilmente il primo manufatto da guerra realizzato dall’uomo. Era inizialmente usata come arma da getto, ma con il perfezionarsi dell’arte bellica assunse anche la funzione di arma d’affondo per impegnare il nemico da vicino, scopo più facilmente raggiungibile impiegando un gruppo di uomini addestrati a combattere insieme secondo tattiche ben determinate.

    La massima espressione di questo tipo di formazione fu la falange greca, costituita da file serrate di guerrieri schierati spalla contro spalla e armati di una lancia lunga fino a 3 m e pesante circa 2 kg. A un’estremità dell’asta vi era una punta larga a forma di foglia, mentre all’altra vi era un tallone appuntito che serviva per bilanciare l’arma, per piantarla nel terreno allo scopo di aumentare la resistenza contro la carica avversaria e come eventuale punta di riserva. I guerrieri che combattevano nella falange erano chiamati opliti e oltre alla lancia imbracciavano uno scudo rotondo da cui prendevano il nome, l’hoplon. Lo scudo, noto anche come aspis cavo o argivo, era a forma di disco concavo composto da un’anima in legno ricoperta di bronzo, la cui superficie anteriore era decorata da un simbolo (episéma) che indicava la città-stato di appartenenza. Pesante 8 kg, con il suo metro circa di diametro, da un lato copriva più della metà del corpo del guerriero che lo impugnava e dall’altro delimitava lo spazio che l’oplita doveva occupare sul campo di battaglia, dando così un preciso punto di riferimento per l’allineamento delle linee della falange oplitica. Le falangi erano l’unità di fanteria pesante per eccellenza nella Grecia classica (vi-iii secolo a.C.) e, quando si scontravano, iniziavano una vera e propria gara di spinte, la othismos, durante la quale le file degli opliti, di solito otto, spingevano con gli scudi contro quelli avversari e affondavano ripetutamente le lance cercando di colpire il nemico. Nel 371 a.C., durante la battaglia di Leuttra, il generale tebano Epaminonda utilizzò per la prima volta contro gli Spartani una variante, la falange obliqua, che consisteva nell’indebolire il centro e la destra del proprio schieramento per rinforzare il lato sinistro, di solito quello considerato più debole, con una profondità di 50 file di opliti. Gli imbattibili Spartani furono sconfitti dai Tebani e Filippo ii di Macedonia si ispirò a loro per riformare le sue forze di fanteria, grazie alle quali li batté a Cheronea nel 338 a.C.

    Alessandro, figlio di Filippo, ereditò dal padre un esercito efficiente e, dove possibile, lo migliorò ulteriormente. La sua falange era profonda da 16 a 32 file di opliti, i pezeteri, protetti da armature pesanti e schinieri e armati di una lunghissima lancia, antesignana della picca rinascimentale (vedi Picca e alabarda, p. 39), chiamata sarissa. La lunghezza e la pesantezza dell’arma obbligavano i pezeteri a impugnarla con tutte e due le mani: lo scudo era quindi più piccolo di quello oplitico classico e veniva portato assicurato alla spalla sinistra. Lo schieramento della falange macedone era rettangolare. Le sarisse delle prime file erano puntate orizzontalmente di fronte allo schieramento, mentre quelle delle file più arretrate venivano portate verticalmente, per proteggersi dalle frecce, e abbassate solo nel momento dell’impatto con il nemico, quando i ranghi della falange si comprimevano: le lance delle prime file colpivano quelle avversarie, aprendo varchi nei quali si infilavano le punte delle picche delle linee retrostanti. Gli uomini, compressi, si proteggevano vicendevolmente con gli scudi portati sulla spalla. I fianchi, i soli punti vulnerabili della falange, erano protetti da opliti armati pesantemente e al riparo del grande scudo, l’aspis, da cui derivava il loro nome, hypaspistai (portatori di scudi dei compagni). Un’ulteriore protezione della falange era data dalla mobilissima cavalleria pesante macedone, gli hetairoi, armati anch’essi di lancia pesante e posizionati sui fianchi dello schieramento.

    La sarissa era lunga fino a 6-7 m, con un’asta di spesso diametro realizzata con legno di corniolo, arbusto durissimo e molto resistente, facilmente reperibile nei boschi d’alta collina e di montagna. L’intera lunghezza dell’arma era ottenuta con due rami distinti tenuti insieme da un tubo di bronzo, utile anche a bilanciarla. La larga punta, in ferro, era lunga tra i 20 e i 30 cm. All’estremità opposta dell’arma era fissato un tallone appuntito di metallo, soprannominato scherzosamente ammazzalucertole.

    L’imbattibile falange mostrò tutti i suoi limiti durante il ii secolo a.C. contro le legioni romane, che la travolsero grazie alla loro potenza di fuoco e alla scelta dei terreni irregolari come luoghi di scontro, dove lo schieramento macedone si trovava in difficoltà. Nonostante questo, schieramenti di tipo falangistico tornarono in auge durante il Tardo Impero e nel periodo delle invasioni vichinghe, quando i Sassoni impiegarono il muro di scudi. Anche la picca divenne protagonista delle battaglie del xv e xvi secolo.

    Il gladio e la legione

    L’esercito ebbe un ruolo fondamentale nell’espansione di Roma e nel corso della sua millenaria storia subì importanti cambiamenti ed evoluzioni che, a partire dalla falange di tipo oplitico, lo trasformarono nella legione, ancora oggi considerata uno dei modelli di massima efficienza militare.

    Secondo la tradizione fu Romolo a creare il primo nucleo dell’esercito romano, e come modello si ispirò alla falange di tipo greco. Servire nell’esercito era un dovere che spettava ai cittadini appartenenti alle classi libere e capaci di equipaggiarsi in funzione delle proprie possibilità economiche. Per facilitare il sistema di arruolamento, Romolo divise inizialmente la popolazione adatta alle armi in tre contingenti militari, ognuno formato da 1000 fanti (pedites) e 100 cavalieri (equites) arruolati tra le tribù che formavano la primitiva popolazione di Roma: l’esercito che ne era costituito fu chiamato legione (da legio, scegliere, in quanto i suoi componenti erano scelti fra i cittadini idonei alle armi). In combattimento la legione si disponeva su tre file, nella tipica formazione a falange di origine greca, con la cavalleria posta ai due lati.

    Durante il iv secolo a.C. la riforma del re romano Servio Tullio cambiò radicalmente l’esercito: i cittadini, gli unici ad avere il diritto-dovere di prestare il servizio militare, furono suddivisi in cinque classi sociali sulla base del proprio censo e armati in funzione del proprio reddito. Le prime tre classi costituivano la fanteria pesante, di tipo oplitico, e si schieravano in battaglia su tre file, mentre la quarta e la quinta erano formate da fanteria leggera posizionata in ordine sparso a protezione della falange e pronta a combattere con essa.

    Man mano che Roma si espandeva, la legione fu riorganizzata non più secondo il censo, ma in funzione dell’età dei soldati che la costituivano: la prima linea era formata dagli hastati, i guerrieri più giovani, la seconda dai principes, soldati più esperti, e la terza dai triarii, i veterani, gli uomini più valorosi dell’esercito. La fanteria leggera era composta dai velites, posizionati davanti alla prima linea in ordine sparso con lo scopo di infastidire lo schieramento nemico con il lancio di giavellotti.

    Alla fine del ii secolo a.C. Caio Mario perfezionò una riforma dell’esercito già in atto da almeno un secolo, equipaggiando tutti i soldati alla stessa maniera e organizzando la legione, ora composta da 4800 uomini, in 10 coorti composte ognuna da sei centurie di 80 uomini. Per la prima volta si trattava di professionisti, armati e pagati dallo Stato, che in seguito avrebbero prestato servizio per almeno vent’anni. La legione era schierata su due file di 5 coorti l’una disposte a scacchiera o su tre file, sempre disposte a scacchiera. Con questa formazione l’unità poteva sia difendere che attaccare: in tutti e due i casi si procedeva prima al lancio dei pila (vedi Il pilum, p. 21) e poi al combattimento con le spade.

    La spada più diffusa tra i legionari a partire dal iii secolo a.C. era il cosiddetto gladius hispaniensis, derivato probabilmente dai mercenari celtiberi al seguito di Annibale: adatta per colpire sia di punta che di taglio, aveva una lama piuttosto lunga (fino a 70 cm) e larga 5-6 cm, i cui bordi correvano paralleli per gran parte della lunghezza terminando in una punta molto affilata. A partire dal periodo augusteo (27 a.C.-14 d.C.) il gladio spagnolo fu affiancato da una variante, il gladio di Mainz, dal nome della località in cui furono trovati i primi esemplari. Questa spada era più corta e tozza, con una lama lunga 50-60 cm e larga 5-6, molto maneggevole e potente nel combattimento corpo a corpo e micidiale nel colpo di punta. Verso la metà del i secolo d.C. i due tipi di gladio furono soppiantati da un nuovo modello, i cui primi esemplari furono ritrovati sepolti tra le rovine di Pompei. Il gladius Pompeii aveva una lama ulteriormente ridotta (tra i 42 e i 55 cm) e pesava solo un chilo. L’impugnatura era composta da un paramano di forma semiovale, a contatto con la lama attraverso un disco di bronzo, da un manico passante in legno, osso o avorio, con quattro scanalature per migliorare la presa, e da un pomello di chiusura in legno o altro materiale pregiato, pesante quanto bastava per favorire il bilanciamento dell’arma. Sarebbe stata la spada che avrebbe servito i Romani fino al termine del ii secolo d.C., quando cominciò a essere rimpiazzata dalla più lunga spatha.

    Il gladio era un’eccellente arma da combattimento, in particolare se impiegata insieme allo scudo e al pilum. Il fodero era fissato sul fianco destro, perché l’estrazione incrociata avrebbe messo in pericolo il compagno schierato alla propria sinistra. Una volta lanciato il giavellotto contro il nemico, il legionario estraeva il gladio e sosteneva il combattimento ravvicinato protetto dallo scudo.

    A partire dal principato di Augusto, la legione subì un’ulteriore modifica, con la prima coorte che fu costituita da cinque centurie di consistenza doppia rispetto alle altre. Lo schieramento rimase quello su due linee con le coorti disposte a scacchiera fino al periodo adrianeo (117-138 d.C.), quando la prima coorte fu schierata in prima fila come una falange e le altre nove alle spalle, su tre file di tre coorti l’una.

    Nel corso del iii secolo d.C. la legione fu definitivamente riformata, diventando una formazione di circa 1000 uomini caratterizzati dal tipo di armamento e dal loro impiego: nacquero così unità di fanteria pesante, di fanteria leggera, di arcieri, collocate nell’esercito di manovra, il comitatus, o a difesa dei confini, i limitanei.

    Il pilum

    […] comandò agli uomini della prima fila di lanciare i loro giavellotti e di gettarsi immediatamente a terra; la seconda, la terza e la quarta fila fecero lo stesso in successione, in modo da evitare di essere colpite dai giavellotti lanciati dalle file posteriori. Quando l’ultima linea ebbe scagliato i giavellotti, scattarono tutti in avanti e, lanciando l’urlo di guerra, assalirono il nemico corpo a corpo. Il lancio di tanti giavellotti, seguito da una immediata carica, gettò il nemico nella confusione. Questi giavellotti non assomigliano alle normali lance: i Romani li chiamano pila, hanno quattro facce, sono fatti per metà in legno, per metà in ferro dolce, tranne la punta. In questo modo l’esercito dei Boi fu completamente distrutto dai Romani […] (Appiano Alessandrino, Keltikè, 1).

    […] I Romani, lanciando dall’alto i pila, riuscirono facilmente a rompere la formazione nemica. Dopo averla scompigliata la caricarono con le spade in pugno. I Galli erano impacciati nel combattimento perché molti dei loro scudi erano stati trafitti dal lancio dei pila e, poiché i ferri si piegavano, non riuscivano a svellerli e non potevano combattere con la mano sinistra impedita. Molti allora, dopo avere a lungo scosso il braccio, preferivano gettare lo scudo e combattere allo scoperto […] (Giulio Cesare, De Bello Gallico,

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    , 25).

    Il pilum, descritto così dettagliatamente da Appiano e da Cesare, era un’arma da lancio realizzata per perforare agevolmente qualsiasi tipo di scudo. L’impugnatura era costituita da una pesante asta di legno lunga tre cubiti (133 cm secondo lo storico Polibio, che la chiamava con il termine greco ussos) che terminava con un castello di forma piramidale. All’interno del castello era realizzata una scanalatura che conteneva la parte in ferro, la cui lunghezza era di circa 25-35 cm. La punta era a forma quadrangolare o a foglia. Le due parti erano fissate saldamente da due o tre perni o rivetti in ferro. Anche se in alcune occasioni veniva usato come una lancia da urto, il pilum era soprattutto un giavellotto pesante che poteva perforare agevolmente qualsiasi scudo in legno: la lunghezza della parte in ferro era studiata in modo che la punta potesse raggiungere l’avversario dopo avere trapassato il suo scudo, anche nel caso in cui l’avesse tenuto alla massima distanza possibile dal proprio corpo. E qualora il pilum non fosse riuscito comunque a colpire la figura, il contrappeso che si trovava nel punto di incastro tra l’asta e la punta in ferro provocava il piegamento della parte metallica, impedendone l’estrazione dallo scudo e il suo riutilizzo da parte del nemico.

    L’origine del pilum è incerta, venendone attribuita la paternità ai Sabini, ai Sanniti e agli Iberi. L’unica certezza è che, a partire dal iv secolo a.C., i legionari romani erano armati di due pila ciascuno. Il suo uso in battaglia divenne fin da subito l’elemento fondamentale della tattica della legione e, anche con le riforme dell’esercito romano nei secoli successivi, il suo impiego non fu mai messo in discussione. Trattandosi di un’arma pesante, la sua gittata era piuttosto modesta, di circa 20-25 m, e il volo particolarmente lento: per un utilizzo efficace su una massa compatta di avversari era necessario così effettuare un lancio coordinato e simultaneo da parte di una o più file intere di legionari.

    A partire dalla seconda metà del ii secolo a.C. la lunghezza della parte in ferro venne aumentata, raggiungendo i 50-70 cm, con la punta che assunse definitivamente la sezione quadrangolare, più idonea alla penetrazione. Esistevano tre tipi di pilum: uno, più leggero, con attacco a manicotto, detto anche a incastro; uno a codolo piatto, che veniva però frequentemente piegato e ribattuto attorno alla parte in legno per migliorare l’attacco, e un altro a codolo a punta, in cui il ferro terminava con una stretta lingua che veniva fissata al legno con un semplice rivetto, mentre un collarino di ferro contribuiva a migliorare la coesione tra le parti. In questo caso la punta assumeva una forma decisamente piramidale.

    Il pilum in dotazione ai legionari durante l’impero non presentava grosse variazioni rispetto a quello del periodo repubblicano: il castello di collegamento in legno si affusolò e assunse una forma piramidale allungata, con la parte in ferro che raggiunse una lunghezza compresa tra i 60 e i 90 cm. I sistemi di attacco si limitarono a quello a codolo piatto per il giavellotto pesante e a manicotto per il tipo leggero. Nel primo caso il castello di legno venne rinforzato con l’inserimento di un canotto di bloccaggio in ferro di forma rettangolare o piramidale e con una sfera di appesantimento, presumibilmente in bronzo o in piombo, per aumentare l’energia d’impatto dell’arma. Durante il iii secolo d.C., la lancia tornò a essere l’arma base del soldato romano, ma il pilum continuò a far parte del suo equipaggiamento. Il pilum pesante, ora chiamato spiculum, era dotato di una punta a sezione triangolare con la parte in ferro lunga 22,2 cm e quella in legno di 162 cm. Il vericulum o verutum era invece il giavellotto leggero e divenne l’arma in dotazione ai fanti leggeri, detti lanciarii, che ne trasportavano fino a cinque ciascuno.

    A partire dal iv secolo divenne popolare sul fronte del Reno una punta di pilum a manicotto, lunga 50 cm e dotata di alette laterali, molto simile all’angon, un’arma che verrà usata dai Franchi nel vi-vii secolo d.C.

    La spada normanna

    Nel 911 Carlo il Semplice, re di Francia, concesse ai vichinghi invasori una piccola porzione di territorio lungo il basso corso della Senna: erano guidati dal principe norvegese Hrolf, in latino Rollone, che divenne prima alleato e poi vassallo di Carlo. All’epoca i vichinghi erano chiamati Nordmaenner (uomini del Nord) e, di conseguenza, le zone da loro possedute nel Nord della Francia, che si espansero rapidamente, presero il nome di Normandia. I normanni, nel frattempo convertitisi al cristianesimo, erano guerrieri formidabili e divennero anche grandi cavalieri, ma la maggior parte di loro, non essendo di nobili natali, rimase povera e senza terra. Diventarono così combattenti di professione e si misero al servizio di potenti signori o migrarono alla ricerca di terre e ricchezze. In un paio di secoli conquistarono territori in Terrasanta, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Galles, Spagna, Italia meridionale e Sicilia. Di mente aperta e versatile, assimilarono la cultura delle zone assoggettate, ma allo stesso tempo diffusero i propri costumi, soprattutto nel campo delle arti militari. Tra il Mille e il Milleduecento, tutti i guerrieri dell’Europa occidentale vestivano ed erano armati alla normanna e non era facile distinguere chi fosse veramente un originario uomo del Nord.

    La loro arma principale era la spada, la cui impugnatura era costituita dal codolo, sul quale venivano incastrati il pomolo, il manico e l’elsa, il tutto bloccato dal bottone. Il codolo era la parte interna dell’impugnatura, ed era formato da un prolungamento della lama e prodotto in un’unica fusione con essa. Il pomolo era la parte terminale dell’impugnatura, generalmente più largo di questa per impedire che l’arma sfuggisse di mano al guerriero. Alla sua estremità vi era il bottone, il cui compito consisteva nel tenere fermo il pomolo sull’impugnatura. Il bottone generalmente era un prolungamento del codolo, che veniva ribattuto per incastrarlo sul pomolo, fungendo così da fermo. Il compito del pomolo era anche quello di equilibrare il peso della lama, perché una spada ben bilanciata risultava più maneggevole, e quindi più veloce, di una male equilibrata. Il manico, che rivestiva il codolo, era la porzione dell’impugnatura con cui veniva effettivamente afferrata la spada. Poteva essere di diversi materiali: in legno, in osso, in corno, ricoperto con pelle conciata, ma anche in cuoio, ferro, ottone e, a volte, in materiali preziosi come l’avorio, usato principalmente per le spade da cerimonia, spesso arricchite con pietre e metalli preziosi.

    Le prime spade non possedevano l’elsa, o guardia, che fu aggiunta solo in seguito per riparare la mano dalla lama dell’avversario, ed era inizialmente costituita da una semplice barra di ferro posta perpendicolarmente alla lama.

    La lama era diritta e lunga anche 120 cm, solitamente forgiata in acciaio e suddivisa in tre parti principali in base alla resistenza: la parte più vicina al manico era chiamata forte, la parte centrale medio, e quella più distante prendeva il nome di debole. Vi era poi una quarta parte detta punta, che nella spada normanna era a forma leggermente tonda. Sui bordi della lama c’era il filo, vero (dritto), che guardava l’avversario e si trovava nella stessa direzione delle nocche di chi impugnava la spada, e falso (rovescio), che rimaneva rivolto verso chi la impugnava e nella direzione del pollice: per questo motivo veniva chiamata spada a due lame o a due tagli, nella quale la distinzione tra dritto e rovescio non era sempre univoca se la forma dell’elsa era simmetrica, ma dipendeva semplicemente da come si impugnava l’arma. Spesso nella parte centrale, il lato piatto, era presente lo sguscio, una scanalatura al centro della lama, erroneamente chiamato scolasangue: non serviva in realtà a favorire la fuoriuscita di sangue dalla ferita inferta, ma a dare leggerezza all’arma, aumentarne l’elasticità senza intaccarne la robustezza e facilitare l’estrazione della lama dal corpo dell’avversario dopo l’affondo di punta, diminuendo l’effetto a ventosa. Con la spada normanna si portavano soprattutto colpi di taglio, ma non erano rari anche gli affondi di punta che, pur arrotondata, era molto affilata.

    La spada era l’arma più apprezzata e di maggior valore per i normanni; nulla di strano, per quei secoli in cui quest’arma possedeva anche una forte valenza spirituale, emblema della regalità e simbolo per eccellenza della cavalleria. Per il cavaliere la spada possedeva una sua personalità e aveva un nome proprio, basti pensare alla Excalibur di re Artù e alla Durendal del paladino Orlando. Importante era anche la sua valenza religiosa, con lama, elsa e guardia che formavano una croce latina, un lato della lama che serviva a colpire gli infedeli, l’altro i cattivi e i delinquenti. Sulla spada si giurava perché era il simbolo della giustizia e dello spirito di Dio.

    La spada a due mani

    La classica spada medievale (vedi La spada normanna, p. 23) era un’arma adatta a colpire soprattutto di taglio, concepita per essere impugnata con una mano sola, perché l’altra era destinata a tenere lo scudo. Verso la fine del xiii secolo cominciò a diffondersi sui campi di battaglia l’uso dell’armatura a piastre, che proteggeva il cavaliere dai colpi di taglio. La contromossa fu quella di adottare una punta più rigida e affilata, con la sezione a diamante che potesse scivolare e penetrare tra le giunture della corazzatura. Per un certo periodo il cavaliere portò la spada da taglio alla cintura e una spada un po’ più lunga, da tocco, assicurata alla sella e utile per finire l’avversario durante uno scontro ravvicinato una volta sceso da cavallo.

    L’evoluzione dell’armatura a piastre, che alla fine del xiv secolo arrivò a coprire quasi tutto il corpo, rese lo scudo obsoleto

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